Note al capitolo

Scommettete avanti...I giovedì di gioco alla Serpe Argentata sono i più sfavillanti di tutta la Gran Bretagna magica.
Attenti però...una puntata sbagliata e potreste finire in rovina, non c'è mano caritatevole in un covo di serpi.

Solo spire e zanne pronte ad avvelenavi...

Io vi ho avvertiti.
Chimere e Basilischi
Aveva passato tutta la notte cercando di resuscitare un dannatissimo zombie centenario, che aveva deciso di cacciare la sua putrescente testa fuori dalla fossa solo verso le quattro di mattina. Quando Asteria era ormai allo stremo delle forze.
“Per resuscitare più facilmente quello zombie, dovresti compiere un sacrificio umano, tesoro. Sei troppo inesperta e giovane per farcela con qualche capra. Ora inciditi il polso, sentirà il richiamo del tuo sangue Negromante e risorgerà, vedrai”
Le disse dolcemente sua nonna Calipso, che guidava il suo primo tentativo di “Zombificazione”, il quale avrebbe decretato la sua ammissione o meno alla congrega Negromantica guidata da suo padre.
Asteria però voleva solo piangere e lavarsi. Quella fanghiglia disgustosa, formata quando il sangue di capra si era mischiato al terriccio smosso della tomba, le si era appiccicata addosso ovunque, disgustandola profondamente.
Dentro di sé malediva sua nonna, il suo antenato Caiaphas Greengrass, che non si decideva a risvegliarsi; le capre sgozzate che puzzavano da morire e soprattutto suo padre, il quale si limitava a guardarla distaccato, come se non gli importasse nulla di tutti gli sforzi che stava facendo.
Xerses voleva i risultati, per lui nessuno era degno di nota se non era più che eccezionale. Il motto “L’importante è partecipare”, non esisteva nel suo vocabolario: o ce la facevi o eri un perdente.
Respirò profondamente mentre cercava di ritrovare la calma; afferrò il pugnale sacrificale assicurato alla coscia e si incise il polso.
Il freddo le aveva intirizzito le mani tanto da rendere la presa tremula e poco salda; l’impugnatura scivolò e la lama affilata affondò nella carne più del necessario, e ne fuoriuscì un fiotto copioso di sangue.
Si morsicò il labbro per non ululare di dolore. Non voleva far irritare ulteriormente Xerses Greengrass, che già, le pareva piuttosto scocciato.
Quando quell’ammasso di ossa rinsecchite strisciò fuori dalla sua fossa e i tessuti ricominciarono la lente e disgustosa fase della ricostruzione, ci mancò poco che la giovane strega si vomitasse addosso.
Piccoli vermi biancastri uscivano dai tessuti putrefatti, i bulbi oculari erano ricoperti da oscuri liquami.
Lo zombie emanava un puzzo talmente orrido, che al suo confronto dalle carcasse di animale pareva provenire olezzo di rosa.
Sentì qualcosa dentro di sé, come un’energia potentissima, una sorta di onda gelida che l’accarezzava.
Il potere della Morte era palpabile in quella gelida notte Scozzese, al Greengrass Castle.
Quando Caiaphas le si presentò di fronte, ricostruito quasi del tutto, la strega stava per piangere dall’emozione: aveva resuscitato il suo primo zombie, tutto da sola.
“Ora, devi fargli bere dal tuo polso, in modo tale che risponda alla tua volontà.” Ribadì Calypso, con calma e fermezza.
Asteria aveva annuito a sua nonna, ma non era particolarmente felice che quell’ammasso di carne putrefatta bevesse il suo sangue.
Titubante, accostò il polso ferito alla bocca di quella creatura che bevve avidamente; la testa le girò un paio di volte e riuscì a non svenire per miracolo. Si staccò da quell’essere putrescente quando sentì che stava per perdere i sensi.
Vide gli occhi di Caiaphas, che fino a poco prima erano vuoti privi di coscienza, recuperare la scintilla della vita. Era pronto per essere interrogato.
“Caiaphas Greengrass, sono Asteria Greengrass, una tua discendente. Ti ho richiamato dal “Regno dei Morti” per farmi svelare da te il mistero che lega la nostra stirpe. Raccontami, Caiaphas.”
Ogni membro della famiglia che si apprestava a prendere parte della “Congrega dei Negromanti” guidata da Xerses, aveva quel passo obbligatorio da affrontare: resuscitare colui che aveva rafforzato il sangue di quella famiglia. Un segreto che i Greengrass custodivano gelosamente e si tramandavano di padre in figlio tramite quel rito di passaggio.
Lo zombie cominciò a raccontare, Asteria dovette distogliere lo sguardo dalla bocca piena di vermi per non stare male: era davvero disgustosa.
“Tempo fa, mentre passeggiavo nella mia tenuta, vidi una splendida donna dai lunghi capelli corvini intenta a fare il bagno nel Loch vicino al castello. Era talmente bella che caddi vittima del suo sortilegio e la sposai. Si rivelò essere una “Lamia” ma ero troppo innamorato per lasciarla o distruggerla; così il nostro sangue venne irrimediabilmente contaminato.”
Le parole di Caiaphas uscivano atone e lente, come se non ne fosse stato lui il protagonista di quella vicenda; Asteria ascoltava affascinata, sapeva che i suoi antenati erano stregoni dediti alle Arti Oscure, ma non immaginava che la sua stirpe si fosse incrociata a quella di una Lamia.
Nel mondo magico, capitavano spesso fatti del genere. I Maghi venivano irretiti dal fascino di creature come “Ninfe” o “Veela” che con le loro abili arti magiche riuscivano a farsi sposare, e ad avere dei figli da loro.
Il più delle volte i pargoli ereditavano solo in parte le caratteristiche mostruose delle genitrici, acquisendone determinati poteri: per esempio le Veela partorivano solo femmine, le quali non mutavano in mostri come le madri, ma ne ereditavano il fascino irresistibile.
I figli delle “Lamia”, di solito, potevano diventare Metamorfomagus, acquisendo il potere di cambiare forma delle ancestrali vampire. Parlare il Serpentese o diventare Negromanti. Nessuna di queste caratteristiche era certa nel nascituro, di solito si scoprivano durante i mutamenti dovuti all’adolescenza.
Nel caso specifico dei Greengrass, la caratteristica che si era tramandata nei secoli era quella della Negromanzia; di membri del clan che parlassero il Serpentese non ne esistevano più. Forse era rimasto qualche Metamorfomagus, ma non nella famiglia di Xerses e Tamora Greengrass, questo era certo.
“E’ per quello che il nostro simbolo araldico è una Lamia …”, sussurrò Asteria, con gli occhi che le luccicavano, l’idea che nelle sue vene scorresse il sangue di uno dei figli della Morte più potenti e rari che esistevano, la esaltava.
Caiaphas annuì, meccanicamente e sorrise.
“L’amavo talmente … che non potei non dedicarle il simbolo della nostra famiglia. Capisci?”
“Il sangue di Lamia ha rafforzato il nostro potere Negromante, tutto grazie a te e alla tua sposa! So che i morti possono rivelare stralci di Futuro. Dimmi, Caiaphas, cosa mi riserva il mio avvenire?
Lo zombie chiuse gli occhi e gettò la testa all’indietro. Mormorò delle parole una lingua strana, forse antico Egizio.
Dopodiché, tornò a fissarla; dai bulbi oculari uscì una luce strana, verdastra e fredda. Asteria sentì che la Morte le stava comunicando stralci di futuro attraverso di essa; serrò le palpebre e si lasciò sommergere da quelle visioni.
Vide se stessa leccare il Marchio Nero, alzò la testa e trovò il bacio di Draco Malfoy ad aspettarla.
La baciava in continuazione tenendola stretta; Asteria sentì una sorta di calore pervaderle il corpo. Subito dopo la visione cambiò e vide se stessa stringere un minuscolo pargolo dai capelli finissimi e biondi che riposava placido fra le sue braccia.
Si svegliò bruscamente, Caiaphas aveva interrotto il contatto visivo; Asteria aveva barcollato all’indietro cadendo, di nuovo, nella fanghiglia vischiosa.
Non aveva mai sentito niente di più bello del benessere datole da quelle visioni, e l’uomo che le avrebbe donato la felicità era niente di meno che Draco Malfoy. Nessuno l’aveva mai fatta sentire così completa e al sicuro, nemmeno i suoi genitori. Non avrebbe detto a nessuno quello che aveva visto.
“Ora, Caiaphas, io con l’acciaio ti lego alla terra. O Morte, riprenditi questo tuo figlio che generosamente hai fatto tornare a me.”
Prese due piccole falci d’acciaio e le incrociò sul petto del suo antenato, che magicamente rientrò nella bara esalando nell’aria lo spirito che l’aveva animato.
Suo padre la stava guardando, fiero.
Gli occhi azzurri gli brillavano di contentezza e sul suo viso era stampato un placido sorriso che significava solo una cosa: Asteria era riuscita a catturare l’attenzione del padre, l’unico modo che avesse per ottener un minimo di potere in quella dannata casata.
“Figlia mia, brava. Ti sei guadagnata un posto nella nostra congrega. Ora smaterializzati, tua madre ti vuole alla Wollstonecraft House di Londra; io qui ho ancora qualche incombenza da sbrigare, arriverò domani, in tempo per vedere te e tuo fratello gareggiare.”
Diede un bacio sulla fronte alla figlia e si materializzò al castello assieme a Calypso.
il Greengrass Castle, di fatto, era la dimora in cui Xerses si rifugiava per pensare; non era mai stato un uomo particolarmente loquace e quell'austera ed essenziale sistemazione lo rispecchiava appieno.
Poteva passare le ore a osservare gli animali fantastici che bazzicavano in quella landa desolata e andare a caccia con i suoi cani, che amava almeno quanto i suoi figli.
Senza che nessun obbligo sociale, lo costringesse a tenere noiose conversazioni e a dispensare affettati sorrisi.
Quella non sarebbe stata, in ogni caso, la sua solita serata solitaria in compagnia dei suoi amati cani e di un buon libro, letto sulla poltrona del suo studio, alla calda luce di un focolare scoppiettante.
Aspettava ospiti per discutere di questioni politiche molto importanti. Erano anni che osservava la scena politica Magica Britannica. Lui faceva parte della squadra degli “Indicibili” ed era membro del “Wizengamot”, in cuor suo, però, aspettava solo il momento di candidarsi a “Ministro della Magia”.
Il mondo che amava non esisteva più. Per un uomo dedito all'Antica Religione e agli Ancestrali Riti, la contaminazione del Cristianesimo e dei miti Babbani, era qualcosa di nefasto, che sporcava la sua concezione di Statuto Magico.
Voleva che le streghe e i maghi capissero l'importanza delle antiche tradizioni, ma l'uso della violenza e della forza non faceva parte della sua visione: pretendeva il rispetto e la fiducia dei suoi sostenitori, non la cieca obbedienza data dal terrore.
Gli altri, coloro che avrebbe governato, secondo il suo giudizio erano inferiori; ma non andavano puniti per quello.
Non c’era nulla da salvare, nella folle strategia di conquista di Lord Voldemort. Coloro non all’altezza di detenere il potere, dovevano solo essere guidati verso la giusta via da seguire, non distrutti.
L' uomo non era uno sciocco, sapeva che molti avrebbero considerato la sua utopia politica come elitaria e razzista.
Quindi nascondeva i suoi piani dietro a campagne politiche in cui palesava il suo sostegno a Kingsley Shacklebolt, a laute donazioni al “Ministero della Magia” e all'ospedale “S. Mungo”.
Doveva sembrare al cento per cento favorevole alla nuova politica per non destare sospetti. Abituato com’era a fingere, ci riusciva alla perfezione, anche se era faticoso nascondere le proprie brame di potere, soprattutto, per un tempo così lungo.
Fortunatamente, la pazienza era una sua grande dote.
Un piccolo e zoppicante Elfo Domestico si materializzò davanti a lui, aveva cespugliose basette bianche e un abitino elegante da maggiordomo.
“Gli ospiti sono arrivati, signore.”
Annunciò la creaturina, con voce bassa e roca, inchinandosi.
“Grazie, Grimiol. Li riceverò nello studio, conducili là.”
Si diresse verso il suo studio, Lucius Malfoy e Ian Nott l'avrebbero raggiunto a breve.
Era speranzoso.
Voleva convincere i due ex Mangiamorte a unirsi alla sua impresa; sapeva certo come districarsi tra le insidie della retorica per convincere le persone a stare dalla sua parte.
Non era sicuro, però, che i suoi bei discorsi e le promesse che avrebbe fatto loro, per convincerli a sostenere il suo piano di insediamento politico, avrebbero funzionato. Si versò del brandy, in attesa dell’arrivo dei suoi ospiti.
Le lunghe dita di Xerses Greengrass stringevano delicatamente la base di un capiente bicchiere, rigirava il liquido ambrato con grazia, in un abitudinario gesto da intenditore: scaldare il liquore per esaltarne l'aroma.
Malfoy e Nott vennero scortati al suo cospetto preceduti da Grimiol, il quale con un profondo inchino si smaterializzò, lasciando i due ex Mangiamorte da soli con il suo padrone.
I due uomini si guardavano attorno circospetti, il padrone di casa si alzò ed educatamente li invitò a sedere.
I due si accomodarono su antiche ed eleganti poltrone di legno e velluto rosso.
Grimiol ricomparve, offrendo loro Brandy e sigari, che accettarono di buon grado.
“Lucius, Ian, vi ringrazio amici miei per aver accettato il mio invito. Vi ho chiamati per parlarvi del processo e di altre cose. Ho buone notizie: Lucas Pritchard mi ha detto che l’ultima udienza è solo una pratica per sbloccare interamente il vostro patrimonio. Quindi, preparatevi a festeggiare!”
Xerses li stava aiutando, tramite il suo avvocato Lucas Pritchard, a uscire indenni dal processo che si era protratto nel tempo.
In loro favore avevano la testimonianza di un riluttante Harry Potter, e il buon cuore del nuovo Ministro della Magia, il quale tendeva a non esagerare con la severità, se non quando fosse più che necessaria, evitando di prendere le misure drastiche del suo predecessore Rufus Scrimegeour.
“Torniamo agli affari, signori. Allora, Lucius, a tuo favore ci sono delle forti attenuanti date dal fatto che hai tradito l'Oscuro Signore. Anche se sono cose vecchie, al processo salteranno fuori, e per l'ennesima volta, aggiungo io.”
Lucius deglutì all'idea di quei ricordi, arricciò il lungo naso tanto da far fremere le narici e contorcere le sottili labbra in un ghigno: marchio di fabbrica Malfoy. Era incredibile quanto tutti i Malfoy si somigliassero tra di loro, come se del loro patrimonio genetico facesse parte persino la mimica facciale.
“L’abbiamo fatto per salvare i tuoi figli e la nostra famiglia, Xerses. Mia moglie Narcissa ha giocato un ruolo essenziale nell'ultima guerra. Senza il suo aiuto, si sarebbe svelato l'inganno e molto probabilmente l'Oscuro Signore sarebbe ancora vivo.” Aveva sibilato l’uomo, con un tono particolarmente piccato.
“Sì, Lucius. Comprendo tutto, ma tu avevi offerto il Malfoy Manor come base per i vostri piani ed intrighi. - Spiegò Xerses pacatamente, senza tradire alcun fastidio.- Fino adesso la linea di difesa basata sul fatto che temevi per il tuo giovane erede ha tenuto: ti ha lasciato fuori da Azkaban. I membri del Wizengamot non si sarebbero mai aspettati di avvertire tanto pentimento e senso di colpa nelle tue parole, le quali hanno avuto il loro effetto”.
Lucius fece un sorriso stiracchiato: la linea di difesa, orchestrata dall'avvocato di Xerses, era basata sulla sua pubblica umiliazione.
Gli era stato insegnato a celare quello che considerava privato, non sopportava che le sue disgrazie venissero messe in piazza e svendute al miglior offerente.
Secondo suo padre Abraxas e sua madre Kriemhild, i sentimenti erano da tenere scrupolosamente nascosti, riservati, era tanto abituato a celarli che molte volte si dimenticava quasi di averli.
Essere umiliati in pubblico in quel modo, era una cosa che faticava a mandare giù provava ad aiutarsi con quel brandy dal corposo gusto di vaniglia e liquirizia, ma nonostante l'ottima annata e il raffinato sapore, quel rospo in gola non andava né su né giù.
“Veniamo a te, Ian. La tua età è ormai avanzata, non credo che ti porteranno più nelle celle di Azkaban e opto per sperare che i venerabili membri dei Wizengamot abbiano pietà di voi; Lucas non perde mai una causa, entrambi siete in ottime mani, signori. Non temete”, Sorrise compiaciuto: si conoscevano ben pochi maghi così sicuri del proprio successo e delle proprie ragioni come Xerses Greengrass.
Una volta Lucius era come lui, ma i favori concessi al padrone sbagliato, l'avevano costretto a tarparsi le ali dell'arroganza Purosangue.
“Xerses, io sono stato uno dei primi seguaci del signore oscuro” -Disse Ian Nott con un filo di voce. - Ero ad Hogwarts con lui, era mio amico oltre che il mio signore. Ha preteso il servizio di Theodore, eppure in cuor mio ho sempre avuto il timore che il signore cui ho dato tutta la mia vita, non abbia fatto altro che mettere tutti noi al servizio della sua immortalità. Come servi, più che fedeli compagni, ahimè”.
Le parole erano state pronunciate con un'amarezza tale, che avevano cancellato persino il ghigno di malcontento di Lucius Malfoy, anche perché era esattamente quello che anche lui pensava.
Aveva sempre creduto che Lord Voldemort gli avrebbe portato gloria e ricchezze, ma l'unica cosa che aveva lasciato a tutti loro era solo miseria, umiliazione e rovina.
La stanza riluceva di una luce calda, ambrata, dovuta alle lampade ad olio che aleggiavano nell'aria grazie ad un incanto.
Il fuoco nel camino scoppiettava vivace, a dispetto dei pesanti discorsi che si stavano svolgendo all'interno di quello studio accogliente.
“Quando finirà l'incubo Shacklebolt?” –Sbottò Lucius, i freddi occhi infiammati da una sorta di rabbia silenziosa.- Xerses, in cuor mio non ho mai visto nulla di così grave per il nostro mondo. Figli di Babbani hanno posizioni di rilievo, i Weasley alla Serpe Argentata e siamo obbligati a pagare degli Elfi Domestici. Non so più in che razza di mondo viviamo”.
Xerses capì cosa doveva fare. Ascoltava le loro lamentele con avidità, cercando di captare le loro debolezze per usarle a suo favore.
“Lucius, vecchio mio, calmati.- Rispose, con voce pacata.- So cosa sta succedendo all'interno del “Ministero”: faccio parte del “Wizengamot”. Sono un Indicibile e il mio primogenito, Ganymed lavora negli uffici amministrativi del Ministro in persona. Mi riferisce tutto nei minimi particolari. La situazione, hai ragione, non è certo delle più felici, ma nemmeno delle più disperate! Ho intenzione di candidarmi io stesso come “Ministro della Magia” al momento opportuno e le cose cambieranno notevolmente.”
A entrambi gli uomini luccicarono gli occhi di speranza: l'ambizione di Xerses era nota e se fosse riuscito in quell'intento, allora sì che le loro preziose dinastie Purosangue sarebbero state al sicuro.
“Mio padre Abraxas ha convinto quelli del consiglio a dare un lavoro a mio figlio; sai cosa gli fanno fare? L'Obliviatore. Aiuta i Babbani, il povero Draco è umiliato da questo compito ingrato affidatogli dal ministero. Si prendono gioco di noi …”
Per qualche istante, Xerses dovette dar fondo a tutta la sua capacità di fingere contegno, per non scoppiare a ridergli in faccia.
Trovava l’idea che un Malfoy lavorasse per la difesa dei Babbani esageratamente comica. Trangugiò un abbondante sorso di Brandy che lo aiutò a rimanere serio.
“Lucius, ho parlato con Ganymed, vuole fare un colloquio a tuo figlio, posso assicurarti che Draco farà carriera. Sappiamo entrambi che è adatto ad incarichi più prestigiosi, di un semplice Obliviatore.”
Xerses si alzò dalla scrivania e li invitò a fare altrettanto: ”Seguitemi, amici cari, c'è una cosa che voglio mostrarvi.”
Il mago aprì una porticina nascosta da un arazzo, e li condusse in una stanza piena di antichi cimeli di famiglia.
Vecchi diademi, spade e bacchette erano sistemati in bella vista in eleganti teche di cristallo soffiato e argento; nulla era lasciato alla polvere e alla mano impietosa del tempo.
Teste di Drago, Chimera e Grifone osservavano i tre uomini dalle pareti con i loro occhi vitrei e privi di vita. Erano stati cacciati da suo padre Kronos Greengrass e impagliate dai più bravi artigiani magici.
Ora tale nobile passatempo era proibito. Quei trofei di caccia erano la testimonianza di un'epoca in cui i maghi potevano tutto, persino cacciare pericolosi e mitologici animali a dimostrazione della loro superiorità.
L’enorme albero genealogico dei Greengrass, formato da un intreccio di fili rossi e neri, era sormontato da un antico stemma araldico raffigurante una Lamia, con una bacchetta in una mano e un falcetto druidico nell’altra.
Esso derivava dai più antichi ceppi di famiglie magiche: i fili rossi, che sembravano lava liquida perennemente in movimento, rappresentavano i rami ancora vivi della famiglia; quelli ormai defunti erano neri e lucidi come ossidiana.
Il tutto, finemente scolpito nella roccia come da antica tradizione. Esistevano anche copie su pergamena e arazzo, sparse per le varie residenze dei Greengrass, di foggia più moderna. Giusto per non dimenticarsi dei propri avi.
“Il tuo albero genealogico… anche noi al “Malfoy Manor” l'abbiamo scolpito nella pietra, ma ho deciso di metterlo nel salone in bella vista. Così che tutti siano a conoscenza della purezza del nostro sangue e il prestigio delle nostre origini.”
Xerses ridacchiò, ironicamente.
“Oh, Lucius, non avevo dubbi in proposito. Noi preferiamo tenerlo al riparo da occhi indiscreti, celebrando i nostri antenati come Dei. Come si meritano, perché è quello che siamo, signori noi dal sangue non contaminato: esseri superiori in grado di guidare gli inferiori.”
“Ora gli inferiori vogliono comandarci!- Sbottò in un ringhio Nott. - sono ovunque e pretendono di escluderci da un mondo che noi con le nostre mani e il nostro sangue abbiamo faticosamente creato.”
Xerses Greengrass annuì gravemente; gli occhi blu luccicavano di un fervore molto simile a quello religioso dei sacerdoti nei templi.
“Noi riporteremo il nostro mondo ai fasti di quei tempi, ma per farlo dobbiamo ingraziarci il nuovo Ministro e i suoi giovani adepti. Dovete aiutare me e la mia sposa in questo compito. Signori, nessuno di voi deve fallire! Basta una sola incrinatura e questo fragile piano andrà in mille pezzi come un bicchiere di cristallo fallato.”
Lucius Malfoy rimase attonito per qualche secondo; non riusciva a capire bene il piano di Xerses, le sue sembravano le utopiche visioni di un nostalgico, più che un piano politico ben congeniato. Eppure, si limitò a sussurrare pieno di incredulità e scarsa fiducia.
“Parlate come il Signore Oscuro, Xerses.”
“No, amico mio, al Signore Oscuro delle vecchie tradizioni non importava nulla: egli voleva cancellare tutto quanto, distruggendo le leggi naturali che ci governano usando voi come suoi servi, non come alleati. Non ci saranno torture, prevaricazione e morte nel mio progetto. Insomma, quello che voglio è un sano ritorno alle origini fin troppo perdute e contaminate.”
Le parole di Xerses ferirono profondamente l'amor proprio dei due ex Mangiamorte.
“Così mi offendi, Xerses. Non ti permetto di insultare la mia intelligenza!”.
Lucius Malfoy era adirato, non voleva più permettere a nessuno di trattarlo come suo burattino; se doveva far parte di un piano, non l'avrebbe fatto come sottoposto, non di nuovo.
Xerses, accortosi dell’errore appena commesso cercò di rimediare all’istante. Non doveva sbatter loro in faccia i fallimenti di quell’ultima guerra magica. Era stata una mossa stupida ed avventata, doveva riconoscerlo.
“Amici, io non voglio offendervi, né tanto meno mentirvi. Non mi servono vili scagnozzi che facciano il lavoro sporco, capite? Voglio potenti alleati. Antichi Seguaci delle vecchie usanze, non contaminati dalla mitologia cristiana o Babbana di sorta. Ho allevato tutti e sei i miei figli nel nome degli antichi Dei. Continuando a render loro onore tramite i rituali che ora sono andati perduti quasi del tutto. Ora tutto questo viene chiamato Arte Oscura, con ignoranza e pregiudizio.”
Il povero Lucius doveva ammetterlo: non poteva tirarsi indietro. Non ora che aveva trovato qualcuno disposto a lottare per i diritti di quelli come lui. Magari, Xerses, sarebbe riuscito a liberarli da quella feccia, che “inesorabile” si espandeva minacciando la purezza del suo mondo.
Il luccichio negli occhi di Xerses era talmente diverso dallo sguardo di totale assenza di sentimenti di Lord Voldemort che fece capire a Lucius Malfoy che stava dicendo la verità: non c'era nulla di più diverso.
Ian guardava Xerses
Greengrass con reverenza, come se a parlare fosse stato non un uomo ma una divinità. Lucius sperava che l’alleanza con i Greengrass gli portasse ricchezza, rispettabilità e potere. Quindi nel suo miglior tono untuoso si rivolse a Xerses, sorridendo alla loro rinnovata speranza.
“Mi dispiace, Xerses, credo di aver frainteso tutto. Se sono compagni quelli che cerchi, che sostengano la tua candidatura per far capire agli inferiori l'importanza delle antiche usanze, in me troverai un fedele alleato.”
Ian Nott aveva chinato il capo in segno di devozione, ma Xerses prese l'amico per le spalle impedendogli di inchinarsi.
“No, Ian, inchinarsi è simbolo di sottomissione: tu sei mio pari, così come tutti quelli che parteciperanno a questa mia nobile impresa. Guarda il mio albero genealogico: tutte le famiglie imparentate con noi hanno il diritto di farne parte. Senza fretta o superbia, bisogna entrare nel cuore dei maghi e delle streghe. Con la paura si ottiene la sottomissione, ma solo con il rispetto più profondo si ottiene la fedeltà.”

L'albero genealogico aveva radici risalenti ad ancor prima dell'anno mille; i più recenti membri della casata erano imparentati con i Malfoy, i Lestrange, I Baddock e i Warrington. Insomma, le loro famiglie erano tutte unite dai rossi fili di quel destino che accomunava quei gentiluomini.
“Tu sei un filosofo illuminato, Xerses, - Esclamò Nott, con ammirazione.- Hai anche me, tra coloro che ti appoggeranno, anche se la mia casata è, ahimè, povera di eredi. L’ultimo di noi è Theodore, che a quanto pare non ha nessun interesse a far proseguire la nostra discendenza.”
Xerses sorrise all'uomo, il cui viso era segnato da profonde rughe, un po' per l'età e un po' per le preoccupazioni.
“Nott, dimentichi Daphne: se Theo mi chiedesse il permesso di corteggiarla, io non avrei nessun problema in tal senso. Se uniremo le nostre famiglie, assicureremo una discendenza al nostro potere e noi non possiamo permettere che la nostra progenie si mescoli con gli inferiori. Mi raccomando, non usate questi termini al di fuori di qui, ci sono orecchie del ministro dappertutto.”
Erano seguiti e spiati persino alla “Serpe Argentata”, la Società Purosangue era stata costretta ad aprire le porte del loro prezioso circolo a coloro, che un tempo, non si sarebbero nemmeno degnati di calcolare.
Ora che un'altra speranza si era accesa nei cuori dei Purosangue, Lucius Malfoy avrebbe sopportato più di buon grado il sacrificio di vedere mezzosangue e Weasley aggirarsi tra quelle sale sfarzose, che per lui erano più sacre di qualsiasi tempio.
“Ci rivedremo domani, signori al circolo della Serpe Argentata. Mio figlio Narses gioca a Quidditch e mia figlia corre sul suo Etone. Tamora mi ucciderà se mancherò di presenziare questo giovedì!”
I due uomini, che conoscevano bene la sposa di Xerses, ridacchiarono sommessamente, faceva paura quando si adirava. Era un’ottima Legilimens e non le sfuggiva mai la verità.
Lucius ringraziava gli dei di avergli donato una moglie come Narcissa, le donne troppo autoritarie lo mettevano a disagio, gli ricordavano sua madre.
I tre si congedarono con una stretta di mano; presto avrebbero cominciato a lavorare per la riuscita del piano di Xerses, finalmente c’era la possibilità che quelli come loro ritornassero al potere. Per nulla al mondo se la sarebbero lasciata scappare.

Asteria, nel frattempo, si era materializzata alla Wollstonecraft House come le aveva ordinato il padre. Giunse nella sua stanza con un flebile pop, e la sua elfa domestica la raggiunse dopo poco.
Asteria era terribilmente pallida, con i lunghi capelli arruffati e pieni di fango. Sembrava più simile a uno Zombie che ad una Strega, come tocco finale a quella sua spaventosa trasformazione, il polso ferito grondava sangue, sul prezioso tappeto persiano.
Dopo aver visto le condizioni della sua padroncina, la povera Twilly trasalì.
“ Padroncina Asteria, che cosa le è successo? Lasci che l'aiuti, oh le preparo un bagno caldo, all'istante. Lasci fare alla sua Twilly, che la rimette a nuovo.”
Asteria si fece guidare, esausta, dall'Elfa nell'immensa sala da bagno al quinto piano, la quale era interamente in quarzo rosa e marmo bianco, con i rubinetti in oro massiccio.
I tanti quadri alle pareti rappresentavano creature marine come Kelpie, Sirene e Avvincini; i quali si muovevano tra una tela e l’altra, sguazzando felici.
Asteria entrò nella vasca; l'acqua calda saponata, scendeva dai bocchettoni dorati al lati. Il vapore caldo e il profumo della schiuma riempiva le narici della strega, per troppo tempo martoriate dal tanfo della decomposizione.
Si insaponò lentamente cercando di far sparire ogni traccia di fango e sangue da sotto le unghie, dai capelli e dalla pelle. Sfregava con energia ogni centimetro di epidermide, ansiosa di sentirsi pulita di nuovo.
Dopodiché rimase immersa fino al naso, fissando rilassata il Kelpie che caricava due malcapitati turisti sulle rive di un Loch Scozzese, un quadro terribilmente angosciante.
Quell’animale acquatico aveva la malsana abitudine di divorare chiunque non fosse in grado di incantarlo e le sue prede preferite erano i Babbani.
Non a caso Tamora Greengrass aveva voluto quel quadro. La signora odiava sì Lord Voldemort per averle ucciso la sorella Dorcas, ma era anche una fervente Anti-Babbana; anche se riservava le sue opinioni in fatto di purezza solo per le orecchie della sua ristretta cerchia.
Dopo aver passato più di un’ora in ammollo, tanto da farsi venire le pieghe sulle mani, Asteria finalmente si asciugò e si coricò e immediatamente cadde in un pesante sonno senza sogni.
Vedendo la figlia ancora a letto Tamora entrò a grandi passi nella stanza; emise un lungo e poco promettente sospiro di sufficienza. Bacchetta alla mano, aprì tutte le tende, lasciando che il sole facesse capolino, in quella camera oscurata dai pesanti tendaggi di damasco.
Asteria si tirò a sedere ancora sconvolta dalla faticosa nottata, si stropicciò gli occhi e, obbligata dalla madre, si infilò la vestaglia e si sedette di fronte alla specchiera. Per poco il riflesso non la tramortì.
La luce, oscenamente vivida, accentuava tutti i difetti del suo viso. Tanto per cominciare, il colore della sua pelle: pallida, spettrale e malsana. Non diafana e quasi madreperlacea come quella delle sue sorelle. No, opaca e spenta come il colorito di un cadavere.
Sentiva la testa pulsare mentre il senso di nausea la soverchiava, rendendole impossibile persino il semplice atto di pensare.
“Sono le undici, ti sembra l’ora di svegliarti, questa? Ti manderò subito la colazione appena avremo scelto e provato l’abito per stasera.”
-Fantastico!- Pensò la ragazza: avrebbe dovuto prepararsi ad un’altra maledetta serata al Circolo e la sola idea di vedere gente quella sera la faceva impazzire.
Tamora Greengrass puntò la bacchetta verso il suo armadio e un abito color borgogna volò letteralmente fuori dalla cabina. Con un rapido movimento di mano, la signora Greengrass tolse la vestaglia a sua figlia e costrinse la poverina a mettersi in piedi, controvoglia.
Usava spesso quei dannati incantesimi con Asteria, facendola sentire irrimediabilmente stupida.
Il vestito le si infilò a forza, sentì le delicate dita della madre mentre le allacciavano il corpetto e le stecche di balena le si conficcavano nella carne senza alcuna pietà; maledì sua madre veemente, anche se solamente dentro di sé.
Se c’era una cosa che Tamora Greengrass non tollerava era un bustino allentato: risultava sciatto e volgare, come la guepiere di una poco di buono, e non poteva permettere che una delle sue figlie passasse per una volgare sgualdrina.
Asteria conosceva bene le ferree regole famigliari su come ci si doveva comportare e sul vestiario da indossare in ogni occasione.
Non aveva mai osato trasgredirle. Anche se dentro di sé, c’era qualcosa che selvaggiamente si dibatteva, sanguinava e piangeva. La pregava di andarsene, di trovare la sua via lontano dalla Negromanzia e dagli obblighi materni.
La ragazza però, per quanto odiasse l’etichetta che la madre le imponeva, non era fatta per cose del genere: ribellarsi e rinunciare a tutto le sembrava stupido, da deboli.
Le scelte facili non erano contemplate nel suo futuro di erede Purosangue.
Avrebbe preso parte alla dannata Fiera delle Vanità, seguendo il copione scritto da sua madre alla perfezione come una troppo imbellettata attrice da operetta.
Le apparenze erano tutto, in quel mondo fatto di bugie e ipocrisia.
Il sipario si stava per schiudere e di una cosa Asteria era certa: non avrebbe lasciato quel palcoscenico. Non da viva, per lo meno.
Si rammentò delle visioni sul suo futuro e sorrise tra sé e sé. Aveva una possibilità di sentirsi completa e felice nella sua vita e pregò, con tutta se stessa, che il suo antenato avesse ragione.
“Sei pallida, devi imparare ad inciderti il polso leggermente. Come pensi di poter diventare un membro della nostra congrega se non ascolti tuo padre! Hai un alto potenziale, non sei come Daphne che è nata con poco potere.- Le stava parlando con tono freddo e tagliente, mentre le spazzolava energicamente la massa di crespi capelli scuri, incurante dei suoi gemiti.- Piantala di lamentarti, chi bella vuole apparire, un po’ di male deve soffrire, figlia mia.”
Quell’ultima frase Asteria l’aveva sentita fino alla nausea uscire dalla bocca di sua madre.
“Papà è fiero di me, Madre. Sono un membro effettivo della congrega; potete evitare inutili sprechi di fiato sull’argomento. Grazie.”
“Sarà meglio per te, Asteria, che tu non ci deluda, allora. Non possiamo certo permettere che si infanghi la reputazione dei Greengrass. Devo forse ricordarti da che casato provieni?”
Non rispose, troppo occupata a ricacciare indietro le lacrime; il suo orgoglio non sopportava le umiliazioni materne.
Una volta pronta si guardò allo specchio, il contrasto crudele del pallore della sua pelle con il borgogna dell’abito la faceva sembrare ancora più pallida.
Squadrò la madre con freddezza e distacco, sostenendone lo sguardo.
“Non dovete ricordarmi come mi chiamo. Spero di sposarmi al più presto così non dovrete più avermi intorno.”
Nei begli occhi di Tamora Greengrass aveva visto una leggera ombra di sconforto, ma la ragazza non ne rimase particolarmente colpita.
Sua madre era terribilmente teatrale: prima faceva di tutto per far sentire la propria progenie un inutile spreco di carne, dopo, quando reagivano in malo modo, usava tutto ciò che era in suo potere per far venire a lei e ai suoi fratelli ogni forma di senso di colpa.
Un trucco vecchio, nessuno di loro tranne suo padre Xerses, ci cascava più.
“Asteria, non dire così. Ti sprono perché voglio il meglio da te. Tutto qui.”
Con un altro rapido movimento di bacchetta ripose l’abito con cura nell’armadio e fece comparire un vassoio pieno di leccornie. Le preferite di sua figlia Asteria.
-Mia Madre crede ancora di comprarmi con i dolciumi.- Pensò la strega, incerta se ridere o sbattere violentemente la testa contro il muro.
Fece colazione, divorando tutto: semifreddo al torroncino, frittelle, uova e bacon. Bevendo litri di tè e spremuta d’arancia per mandar giù quelle squisitezze.
Dopodiché ancora esausta si coricò di nuovo, dormendo fino a pomeriggio inoltrato. Twilly la svegliò con delicatezza, ricordandole di prepararsi: la serata alla “Serpe” era alle porte.
Si rinfilò l’abito scelto dalla madre, si truccò e pettinò. Il tutto aiutandosi con la magia della sua fedele Twilly.
Uscì dalla camera dopo un’ora, sforzandosi di tenere un’elegante andatura; nonostante ogni fibra del suo corpo fosse indolenzita e lei faticasse a respirare a causa delle stecche di balena che le comprimevano la cassa toracica.
Appena vide le sorelle si sentì sprofondare: entrambe identiche alla madre tranne che per gli occhi; quelli li avevano presi dal padre: azzurri e splendenti come il cielo terso d’estate.
Hecate e Daphne erano raggianti e meravigliose; i lunghi capelli color grano erano ben acconciati e adornati di gigli e orchidee; avevano abiti meravigliosi che le fasciavano perfettamente esaltandone i bei corpi sinuosi.
Tutti i maschi della Serpe sarebbero impazziti solamente a vederle. Un fastidioso ricordo si affacciò alla mente di Asteria, la quale non poteva opporsi agli involontari scherzi del suo cervello.
Montague una volta, mentre si stava baciando con lei nella Sala Comune di Serpeverde, le aveva chiesto di procurargli un appuntamento con Daphne, domandandosi come mai fosse uscito con l’unica Greengrass uscita male.
Asteria dopo quell’affermazione, l’aveva più volte maledetto con diverse fatture tra cui: L’Orcovolante, la Desaungeus e la Forunculus, le quali erano uscite dalla sua bacchetta, senza che ci fosse stato bisogno che dalla sua bocca proferisse nessun suono.
Montague era scappato via, tenendosi il viso con le mani tra le risate generali degli studenti di Serpeverde. Asteria aveva seguito la fuga di Montague con un perfido sorrisetto soddisfatto stampato sul volto.
In quell’attimo aveva incrociato lo sguardo di Draco: il ragazzo la stava fissando, con una strana espressione negli occhi.
“Povero Montague, subire così le ire di Isteria Greengrass. Deve avertela fatta grossa.”
Le si era avvicinato con la sua solita andatura indolente piazzandosi di fronte a lei, sorridendole sornione. Asteria aveva provato a non tremare, ma la sua vicinanza le impedì di mantenere il suo solito, gelido, contegno.
“Mi ha chiesto di procurargli un appuntamento con mia sorella, poi si è domandato come mai lui uscisse con l’unica Greengrass venuta male.”
Aveva provato a far uscire quelle parole con spavalderia, ma il tono si era spento sul finale, lasciando spazio ad una sorta di cinica rassegnazione.
Draco era scoppiato a ridere malignamente; che cosa diavolo aveva pensato, di ricevere una consolazione da parte di Malfoy ? Certe volte riusciva ad essere veramente stupida. Lui adorava farsi beffe delle disgrazie altrui e in particolar modo delle sue, in campo amoroso.
Dopo la risata, Draco le si era avvicinato notevolmente, tanto da metterla a disagio; e accarezzandole teneramente una guancia le aveva sussurrato dolcemente.
“Potrebbe averti totalmente e chiede di Daphne, che razza di idiota.”
Asteria era uscita con quell’imbecille di Montague solo per cercare di dimenticarsi di Draco, cosa che ovviamente, non aveva minimamente funzionato.
Draco ogni tanto riusciva a stupirla notevolmente; sembrava che in lui albergassero due personalità: una sgradevole, che Asteria desiderava non incontrare mai, specie quand’era di malumore, e l’altra seducente, alla quale cedeva spesso e volentieri, avvinghiandosi a lui negli oscuri anfratti del dormitorio di Serpeverde.
Lei per lo più fingeva di esserne immune quando era in presenza di altra gente, ma la cosa non funzionava quando rimaneva da sola con lui. Dopo quella frase aveva tentato di baciarla e Asteria sapeva che non sarebbe riuscita a opporsi.
Le urla di Pansy l’avevano salvata obbligandolo a lasciar perdere non prima però di averle detto con amarezza: ”Sarà per la prossima volta, Greengrass. Credimi, dispiace più a me che a te.”
Si era defilato subito dopo, per sfuggire alle ire di quella povera imbecille della Parkinson.
Il passato era passato in ogni caso, scosse il capo per scacciare quei ricordi che di certo non le facevano bene per mantenere il controllo, non poteva permettersi di essere nostalgica ed emotiva quella sera, con la corsa di cavalli e tutto il resto.
Infilando il mantello foderato di pelo di lupo grigio si specchiò fugacemente e quello che vide non le dispiacque: il corpetto così stretto era terribilmente scomodo ma le donava particolarmente. Rispetto a quella mattina era molto migliorata, fortunatamente il riposino pomeridiano le aveva giovato.
Senza nessuna voglia, si materializzò nel luogo più velenoso e prezioso di tutta la Gran Bretagna magica: “La Serpe Argentata.”
I giovedì di gioco al circolo erano tanto sfarzosi e dispendiosi, da fare male sia agli occhi che al portafoglio.
Si cominciava ovviamente con una disputa a Quidditch, per poi continuare con le corse su cavalli volanti e le partite a scacchi dei maghi su scacchiere giganti. Il tutto riccamente accompagnato da scommesse su scommesse. Gli allibratori impazzivano, c'erano sacchetti di galeoni che volavano a destra e a manca.
Le squadre di Quidditch della Serpe Argentata erano due: Chimere e Basilischi.
Le loro divise portavano lo stemma araldico raffigurante l'uno o l'altro animale. I Basilischi indossavano divise nere con l'effige argento e verde mentre le Chimere erano vestite in viola scuro con lo stemma in rosso e oro.
Era un'antica tradizione della Serpe avere le proprie squadre, molti dei giocatori della Gran Bretagna erano passati da lì, prima di approdare al campionato vero e proprio.
I giovani membri del circolo speravano, infatti, che qualche scopritore di talenti venisse a scovarli e li facesse diventare le nuove promettenti stelle, dello sport magico internazionale.
La squadra dei Basilischi aveva come capitano Caius Warrington, portiere. Gli altri membri della squadra, erano: Marcus Flint, Narses Greengrass e Blaise Zabini nel ruolo di cacciatori; Kain Montague e Theodore Nott come Battitori ed il loro cercatore era Draco Malfoy.
Il quale, quando scoprì che Harry Potter ricopriva il suo stesso ruolo nella squadra della Chimera, sul suo volto, si dipinse la sua consueta espressione di disgusto, per la sgradita sorpresa.
Doveva vincere a tutti i costi, altrimenti che cosa avrebbero pensato tutti? Disonorare la famiglia e i suoi amici non faceva certo parte dei suoi obbiettivi. Era intenzionato a far leva su tutta la sua concentrazione e bravura senza perdersi in prese in giro e chiacchiere.
C'erano pure i suoi nonni quella sera, di ritorno dalla loro tenuta in Austria, in cui erano soliti ormai ritirarsi. Venivano spesso a trovarli dalla caduta dell'Oscuro Signore; dicevano che lo facevano per sostenerli in quel periodo difficile e che volevano aiutarli.
Narcissa era dell’opinione che volessero solamente impicciarsi. Draco, al contrario, pensava che la madre avesse un giudizio fin troppo severo nei confronti dei suoceri.
Suo nonno gli aveva trovato un lavoro al Ministero solo grazie alle sue conoscenze; non importava quanto umiliante fosse. -Era di certo meno disonorevole che essere disoccupato- pensava lui.
Poteva sempre sperare di fare carriera all'interno del Ministero: odiava aiutare i Babbani per i casi di Magia Accidentale; la considerava una mansione talmente Weasley che si aspettava di alzarsi una mattina, di specchiarsi e di scoprire di essere diventato povero, lentigginoso e con i capelli rossi.

Draco non doveva pensarci troppo, nella sua situazione la rabbia e la frustrazione non gli sarebbero servite per vincere, e battere Potter, in quel momento, era diventata la sua assoluta priorità.
Non solo Harry Potter era cercatore, ma c'erano anche Ronald Weasley che giocava come portiere e sua sorella, di cui dimenticava sempre il nome, nel ruolo di cacciatrice insieme a Tracey Davies e ad Adrian Pucey.
Scrutò l'espressione degli ex Serpeverde e notò che non sembravano troppo felici. I Battitori invece erano Millicent Bullstrode e Gregory Goyle, che si erano fidanzati dopo la guerra.
-Il presidente del circolo vuole proprio fare da servo a Shacklebolt, se permette alla feccia di entrare nella nostra squadra di Quidditch.-
Pensò Malfoy, che la pensava come suo padre, in merito.
L'arbitro era Cornelius Caramell, che in quella mansione era terribilmente fuori posto. Draco se lo ricordava ancora da quando era intimo amico del padre. Adesso se capitava che si incontrassero per caso, faceva finta di non vederli. Probabilmente, avere la pubblica certezza di esser stato preso in giro per tutti quegli anni, lo indisponeva parecchio nei confronti dei Malfoy.
Non era affare suo, in ogni caso, ora avevano la protezione dei Greengrass e gli bastava.
Le scommesse piovevano a fiumi dando la squadra della Chimera vincente per sette a quattro; per la squadra del Basilisco non era di certo un inizio incoraggiante.
Il Boccino fu liberato e la partita cominciò: le scope volavano sfrecciando rapide nello stadio. Gli spettatori erano come sempre dotati di binocoli rallentanti, per gustarsi appieno la partita.
Asteria era stata obbligata dalla madre a partecipare, e ovviamente aveva scommesso sulla squadra della Chimera, giusto per indispettire un po' la genitrice e le sorelle.
Non aveva mai visto Draco Malfoy impegnarsi così in qualcosa, se si escludeva il torturare psicologicamente qualsiasi cosa che avesse dei condotti lacrimali.
Sfrecciava qua e là in maniera forsennata alla disperata ricerca di un frullio dorato, i cacciatori si passavano la Pluffa e doveva ammettere che la triade Marcus, Narses e Blaise funzionava alla perfezione, come una macchina ben oliata.
Invece i cacciatori della squadra della Chimera, non riuscivano a reggere il ritmo dei Basilischi in attacco, poiché Ginevra Weasley era deliberatamente esclusa dai passaggi di Pluffa.
Narses, il fratello di Asteria, si esibì in un'ottima manovra di Porskoff, e di nuovo Blaise andò a segnare punto.
Non c'era grande scarto, ma tutti quelli che avevano puntato sulla squadra di Harry Potter si stavano mangiando le mani: erano sessanta a quaranta per la squadra del Basilisco.
Dopo un'ora di gioco Draco Malfoy si tuffò in picchiata; Harry Potter convinto che avesse visto il Boccino, volò alle sue calcagna, ma il ragazzo appena l’avversario l’ebbe raggiunto, sfrecciò verso l’alto, stava solo cercando di depistarlo.
Grazie ad un colpo di fortuna, Draco notò lo sfavillio delicato di quella minuscola, maledetta palla e si lanciò all'inseguimento, questa volta, per davvero.
Harry risalì a tutta velocità ma Goyle, Battitore della sua stessa squadra, lo colpì con un Bolide volante.
Asteria sbuffò per la delusione, odiava vedere felice Draco Malfoy e dopo quella vittoria, sarebbe stato insopportabilmente trionfante.
“Ecco, Addio ai miei venti galeoni, ogni tanto vorrei ricordarmi che i sotterranei di Serpeverde non si abbandonano mai, così, per non sprecare soldi invano.”
Tamora Greengrass guardò la figlia con insofferenza.
“Asteria, scommettere è volgare, preferirei che tu non lo facessi.”
La ragazza sorrise forzatamente.
Prima del suo ritorno dal tempio della dea Morrigan tre mesi prima, non era mai stata obbligata a presenziare a tali eventi mondani.
Rimpiangeva la sua infanzia, Hogwarts e tutto il resto. Ogni suo tentativo di scoraggiare la madre a portarla alla Serpe Argentata falliva; le sembrava di vivere in un incubo da cui fosse impossibile svegliarsi.
“Madre, di grazia, perché mi portate a questi sfrenati giovedì di volgarità allora, dove non si fa altro, da sempre?”
“Bambina mia,- rispose la genitrice con tono di chi spiega una favola ad una pargoletta di cinque anni. - Qui c'è la gente giusta! Ormai sei in età da marito, ed esclusi i nuovi membri, ai quali spererei che tu non fossi interessata, è pieno di giovanotti adatti a te. Che mi dici del giovane Malfoy? Chi l'avrebbe mai detto che sarebbe sbocciato così?”
Asteria guardò ironica la madre solo lei poteva paragonare Malfoy ad un fiore che sbocciava. Quando lei lo osservava, vedeva ben altro. Nulla di etereo ed asessuato come un bocciolo primaverile; se Draco fosse stato una pianta allora, beh non c’era alcun dubbio, sarebbe stata una di quelle carnivore dei Tropici: coloratissime e terribili. Ti incantava con i suoi colori e il suo profumo irresistibile, per poi divorarti, digerendoti lentamente.
“Madre, non avete appena usato il termine sbocciare riferito a Malfoy, vero?”
“ Asteria cara, guardalo: le sue spalle si sono fatte ampie e i lineamenti hanno più carattere; devo dire che da pallido giunco sta diventando un uomo, con i fiocchi, aggiungerei.”
La giovane Greengrass, sentì il panico attanagliarle lo stomaco. Possibile che sua madre sapesse? Scrutò negli occhi pallidi di Tamora, ma non trovò nient’altro che l’espressione di una madre desiderosa di vederla maritata con un rampollo Purosangue.

Per un attimo aveva avuto paura che sua madre fosse venuta a conoscenza del suo più intimo e privato segreto: la sua passione per Draco Malfoy.
Si affrettò a chiudere la mente: non le andava di essere sondata da una delle più capaci Legilimens del suo tempo.
Draco, Draco, Draco… Occhi grigi, raggelanti, che non risparmiavano nessuno.
Per quanto chiunque parlasse di lui come di un idiota vanaglorioso, la sua lingua tagliente e arguta aveva fatto piangere chiunque: dalla Torre Grifondoro, passando per Corvonero e Tassorosso, (assolutamente le sue vittime preferite, dopo Harry Potter, Ronald Weasley e Neville Paciock.) fin dentro gli oscuri anfratti dei sotterranei umidi e freddi di Serpeverde.
Asteria era la sua vittima preferita tra i Serpeverde: le faceva cadere i libri di continuo, prendeva in giro la sua passione per “Cura delle Creature Magiche” e detestava il suo disprezzo per quelli come suo padre : i Mangiamorte.
La loro prima adolescenza insieme era stata un incubo per la povera strega. Si sa, i ragazzini sanno essere crudeli e nemmeno Daphne, sua sorella riusciva proteggerla da quegli attacchi dilanianti per il suo sistema nervoso.
Era lì che aveva cominciato ad astrarsi e a diventare indifferente verso il microcosmo che la circondava? Forse.
Aveva resistito due anni, prima di decidere finalmente, di ribellarsi.
Si ricordava quando era successo: come poteva dimenticarsi Il momento di rivalsa dopo due anni di continue prese in giro e prevaricazioni di ogni sorta?
Draco fingeva di avere male al braccio per colpa di Fierobecco, l’Ippogrifo che il signor Malfoy, per colpa della stupidità del figlio, aveva fatto condannare a morte.
Era il secondo anno di Asteria a Hogwarts lui, come sempre, nonostante il braccio fasciato, stava picchiando qualcuno. Non si ricordava chi, forse un povero Tassorosso, il motto dei Serpeverde per gli studenti di quella casa era questo:” Se non hai nessuno da picchiar, stana un Tasso, battilo, fino a farlo sanguinar”, il che dava la misura della considerazione che avevano nei loro confronti.
Si era nascosta dietro ad una colonna, aspettando pazientemente che Malfoy, Tiger e Goyle finissero con il pestaggio. Dopo tutto quello sforzo fisico, i due bestioni l’avevano lasciato da solo per andare ad ingozzarsi in Sala Grande. Come di consueto.
“Levicorpus” aveva esclamato con tutto il fiato che aveva in gola la strega. Eccolo lì, solo, appeso per un piede a divincolarsi, paonazzo. Era convinto che si fosse trattato di Potter o Weasley, ma era saltata fuori lei, dalla colonna.
La sorellina di Daphne, piccola, pallida e silenziosa. Che faceva di tutto per passare inosservata. Eppure, abbastanza furba da sorprendere Draco con un incanto Levicorpus.
Il ricordo dell’espressione della sua faccia era impagabile, lei, poi, l’aveva fatto cadere in malo modo, proprio sul braccio fasciato.
Non era stata una cosa voluta: non era più riuscita a governare l’incantesimo. Aveva avuto il suo effetto però, di questo poteva essere contenta.
“Almeno adesso ti fa veramente male, razza di bugiardo. Quanto vorrei che tu fossi al posto di Fierobecco.” Gli aveva sibilato, a pochi centimetri dall’orecchio. Poi era corsa via, prima che Tiger e Goyle tornassero o che lui reagisse.
Schivarlo nei giorni successivi era diventato il suo unico problema, anche se odiava ammetterlo, c’era qualcosa in lui che la metteva terribilmente a disagio. Avrebbe voluto scomparire nel nulla e chiese persino a suo padre, via gufo, di procurarle un mantello dell’invisibilità.
Xerses le aveva chiesto a che cosa le potesse servire tale gingillo, lei non aveva avuto il coraggio di spiegargli il motivo di tale richiesta e aveva lasciato perdere.
Arrivò il giorno dell’esecuzione dell’Ippogrifo; disgraziatamente Asteria, aveva calcolato male i tempi: si era aspettata di non vedere Draco per tutto il giorno, dato che voleva partecipare all’uccisione del povero animale. Quindi senza preoccuparsi, si era recata in Sala Comune, convinta di non trovarlo.
Invece eccolo lì, seduto sul divano, con accanto Pansy Parkinson che tamponava con degli impacchi freddi l’occhio di Malfoy, nero e gonfio.
Asteria cercò di sgattaiolare via non vista, ma Draco, informato dalla sua ragazza, si accorse anzitempo della presenza della strega.
“Asteria!- Chiamò lui a gran voce spingendo via in malo modo la sua amorevole infermiera.- Sarai felice di sapere che quel dannato pollo è scappato. Così, in futuro, eviterai di farmi incantesimi che non sai usare, né tanto meno controllare.” Aveva detto lui, sprezzante.
Asteria era rimasta lì, immobile come una perfetta imbecille, aveva abbassato gli occhi e balbettato qualcosa che suonò come un “Grazie, ora devo andare ciao.” Subito dopo, era letteralmente scappata.
Il ricordo di lei da piccola, della sua ingenuità, di quando pensava che avrebbe potuto cambiare le cose e non seguire il destino di tutte le altre eredi Purosangue, la fece sorridere amaramente.
Soprattutto perché ora era lì seduta con sua madre, che cercava disperatamente di venderla al miglior erede su piazza. Come si fa con il bestiame.
Prese il binocolo e si mise a scrutare i giocatori che scendevano dalle scope, Draco era a dir poco esaltato, stringeva quello stupido affarino d’oro tra le lunghe dita e sorrideva come un bambino alla sua festa di compleanno.
Mentre gli altri compagni di squadra uscivano dal campo per andare a cambiarsi, lo vide alzare lo sguardo e muovere la mano in gesto di saluto, scoccandole una delle sue migliori occhiatacce ironiche.
Abbassò il binocolo con stizza; gonfiare un ego, già così spropositatamente grande come quello di Malfoy era una cosa che avrebbe potuto fare una come Pansy o Tracey. Non di certo lei.
“Se vi piace tanto, prendetevelo voi! Che ne dite?”
Asteria aveva usato il suo miglior tono soave e delicato imitando perfettamente la sua sorella maggiore Hecate.
“Asteria, non fare l’impertinente. Piuttosto, va a cambiarti che tra mezz’ora corri a cavallo; non vorrei mai che tu arrivassi in ritardo. Immaginati che figura se partissero senza di te!”
La strega si alzò spazientita e si diresse verso lo spogliatoio, felice di liberarsi di sua madre per un po’. Si congedò brevemente e iniziò a prepararsi psicologicamente per gareggiare.
La sua famiglia l'avrebbe guardata dalla tribuna d'onore. La cosa le faceva salire una tensione notevole: far parte dei Greengrass non era facile, bisognava essere all’altezza delle aspettative famigliari. Ogni singolo istante.
Il più delle volte era snervante dover confrontarsi sempre con il giudizio di Tamora e Xerses, stavano sempre con il fiato sul collo ai loro figli e non c’era modo di scamparla.
Anche Draco si stava recando agli spogliatoi, ma prima passò a salutare la sua famiglia. Lo sguardo di suo padre aveva smesso di essere cupo e triste. Quella sera era tornato il solito di sempre, attribuì a se stesso questo mutamento e si sentì particolarmente fiero.
“Complimenti figliolo, ottima partita, quella finta Wornski un colpo di genio, davvero!”
Draco sorrise; erano rari i complimenti di suo padre, cercava di godersi quel momento il più possibile, sapendo in partenza che non sarebbe durato a lungo. Fece un breve inchino ai suoi nonni, conscio di quanto amassero le formalità.
Entrambi i genitori di suo padre avevano l'aria austera. Kriemhild era una donna alta, spigolosa, dai capelli bianchi raccolti in una severa crocchia ed era tutta vestita di nero.
Abraxas, invece, era un uomo imponente; canuto, con un bel paio di mustacchi e lunghi capelli portati all'indietro. Aveva alcune cicatrici sul viso, dovute al vaiolo di Drago che l'aveva notevolmente indebolito qualche anno prima.
“Grazie, padre. Tutto bene il viaggio dall'Austria?” Chiese loro tenendo un tono sostenuto, molto simile a quello di Lucius, aveva ancora il vizio di imitarlo in tutto.
“Si, Nipote, tutto bene il viaggio, ottima partita davvero.”
C'era anche Druella Rosier, la madre di Narcissa, di aspetto più delicato di Kriemhild ma sempre altezzoso; era una bella signora sempre ben vestita e ricoperta di gioielli. Le due donne si lanciavano occhiate ostili: si erano sempre odiate in silenzio.
“Oh tu zei ztato prafo, ma io penza che se tu fossi ztato addestrato a Duvmstrang, zaresti ztato più forte! ma superiorità Britannica ha sempve vinto su pragmatismo Teutonico ahimè.”
La donna aveva uno spiccato accento tedesco e nonostante avesse abitato per anni in Inghilterra, si rifiutava categoricamente di piegarsi ai Britanni, persino quando si trattava di una stupida questione linguistica.
Narcissa si affrettò a rivolgersi al figlio, indispettita dall’ennesima critica della suocera sull’educazione di Draco, disputa che durava da anni, ormai.
“Draco, Tesoro, lavati e cambiati, tra mezz'ora dobbiamo assistere in tribuna d'onore al salto agli ostacoli di Asteria Greengrass; dicono che quella ragazza sia un vero diavolo a cavalcare.”
Draco osservò sua madre, perplesso: non si era accorta di aver fatto un doppio senso molto comico e tutti gli uomini presenti ridacchiarono sotto i baffi.
“Certo madre, hai ragione, ci vediamo al maneggio in tribuna.”
Baciò le donne della sua famiglia, salutò gli uomini con una virile stretta di mano e si diresse verso gli spogliatoi.
Non appena arrivato in prossimità delle docce, sentì un gran vociare provenire dall'interno si affrettò a entrare, curioso di scoprire il perché di tale fracasso.
Harry Potter stava urlando verso Goyle, che, non sapendo che dire, si limitava a biascicare parole senza senso, incapace di fare un discorso di senso compiuto
“Siamo della stessa squadra! Razza di Troll decerebrato, si può sapere perché mi hai colpito?”
“Che succede, Potter?” Chiese Draco con aria annoiata, mentre si toglieva il mantello e il maglione bagnati, scompigliandosi i capelli madidi di sudore con la mano destra.
“E' successo che il tuo grande amico Gregory qui, mi ha colpito con un Bolide a fine partita, impedendomi di raggiungerti.”
Draco scoppiò a ridere, seguito a ruota da tutti gli ex Serpeverde presenti nello spogliatoio.
“Oh, Potter, questo mi sembra troppo paranoico anche per te. Eri nella sua stessa squadra. Goyle è un idiota con il cervello grosso come quello di un Aubrey, ma non è così imbecille nemmeno lui da perdere una partita volontariamente. Su, eroe! Non siamo più a Hogwarts, siamo cresciuti, non le facciamo più certe cose...”.
Harry sbuffò e alzò le mani in segno di resa, non aveva voglia di stare a discutere con Malfoy e gli altri Serpeverde, che avevano cominciato a sbeffeggiarlo.
Ronald Weasley lo squadrò con rabbia, tra quei due non sarebbe scorso buon sangue nemmeno dopo un milione di anni.
“Sì certo, Malfoy, come no, certe cose non cambiano mai! Rimarrai lo stesso viscido verme di sempre.” Disse Ron, tracotante.
Lo guardava in cagnesco, con le mani appoggiate sui fianchi. Draco pensò che facesse il possibile per sembrare autoritario, non riuscendoci.
“ Beh, c'è da dire che sono legato alle tradizioni, un po' come te “Weasel”,(significa donnola nomignolo che Draco dà a Ron nei libri in inglese devo metterlo nelle note.) perennemente secondo a Potter. Sei come la luna: vivi di luce riflessa e questo ti basta. Non credo che tu sappia fare altro se non rispecchiarla non avendone di tua. Se si escludono i tuoi capelli, ovviamente.”
Ron gli si gettò addosso, cercando di colpirlo con un gancio, Draco si abbassò, schivando il colpo.
Ci fu un boato di incitamento, i figli della “Serpe Argentata” gridavano il nome di Draco all’unisono. Era il suo mondo, la sua gente, non era come ad Hogwarts dove “Lenticchia” e “Sfregiato” erano considerati come degli eroi. In quel prestigioso covo di serpi, erano soltanto degli intrusi.

Weasley era sempre stato più forte e abile di lui nella “Lotta alla Babbana”, eppure, le cose sembravano mettersi male per l’ex Grifondoro.
Malfoy era agile e colpiva bene mentre Ron compensava in forza quello che difettava in tecnica. Faticava a tirare a segno qualche pugno, mentre sembrava che Draco lo colpisse sempre sapientemente. Era come se Malfoy stesse facendo una danza, dolorosa e violenta di cui solo lui conosceva i passi.
Poco prima che la guerra finisse, la setta dei Negromanti aveva fatto irruzione al Malfoy Manor, dove i Mangiamorte avevano preso in ostaggio parecchi figli degli oppositori dell’Oscuro Signore. Non avevano preso in considerazione, stupidamente, che i Negromanti potessero vendicarsi, invece erano piombati come furie su di loro, avevano liberato i loro figli e prendendo in ostaggio lui, come garanzia.
Solo più tardi aveva scoperto che Lucius si era preventivamente messo d’accorso con Xerses Greengrass, per allontanarlo da Lord Voldemort.
Pensò di essere spacciato, ma nessuno gli torse un capello. Gli ritirarono la bacchetta e gli applicarono un bracciale magico “Anti-smaterializzazione”; dopodiché venne rinchiuso in una stanza al Greengrass Castle. Con cinque pasti caldi al giorno, vestiti puliti, bagno privato e decine di libri da leggere gli sembrava di essere più in vacanza che in prigionia.
Poi, una sera, Xerses era entrato nella sua camera, gli aveva offerto una burrobirra, e gli aveva fatto un bel discorsetto.
“Draco, figliolo, senti, tuo padre mi ha chiesto di portarti lontano da Lui. Se tu me lo permetterai, io voglio aiutarti: il dolore che emani è talmente intenso, che sarà difficile che tu possa facilmente lasciartelo alle spalle. So che non sei uno di loro anche se quel macellaio ti ha marchiato. Ti offro protezione e il modo di non sentirti mai più così fragile.”
Lui tremava come una foglia, rimanere lontano dall’orrore di lord Voldemort gli aveva lasciato il tempo per pensare a tutto quello che era stato costretto a fare, il senso di nausea non lo abbandonava mai.
“Non credo che nessuno possa aiutarmi. Lui ci ucciderà tutti, è inutile sperare nel contrario. Non mi dica che anche lei fa parte di quegli illusi che credono che “Potty” possa sconfiggerlo! Lei non sa, non ha visto: lui è simile a un Dio, ha poteri illimitati…è immortale, capisce?”
Xerses, dopo lo sfogo di Draco, era scoppiato in una risata cristallina, reazione che il ragazzo non aveva minimamente contemplato.
“Nessuno è immortale, ragazzo. Solo la Morte Stessa ed i suoi figli lo sono. Non dimenticarlo mai. Cominceremo domani l’allenamento. Lascerai alle spalle questa sorta di piagnucolosa femminuccia, che ti hanno fatto diventare le eccessive premure di tua madre. Vincerai i tuoi demoni e sarai fiero di te stesso.”
Così era stato: Xerses gli stette vicino, facendo in modo di farlo diventare un uomo, anche se non era l’unico a potersi prendere il merito del salto di maturità del ragazzo.
Lord Voldemort e la guerra incisero notevolmente sul suo sviluppo psicologico, anche se negativamente.
Draco sapeva di dover ringraziare tutti i suoi maestri: suo padre, suo nonno, Piton, Xerses Greengrass e Lord Voldemort per averlo fatto diventare l’uomo che era.
Anche se non aveva ancora capito se fosse stato un bene o se tutti quegli uomini non avessero fatto altro che plasmarlo in maniera sbagliata. Non gli andava di approfondire la cosa, era quello che era, di certo non voleva cambiare di una maledetta virgola.
Stese Ron con un piacere immenso, mentre il sangue di quell’ultimo gancio dato sul naso gli schizzava il volto diafano, Harry si gettò tra i due cercando di separarli prendendosi una gomitata da Ron, e un altro pugno da Malfoy accecato totalmente dalla furia della lotta.
Nel frattempo, ignare di tutto, le giocatrici di Quidditch e le cavallerizze che di lì a poco avrebbero gareggiato, si stavano cambiando nello spogliatoio femminile.
Asteria si stava infilando il suo elegante completo da cavallerizza mentre cercava di ignorare le occhiatacce al veleno che Pansy le scoccava, furente.
“Ti batterò, Greengrass!” le sibilò all’orecchio.
Asteria la prese per il gomito e fissandola negli occhi e sovrastandola leggermente, le sorrise maliziosa.
“Ti piacerebbe! Sai, non ti vedo molto in forma per gareggiare. Che c’è, “Dracuccio” non risponde alle tue letterine?”
Pansy non ce la fece a reggere lo sguardo ironico e sprezzante di Asteria. La povera strega scoppiò in un pianto a dirotto di fronte a lei senza il minimo ritegno.
I sotterranei di Serpeverde insegnavano a farsi rispettare a suon di colpi bassi e Asteria aveva imparato molto bene quell’arte. Doveva ammetterlo, avere per madre Tamora Greengrass, a volte, poteva avere anche i suoi lati positivi.
“Credi che non sappia di te e Draco?- le chiese Pansy, singhiozzando.- Sono anni che vedo le vostre occhiate, i vostri battibecchi per stuzzicarvi a vicenda, so delle vostre scappatelle. Pensi davvero che io sia una stupida?”
Asteria scoppiò a ridere sprezzante, le lasciò il braccio e si lisciò il velluto del bavero della giacca.
“Sì , Pansy, credo che tu sia una stupida. Anzi no, la regina degli stupidi. Sì, come titolo suona decisamente adatto a te! Ti preoccupi di Draco e me quando si è portato a letto tutte le tue amiche del tuo preziosissimo clan di Serpeverde .Certo, solo quando io gli dicevo di no!”
Asteria fissava senza pietà quel patetico e gracile insetto. Pansy sembrava ancora una ragazzina di quattordici anni, minuta e magra com’era. Asteria invece aveva forme ben definite e decisamente femminili; era sinuosa, Qualità che, come sapeva bene, Draco apprezzava molto in lei visto il modo in cui il suo sguardo, e le sue mani indugiavano spesso su quello che Pansy, non avrebbe mai avuto. Nemmeno dopo un milione di anni.
Più piangeva come un cane bastonato, più qualcosa dentro la giovane Greengrass la spingeva a infierire. I deboli, come Tamora le aveva sempre insegnato, andavano trattati come tali: è la natura dell’evoluzione umana.
“Le mie amiche… ma smettila. Non ti credo!”
“Tracey Davies per prima, la tua grande amica; poi hm, vediamo, Crystal Baddock, Angelique Moon. Devo andare avanti?”
“Asteria, adesso smettila! Non vedi che sta piangendo?”
La chiara e squillante voce di Ginny Weasley, la sorprese alle spalle.
“Traditrice del tuo stesso sangue. Non mi serve la tua pietà.” Le aveva ringhiato addosso Pansy, prima che Asteria reagisse all’intromissione della Grifondoro.
La strega non riuscì a trattenere un’altra risata maliziosa, piena di sadica malignità. I Grifondoro avevano quella noiosa abitudine di istituirsi paladini della giustizia anche quando non era richiesto. Con i Serpeverde questo non funzionava, piuttosto che farsi aiutare da loro, come nel caso di Pansy, aprivano due fronti di conflitto differenti.
“Fossi in te, Ginevra,- Asteria la chiamava in tal modo per infastidirla riuscendoci perfettamente.- Mi farei gli affari miei. Le fauci della Serpe sono troppo venefiche e le sue spire troppo contorte; perché una Grifondoro come te, possa comprenderne i meccanismi.”
Ginny stava per ribattere, quando un assordante frastuono distrasse le tre streghe, che si precipitarono nello spogliatoio maschile.
La scena che si prospettò di fronte ai loro occhi era a dir poco sconcertante: Draco, con le mani e il viso imbrattati di sangue, stava picchiando Ron, che privo di coscienza non reagiva più.
Ginny cacciò un urlo ed estrasse la bacchetta per allontanare Malfoy, Pansy però fu più veloce e la disarmò all’istante.
Asteria si sedette su una panchina tra Blaise Zabini e Narses Greengrass per godersi meglio la scena, cominciando a parlottare e ridacchiare con i due.
Harry Potter, che precedentemente aveva tentato di dividerli aveva la faccia gonfia ed un sopracciglio spaccato. Gridò “Levicorpus” ed entrambi, seminudi ed insanguinati si ritrovarono a mezz’asta appesi per il tallone.
“Malfoy,- urlò Harry.- ritieniti fortunato che non posso arrestarti perché non hai fatto nessuna Magia Oscura.”
Ron aprì gli occhi, con enorme sollievo di Ginny e trovandosi appeso a mezz’aria fece un’espressione molto buffa, a metà tra il perplesso e lo sgomento. Draco non smetteva un secondo di dimenarsi: sembrava un pesce appena pescato, che non ha la minima intenzione di morire.
Asteria, Blaise e Narses si stavano sbellicando dalle risate, al contrario di Pansy e Ginny che erano furiose e preoccupate.
“Cos’hai fatto all’occhio, Harry?” Gli chiese preoccupata la sua fidanzata, abbracciandolo forte, cosa che fece perdere il contatto visivo con Malfoy e Ron, che caddero rovinosamente al suolo.
“Ho tentato di dividerli e mi sono beccato una gomitata involontaria da parte di tuo fratello e un pugno, credo assolutamente volontario e compiaciuto da parte di Malfoy.”
Ginny era incerta se sorridere o baciarlo, optò per fare entrambe le cose, per la grande felicità di Harry.
Pansy, dal canto suo, non aveva smesso un minuto di piangere: vedere Draco conciato in quel modo poi, la angosciava ancora di più.
“Tesoro, guardati; devi andare al S. Mungo!” aveva esclamato correndo verso di lui, con la voce rotta dai singhiozzi.
Draco sollevò gli occhi al cielo, Pansy prese ad abbracciarlo, ma lui la scansò brutalmente, guardandola con assoluto disprezzo.
“Per gli Dei, Pansy; ce l’hai un briciolo di dignità o cosa?”
Lei tremava come una foglia, mentre incapace di muoversi se ne stava lì a fissarlo, immobile come un pezzo di ghiaccio.
Asteria si alzò dalla panchina e si diresse verso Pansy. Osservò Malfoy che si stava spolverando i pantaloni stizzito, cercando di darsi un contegno. Le cicatrici dell’incantesimo Sectusempra, rilucevano su torace pallido e glabro.
Asteria era sempre stata affascinata dalle cicatrici, quelle di Draco poi, erano così nette e lisce che le facevano venire voglia di sfiorarle, con la punta delle dita.
Accarezzare il tessuto cicatriziale leggermente, per sentire la consistenza di quella pelle liscia in contrasto con l’epidermide normale. Intravide il marchio nero ed arrossì, memore delle visioni avute la notte precedente. -Chissà se la pelle marchiata è più sensibile di quella normale?- Si chiese, senza quasi rendersene conto.
Non si poteva certo dire che Draco fosse bello nel senso canonico del termine: i suoi lineamenti non erano di certo regolari e proporzionati. Crescendo, si erano induriti, facendolo diventare, se era possibile, ancora più simile al padre Lucius.
Il mento, come le mascelle erano eccessivamente volitivi e la fronte troppo ampia e sporgente. Il naso non era certo regolare, troppo lungo e dalle narici frementi. la bocca era eccessivamente fine e tenera, dandogli un’aria fragile in totale contrapposizione con la conformazione del volto. I suoi occhi sarebbero anche stati belli se non fosse stato per la loro eccessiva freddezza, sembrava sempre che ti stessero analizzando, cercando un difetto nel loro interlocutore.
L’insieme, però, ai suoi occhi era estremamente attraente: aveva una sorta di fiera eleganza che lo contraddistingueva come tutti i Malfoy, che rendeva tutti i suoi difetti estetici parte integrante del suo arrogante fascino.
-Forse, bisogna essere Grifondoro o Tassorosso per essere immuni a quegli occhi…-
Rimuginò, in preda alle sue riflessioni interiori. Con tutta l’ironia di cui era capace, osservò Draco con il suo proverbiale sopracciglio alzato e gli si mise di fronte. Prese il fazzoletto dal taschino e , tamponandogli il labbro inferiore, si rese conto che era più carnoso di quello superiore, tanto che le faceva venire voglia di mordicchiarlo. Cosa che ovviamente non fece, diede un’occhiata maliziosa a Pansy che la fissava furente.
A Draco non sfuggì il particolare, e sorrise compiaciuto. Si lasciò tamponare il labbro: erano rare le volte in cui Asteria gli si avvicinava di sua spontanea volontà, senza fatica la trasse a sé accarezzandole il fianco attraverso la lana della giacca.
Erano entrambi perversamente consapevoli, dell’effetto che quella scena aveva sui nervi della povera Pansy, e quel sottile dolore quasi palpabile della povera fidanzata di Draco rendeva il tutto più eccitante e divertente, sia per l’uno, che per l’altra.
“Ma che bravo, - disse Asteria, continuando a picchiettare con il fazzoletto la ferita.- Con tutti gli sforzi che stiamo facendo per tenere te e la tua famiglia lontano dai guai, tu che fai? Insceni una “Lotta alla Babbana” con Ronald Weasley. Veramente Brillante, Draco, sono molto meravigliata da questa tua prodezza Babbana.”
Lui non rispondeva ma si limitava a sorriderle continuando ad accarezzarle distrattamente la curva dei fianchi. Poteva sentire il profumo della sua pelle e dei suoi lunghi capelli castano scuro. Quanto avrebbe voluto annusarla liberamente. Osservava l’elegante figura della strega fasciata nel completo sportivo, i capelli perfettamente pettinati e legati da un nastro di velluto nero. La camicia color crema chiaro, abbottonata per intero, dava un immagine pulita, severa e rigorosa. Quanto avrebbe voluto strappargliela di dosso, sporcare quel candore immacolato che, ostinatamente, si sforzava di tenere in pubblico.
“Ahia! così mi fai male “Isteriuccia”, cara.”
Voleva baciarla, in quel momento sentiva che anche lei lo voleva, ma stare a pochi centimetri di distanza a stuzzicarsi, sotto lo sguardo di assoluta disperazione di Pansy ,era infinitamente più divertente.
“Il dolore fa crescere, Mister Furetto il Bulletto, non lo sapevi?”
Il tono di voce che Asteria stava usando, languido e appena sussurrato, lo stava facendo eccitare. Era un modo di parlare intimo e confidenziale, da letto. Era da quasi un anno e mezzo che non aveva più avuto il piacere di sentirlo, anche se di solito era sempre lui a sedurla, con toni carezzevoli e mani che si infilavano dappertutto. Cosa che non mancava di piacergli, certo, ma non gli dispiaceva nemmeno questa nuova versione di Asteria. Più intrigante e seducente.
“Cosa fai dopo?” Le chiese a bruciapelo, senza pensare.
“Dopo che cosa?” Rispose lei arrossendo, poteva esserci nulla di più bello delle guance arrossate per la vergogna? Di sicuro c’era, ma in quel momento a lui non gli sovveniva nulla.
“Dopo questa serata cosa fai? Vieni con me a bere qualcosa a Diagon Alley? Ti va?”
Aveva fatto le domande a raffica, velocemente, come se avesse fretta di cogliere quell’occasione.
Asteria pensò velocemente. Scappare con lui dopo quel maledetto giovedì e trasgredire le regole di casa Greengrass per quanto riguardava la condotta morale, la tentava parecchio.
“Stai correndo un po’ troppo, Dragone, non ti pare? Facciamo così: dopo questo giovedì sera, io vado a casa mia e tu a casa tua. Se vuoi una sgualdrina ai tuoi comandi ne hai tante da contattare.”
-Non voglio una sgualdrina. Io voglio te. - Pensò lui, ma qualcosa gli impedì di esternarle quello che sentiva.
“Non ti fidi di me?” Chiese lui aggrottando le sopracciglia, come se fosse un’aberrazione, non farlo.
“Mi fiderei di più di un Basilisco affamato.” Rispose lei, esibendosi in un sorriso raggiante.
Pansy cacciò un urlo. Stava tremando dalla testa ai piedi. Sfoderò la bacchetta pronta a colpire Asteria. Draco disarmò Pansy, prontamente, proteggendo la giovane Greengrass mentre tutto lo spogliatoio scoppiò in una fragorosa risata, molto simile ad un boato. Pansy deglutì sconvolta e scappò via.
“Allora, Greengrass, che si fa? Ora ti ho salvato la vita e mi sei debitrice. Dovrò trovare un modo per farti sdebitare con me. Non ti pare?”
Asteria ridacchiò imbarazzata, era inutile che ci provasse: in quel dannato gioco, che durava da qualche anno ormai, era lui, quello con il coltello dalla parte del manico.
“Non so quello che farai tu. Ma di una cosa sono certa: tra meno di un quarto d’ora devo gareggiare sul mio Etone bruno. So che mia madre ha invitato anche te, Draco, se non sei troppo occupato nei tuoi “Duelli alla Babbana”, potresti raggiungerci là.”
Malfoy ridacchiò, colpito dal tentativo della ragazza di sviare il discorso.
– Fai tanto la spavalda, Asteria, ma poi, quando c’è da arrivare al dunque, ti tiri indietro come un cucciolo spaventato. Sarai totalmente mia, prima o poi, che ti piaccia o no. – Pensò lui, mordicchiandosi l’interno delle guance, nervoso e confuso dalle sue pulsioni più basse.
“Visto che me lo chiedi con così tanta passione, come posso fare a dirti di no?”
Il tono che aveva usato Draco era deliberatamente provocatorio, sapeva come mettere Asteria in difficoltà: era piuttosto timida, anche se faceva di tutto per dimostrare il contrario e lui usava questa sua debolezza a suo vantaggio.
La ragazza si congedò con un sorriso, sapendo che se fosse andata avanti a battibeccare non sarebbe riuscita a non saltargli addosso, arrivando in ritardo al maneggio e non le andava di subire le ire dei Greengrass.
Arrivò appena in tempo e montò Artax, il suo fido cavallo alato.
Pansy l’aveva preceduta ed aspettava che l’arbitro desse il via in groppa a Lady Violet, non era riuscita a sentire cosa Draco ed Asteria si fossero detti poco prima, ma non ci voleva un genio per capire che si stavano stuzzicando come una maledetta coppia di innamorati.
Strinse le briglie talmente forte da ferirsi i polpastrelli, sentiva il cuoio lacerarle la pelle, ma poco le importava. Asteria Greengrass le stava portando via tutto quello per cui viveva.
Lei si sentiva una spettatrice di quello che stava succedendo e non aveva potere decisionale. Vittima designata, di una guerra spietata e silenziosa.
La vide con la coda dell’occhio arrivare appena in tempo per gareggiare; l’arbitro contò fino a tre e le cavallerizze partirono.
Pansy era da giorni che non faceva un pasto decente, il nervosismo le impediva di mangiare.
Da quando Draco aveva smesso di rispondere alle sue lettere, lei aveva smesso di avere una ragione per andare avanti.
Era dall'età di undici anni che sua madre la istruiva per farla diventare la perfetta moglie ubbidiente di un purosangue ed era l'unica cosa che sapesse fare.
Non si erano ancora lasciati, ma quanto tempo gli sarebbe voluto per rimpiazzarla al più presto, magari proprio con Asteria Greengrass?
Lui non faceva altro che ricordarle quanto fosse inadeguata, e lei cercava di migliorarsi, ma per il signorino Malfoy i suoi sforzi non erano mai abbastanza.
In quei rarissimi sbotti d'ira gli aveva chiesto perché non se ne trovava un'altra, di ragazza. Lui le rispondeva laconico sempre nello stesso modo: che una valeva l'altra, giacché l'unica che voleva, suo padre gli proibiva di averla.
Finivano sempre quelle discussioni nel medesimo modo: Draco le intimava semplicemente di tacere e di non annoiarlo, cosa che puntualmente lei si riduceva a fare. Quel maledetto ragazzo sapeva essere tanto elegante, quanto crudele.
Dentro di lei sperava ardentemente che Asteria Greengrass non cadesse nella sua rete, che continuasse a tenergli testa, come aveva sempre fatto, e come lei non mai riuscita a fare.
Purtroppo, però, in qualche modo presagiva che lui l'avrebbe lasciata presto e che l'avrebbe fatto per lei.
Fece davvero una gara pessima, rischiando più volte che la sua cavalla, la disarcionasse.
Asteria come sempre, invece, fece una gara perfetta. Aveva sempre avuto un rapporto stretto con gli animali più che con le persone.
- Forse perché sono gli unici che ti sopportano, vero, Isteria Greengrass? Maledetta megera frequenta feccia.”- Pensò Pansy, con il cuore ricolmo di risentimento.
Era così che la chiamavano a Hogwarts, lei, Draco e l'intera banda di Serpeverde, ma lei già lo sapeva che quello che muoveva Draco a trattarla male non era certo l’odio, bensì la gelosia.
Così, Pansy, aveva iniziato a odiarla, a disprezzarla nel profondo. Quella maledetta sgualdrina di Asteria Greengrass, tutta spocchia e volgarità.
Aveva sempre dato fede alle parole di Tracey: “Lui la vuole perché non può averla.” Giusto per sentirsi un po' meno triste. Lo sperava in cuor suo, voleva che si distruggessero a vicenda.
Il mondo attorno a lei cominciò a vorticare e la vista le si oscurò.
L'ultima cosa che sentì in lontananza fu il boato degli spettatori, che avevano assistito alla sua caduta da cavallo: Pansy Parkinson era svenuta.
I soci di quell'esclusivo club avevano vissuto la tragedia della povera ragazza come l'ennesima figuraccia, di quella volgare famiglia di arricchiti. I quali erano stati presentati al circolo dai Malfoy.
Senza di loro, non avrebbero mai messo piede lì dentro. Non c'era pietà sui loro bei volti o comprensione nella purezza del loro sangue, ma solo il più spietato dei giudizi.
Segretamente, le velenose bocche scommettevano per quanto tempo avrebbero visto ancora i Parkinson alla Serpe. Sogghignavano alle loro spalle, compiaciuti di liberarsene.
In fin dei conti non c'era tragedia che non si trasformasse in farsa, in quegli sfavillanti giovedì di gioco.

Note di fine capitolo

Ho cambiato un po' le avvertenze mettendo AU, perchè i negromanti e altre cose non esistono nel mondo canon di Harry Potter, quindi ho pensato che fosse meglio così.

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