Note al capitolo

Note dell’Autrice:
 

  1. Il titolo: viene citato il nome di Autolico, personaggio della mitologia greca e abilissimo ladro, noto per aver rubato l’elmo di cuoio di Amintore, episodio citato nell’Iliade. Il riferimento iniziale può ricondursi a Helena che, come è noto, ha sottratto il prezioso diadema alla madre, ma questa incarnazione del ruolo di Autolico diventa ambigua dal momento che potrebbe riferirsi parimenti a Tom Riddle che si approprierà successivamente del medesimo oggetto. Il limbo a cui si fa riferimento è metafora della condizione mediana tra vita e morte a cui entrambi sembrano essere condannati per la loro colpa, seppure in modo completamente diverso.
  2. Voi, lei e tu: la narrazione è scritta in italiano, ma naturalmente si presuppone che i dialoghi che hanno luogo avvengano idealmente in lingua inglese. Questo ha creato un paio di questioni da risolvere; in inglese non esiste un vero “lei” o “voi” e la formalità si conserva con l’aiuto di altri elementi, come il non chiamare per nome il proprio interlocutore, cosa che, invece, dichiarerebbe una maggiore confidenza (come il dare del tu). Così ho deciso di adattare l’iniziale tono formale con l’uso del “lei”, per Tom e del “voi” (più arcaico) per Helena. Quando finalmente i due decidono di abbandonare le formalità Tom lo rende con un: “Potremmo persino iniziare a chiamarci per nome.” come avrebbe detto in un dialogo in inglese per intendere un invito a “darsi del tu”, ottenendo, come conseguenza proprio la caduta del “lei” e del “voi”.
  3. I peccati capitali: i momenti salienti della storia vengono scanditi in base ai sette peccati capitali, anch’essi riferimento all’idea del “Limbo” del titolo, in cui si muovono i personaggi, schiavi delle loro debolezze e delle loro ossessioni che spesso li accomunano.
  4. Di POV e affini: nella maggior parte delle sezioni si alternano i POV di Tom e Helena separati da un asterisco, che vede anche un’alternanza dei tempi verbali utilizzati. L’effetto è voluto: Helena parla al presente perché agisce in una dimensione senza tempo e ho preso questa decisione linguistica per rendere la diversità delle percezioni di entrambi.
  5. Flashback: ogni singolo flashback per quanto possa dare l’iniziale percezione che si stia andando fuori traccia è funzionale a rispettarne i punti e chiarire quanti più aspetti possibili delle caratterizzazioni dei personaggi e le motivazioni che originano le rispettive ossessioni.
  6. Indice delle citazioni:
  1. Autolycus in Limbo: titolo della raccolta di poesie di Vincent Starret
  2. “I am the Cat who walks by himself, and all places are alike to me.”: Rudyard Kipling
  3. “Curiosity is gluttony. To see is to devour.”: Hannibal
  4. “No matter what we breed, we still are made of greed.”: Imagine Dragons, Demons
  5.  “There's one at the door, at the gate to damnation… is it thief, thug or whore?: Sandman
  6. “With the lights out it’s less dangerous”: Nirvana, Smells like a teen spirit
  7. “I see magic in your eyes, On the outside you're ablaze and alive, But you're dead inside.”: Muse, Dead Inside

Autolycus in Limbo
(seven deadly sins)

 
 
 
 
 

Pride

 
 
 
 
 

“I am the Cat who walks by himself,
and all places are alike to me.”

 
 
 
Di tanto in tanto all’orfanotrofio venivano organizzate delle gite: al mare o in montagna. La località marittima prescelta, in particolare, era sempre la stessa ai piedi di un’alta scogliera grigio-nera, con un’alternanza più rada di strutture ad arco in gesso biancastro. Noi ci sistemavamo sui pochi metri di pietrisco umidiccio che separavano le rocce da una riva frastagliata: stesso azzurro plumbeo del cielo maculato da nuvole color ferro. Poco distante da noi c’era anche un porto di pescatori con barche a remi o a vela, o più vistosi Herring Drifter: i pesca-aringhe, ci diceva la signora Cole. A qualche chilometro dalla costa, poi, c’era il villaggio nebbioso e umido dove pranzavamo prima di ripartire per Londra. A dirla tutta non erano proprio delle gran gite. Più in fondo rispetto a dove ci portavano, la scogliera sembrava diventare stregata. Si plasmava sotto l’incantesimo di una natura più violenta, facendosi malleabile e indefinita, quindi evolveva in un panorama cupo e aspro di rocce impervie; persino la navigazione diventava pericolosa da quelle parti e le barche non ci si avvicinavano mai, ma prendevano il largo dirigendosi a ovest. Passavo parte del mio tempo lì a studiare i profili irti della pietra da quella parte di scogliera e ricordo che mi incuriosiva ogni antro che indovinavo insinuarsi in quella conformazione di natura selvaggia.
Uno dei giorni meno noiosi trascorsi lì avvenne qualcosa di diverso dalla reiterata cerimonia fatta di mocciosi schiamazzanti e le poche ore concesse per un bagno nell’acqua fredda e spiacevole. Ricordo che c’era cattivo tempo, ma non era ancora abbastanza brutto da risparmiarci la gita.
Il pietrisco era grigio-marrone e pizzicava sotto i piedi nudi; il cielo era disegnato dalle forme bizzarre di cirri e nuvole a terra, anche se non sembrava promettere pioggia. L’odore dell’aria era salato e ci si mischiava in mezzo quello di fumo: la signora Cole sedeva davanti alla riva, coi piedi infilati nell’acqua e una sigaretta tra le dita dalle nocche nodose. Indossava un costume a righine bianche e blu navy che sarebbe stato abbastanza grazioso, se non avesse avvolto in pieghe mortificate quel corpo rachitico dalla carnagione livida identica all’interno di una conchiglia. Eddy Burgess aveva convinto la signora Cole a portare la radio da tavolo del suo ufficio, ma l’aveva spensieratamente dimenticata vicino alla scogliera, sopra un asciugamano, per rincorrere Molly Cox. Adesso le note di una vecchia “Big Boy Blue” di Ella Fitzgerald risuonavano piuttosto sbiadite nel chiasso di bambini eccitati. Il piede di Eddy Burgess in corsa affondò nel pietrisco proprio vicino a me, schizzandomi addosso acqua e sassolini, alcuni dei quali finirono sulle pagine del mio libro: un’ “Enciclopedia Scientifica per ragazzi” piuttosto logora, chiaramente reduce di anni di scuola elementare in cui doveva essere passata di mano in mano, prima di essere donata in beneficienza all’orfanotrofio e alla sua scarna biblioteca.
Rivolsi a Eddie Burgess e la sua schiena pallida che si allontanava di corsa un’occhiata vendicativa, ma non fu quello l’episodio che ruppe la piattezza della giornata. Lo sguardo inseguì Eddy finché non girò a sinistra, perché poi, dietro di lui, vidi i pescatori affollarsi sulla riva, non appena era rientrata l’Herring Drifter. Di solito i pescatori erano gente silenziosa e anche piuttosto schiva, cosa che mi permetteva di tollerare la loro intrusione in quella parte di spiaggia, ma quel giorno le esclamazioni di sorpresa e allarme erano così chiassose che si udirono fino a noi. Mi accigliai e chiusi il libro, sentendo scricchiolare i sassolini tra le pagine del capitolo sul sistema solare. Lanciai un’occhiata indagatrice alla figura della signora Cole, ancora girata e impegnata a chiudere le labbra protese sul filtro della sigaretta. I bambini scorrazzavano attorno a me, senza degnarmi di uno sguardo, fatta esclusione per Martha Baxter che mi piombò vicino. Aveva appena finito di correre e aveva il fiato corto. Martha era bassa, un paio di zigomi dalla linea felina donavano parecchio al suo viso tondo, i capelli bagnati erano più scuri del consueto biondo cenere, la guardai e pensai che era bella e che non mi interessava nemmeno un po’.
“Giochi con me?” chiese, senza fiato. L’acqua di mare e il freddo le facevano colare il naso. Le feci no con la testa, ansioso di sbarazzarmi della sua attenzione e Martha andò via delusa. Appena fui certo di non essere osservato cominciai a camminare sulla riva, fingendo di cercare qualche granchio. Per rendere più credibile la scena, ne schiacciai qualcuno sotto il tallone, sentendo crepitare il guscio e beccandomi qualche pizzico delle chele sul piede. Strinsi i denti e cominciai a collezionare bestioline fetide e morte sul palmo della mano sinistra. Sebbene fosse una pratica piuttosto grottesca, non me ne preoccupai, perché la semplicità della morte dei granchi sembrava interessare più di un bambino all’orfanotrofio. La signora Cole se n’era fatta una ragione. Avevo macinato diversi metri di costa e quando mi voltai a controllare la situazione, vidi di essere passato inosservato. Lasciai andare i cadaveri dei granchi nell’acqua, sciacquandomi la mano per liberarmi dell’odore rivoltante e proseguii; presto cominciai a superare qualche barca a remi ormeggiata a bitte improvvisate con ceppi di legno, avviluppati da corde fradice e spesse. Feci attenzione a piazzare bene i piedi e non scivolare nella discesa del pietrisco che fungeva da banchina. l’Herring Drifter, invece, approdava su una banchina vera, fatta da una pedana di legno sopraelevata con bitte di ferro. Salii lì sopra e i pescatori erano troppo distratti per accorgersi di me o perdere tempo a darmi retta. Erano tutti affollati davanti alla barca, così trattenni il respiro e mi infilai nel labirinto di gambe avvolte da pantaloni logori e sbiaditi.  Guardai dal basso qualche viso scottato e semicoperto di barba, schivai le mani ruvide e maleodoranti, finché non riuscii a farmi strada e raggiungere qualsiasi cosa tutta quella gente stesse accerchiando. Era un ragazzo, probabilmente un semplice mozzo, coi capelli neri e i vestiti zuppi. Era steso a terra con la pelle dello stesso grigio-azzurro del cielo o di certi tipi di pesce che avevo visto una volta nella cucina dell’orfanotrofio. I lineamenti erano confusi, come se fossero stati rimpiccioliti rispetto al viso gonfio. “Si è rotto la faccia sulla chiglia, quando è caduto.” bisbigliò uno dei pescatori a nessuno in particolare.
Mi incantai su quella vista, non perché mi piacesse, ma in virtù della stessa curiosità con cui un bambino cerca di guardarsi la punta della lingua. La pelle morta del cadavere azzurro scintillò sotto qualche sporadico raggio di sole che aveva superato il bordo orlato di una nuvola e pensai che il corpo umano diventava strano quando moriva.
Percepii un moto di nausea chiudermi la bocca dello stomaco e far risalire un nodo in gola, ma cercai di ignorarlo.
“Meglio per lui che abbia tirato in fretta le cuoia.” borbottò un secondo vecchio in tono burbero e con la voce impastata di chi non è abituato a fare lunghi discorsi. “Con le ferite che aveva, se non fosse annegato, avrebbe sofferto le pene dell’inferno per tutto il viaggio di ritorno e comunque alla fine se ne sarebbe andato all’altro mondo.”
Mi venne la pelle d’oca per via di una corrente di vento improvvisamente freddo, o forse per le parole del vecchio. Sentii i peli delle braccia drizzarsi e i granelli di sale ormai secchi pizzicarono sulla pelle. Cacciai indietro la nausea e rimasi a fissare il cadavere. Dopo quelle parole per me fu come essere capitato in una terra straniera, circondato da aborigeni con vestiti di piume e lance. Mi sentii disorientato come se io fossi l’esploratore, invece, quello evoluto, quello che parla un’altra lingua e non capisce, né viene compreso dagli indigeni. Ero lontano dai pescatori e dal loro modo di vedere le cose, persino più di quanto non mi sentissi distante dagli altri orfani ordinari.
Non si trattava solo di avere o meno qualcosa di speciale, in questo caso si trattava di priorità: lo sconquassamento del corpo morto poco distante da me non era tanto nella faccia, osservai, quanto nel colore blu che la pelle aveva assunto alla sua morte.
Da vivo non sarebbe mai stato di quel colore.
Il dolore, quello, poteva essere sopportato. La carne poteva divorarne a volontà senza che l’uomo ne fosse annullato. Ma la morte, la morte ti fa sparire in un buco sotto terra, cambia colore alla pelle, rende gli occhi vitrei come la superficie dell’acqua torbida.
Pensai a mia madre e al mucchio d’ossa a cui probabilmente era ridotta e seppi che nulla avrebbe potuto riattaccarci sopra la carne. A soli dieci anni era difficile per me razionalizzare quei concetti in termini esatti, ma quando crebbi ripensai a quelle associazioni istintive e compresi che il punto era l’irreversibilità della morte e il semplice fatto di sparire dalla faccia della terra. Da quel momento in poi non si poteva essere né speciali, né straordinari, né importanti, perché semplicemente si smetteva di essere qualcosa.
Benché mi fosse difficile cogliere il nucleo di quel pensiero a quell’età, percepii ugualmente un moto di ribellione e la sensazione che i pescatori fossero dei vigliacchi, che avrebbero preferito sparire e che lo preferivano perché erano deboli. Mi sentii diverso e per quanto il sentimento di disgusto rivolto a loro mi attanagliasse le viscere strattonandole (o forse era solo la vista prolungata sul cadavere) provai anche orgoglio in ciò che mi distingueva dai pescatori.
Ho dieci anni, pensai. E guardo un morto. E non batto ciglio.
Quello non era proprio esatto in realtà, dato che cominciavo ad avere i brividi.
“Ehi ragazzino!” tuonò una voce alle mie spalle, seguita dal tocco ruvido di una mano che mi si posava sul braccio. Mi ritrassi, per poi voltarmi, irato. Un vecchio con le spalle larghe e abbronzate puntò due minuscoli occhi azzurri su di me. “Non dovresti essere qui!” mi rimbeccò, ma dovette urlarmi dietro perché avevo preso a correre via a metà frase.
Mi precipitai verso gli orfani e la signora Cole, senza guardarmi indietro; mi fermai a qualche metro prima di raggiungerli, solo per cedere alla nausea al riparo di uno scoglio, per poi andare a bagnarmi il viso e la testa nell’acqua. Tornai indietro, molto probabilmente più pallido del solito, perché la signora Cole attaccò a rimproverarmi, per poi tagliare la ramanzina prima del previsto e ordinarmi in tono burbero di rivestirmi e andare con gli altri.
Stranamente non protestai: recuperai le mie cose in silenzio, per poi infilarmi camicia e calzoni. Vuotai le scarpe dalle pietrine e misi anche quelle. Tutto senza aprire bocca. Impresso nel mio sguardo, come un’impronta di colore, di quelle che vedi anche a occhi chiusi dopo che hai fissato troppo a lungo una fonte di luce, c’era il brillante grigio-azzurro dell’annegato. Pensai che non avrei mai scordato quel colore.
 
Sette anni dopo l’avrei rivisto. Più evanescente di allora, come volute di fumo a plasmare le forme femminili di un fantasma fluttuante: l’abitante di un castello che in realtà era una scuola.
La tormentata e scostante Dama Grigia, come veniva chiamata, il fantasma di Corvonero.
Il bambino di allora adesso aveva diciassette anni e idee non troppo diverse da quelle nate ai piedi di una scogliera, dopotutto. Quel ricordo d’infanzia era ancora abbastanza impresso da portare a interrogarmi ancora una volta sulla morte, quando rivolsi la mia attenzione verso Helena Corvonero.
Cominciai a osservarla con discrezione dall’inizio dell’anno scolastico: fu immediato dedurre che il corpo della Dama, ora nebuloso, doveva aver attirato l’attenzione di molti uomini, quando era in vita. Sin dai primi giorni presi a studiarlo con occhio il più oggettivo possibile; ne indagai con lo sguardo l’architettura sofisticata che articolava forme, giunture e connessioni in simmetrie di scientifica proporzione. Indovinai delle linee a clessidra per i fianchi, sotto l’abito e mi domandai quanto esili dovevano essere state le braccia sottili o la curva serica del collo.
Il suo viso aveva la rotondità di certi volti francesi, guastato da una rigidità altera; i capelli lunghi dovevano essere stati neri, anche se ora erano ridotti anche quelli a fumose volute grigiastre.
Appariva e scompariva per i corridoi, o in Sala Grande; tuttavia poteva non essere vista per lunghi periodi, nemmeno dagli studenti di Corvonero. Poi, in un giorno casuale, ecco che sbucava di nuovo, scivolando oltre una parete con la distratta e indifferente scioltezza di un pesce rosso che nuota nella boccia di vetro.
Imbottigliai tutti questi dettagli mano a mano che li raccoglievo, ma non era la sua bellezza che volevo comprendere: se intendevo capire come ottenere la sua attenzione e persino una conversazione, ciò che mi serviva davvero era studiare la sua indole. Era silenziosa e schiva: le belle maniere del suo tempo erano state sostituite da una muraglia spinosa di ritrosia.
Una volta intuiti tutti questi particolari, cominciai a mettere in atto le diverse fasi del mio piano: i primi giorni mi limitai a dirigerle qualche rispettoso cenno del capo lungo i corridoi, senza ancora rivolgerle la parola. Mi armai di pazienza, il tempo necessario a ricevere una risposta confusa: un cenno rigido del capo, prima di svanire velocemente nella parete.
La cosa si ripeté per circa una settimana e finalmente riuscii a scorgere una nota contrariata sul viso della Dama, per quella curiosità insoddisfatta. Si chiedeva certamente cosa volessi da lei.
Quando lo capii cambiai le mie abitudini e feci in modo di aggirarmi per i corridoi da solo. Mi liberai della chiassosa vicinanza dei compagni Serpeverde con qualche scusa improvvisata. La maggior parte si convinse del fatto che avessi una qualche misteriosa relazione. Lasciai che le voci circolassero, senza curarmene e proseguii con le mie passeggiate solitarie, nella speranza che aumentassero le possibilità di un incontro.
Qualcosa cominciò a muoversi dopo circa dieci giorni da quando avevo adottato quella strategia. Avvenne al tramonto, mentre attraversavo il corridoio coperto attorno al perimetro del chiostro. Davanti ai miei passi, nient’altro che la pavimentazione di pietra sgombra su cui si alternava la scacchiera di luce pomeridiana intervallata dalle colonne. Il fantasma mi tagliò la strada emergendo dal muro alla mia sinistra e fermandosi al colonnato. Ero convinto che sarebbe semplicemente passata oltre, invece restò ferma lì, con lo sguardo fisso davanti a sé. Mi fermai e attesi, prima che mi rivolgesse un’occhiata schiva senza riuscire a nascondere una scintilla di curiosità.
“Buon pomeriggio.” tentai.
Ma il tentativo dovette risultare azzardato, perché la Dama Grigia riprese a muoversi più velocemente di come era arrivata, sparendo oltre il corridoio parallelo al mio e senza degnarmi di risposta.
Non riuscii a trattenere un gemito esasperato e una smorfia stizzita. Terminai in fretta la passeggiata, con i passi accelerati dal nervosismo per un tale buco nell’acqua.
Ciononostante mi si presentò una seconda occasione: quella sera stessa, mentre facevo ritorno dalla Sala Grande, dopo cena.
Di lì a poco sarei sceso nei sotterranei; stavolta la solitudine era stata un caso, non una condizione voluta, come nelle sere precedenti, ma ormai ero abituato ad allungare il tragitto lungo la rete di corridoi del castello. Lei scivolò giù dal soffitto, tralasciando la solita leggerezza fluttuante, ma calando in picchiata davanti a me, sovrastandomi con un’espressione stizzita che ne animava per la prima volta il viso cereo.
“Questo pomeriggio non vi ho risposto.” disse senza troppi preamboli.
Non avevo mai sentito la voce della Dama Grigia. Era lugubre, una di quelle voci femminili con note gravi come un do basso.
“No, non l’ha fatto.” replicai pacatamente.
“Avrete certamente pensato che la mia condizione… che la morte mi abbia privato persino delle basilari norme di cortesia.” insinuò con un tono vibrante e stizzito, più sulla difensiva che colpevole, anche se evitava di guardarmi.
“Se sta cercando di chiedermi scusa…”
“Non sto cercando di chiedere scusa.” ribatté aspra, alzando di scatto il viso verso di me.
Restai in silenzio e l’osservai nella semplice attesa che aggiungesse qualcosa. Lei si limitò a venirmi incontro, per poi aggirare la mia figura e superarmi di pochi metri con un fruscio. Quando mi girai verso di lei, vidi che mi dava le spalle.
“I vostri modi mi hanno confusa. La confusione mi ha spinta ad andarmene senza una parola, ecco tutto.” disse, in tono sbrigativo.
“Non sapevo di aver fatto qualcosa per confonderla.” osservai.
“La vostra attenzione!” tuonò lei, voltandosi e artigliandosi la gonna in un gesto di stizza. “L’attenzione che mi avete rivolto, non la desidero. Come vedete mi mette in agitazione e sono intenzionata a respingerla. Vi prego di distoglierla quanto prima, se avete abbastanza tatto da lasciare in pace i defunti.” terminò con una nota amara per la quale avrei volentieri alzato gli occhi al cielo, ma mi guardai bene dal farlo.
“Sono disposto ad assecondare qualsiasi richiesta per farla sentire a suo agio, ma permetta che capisca almeno.” dissi. “Cosa la mette in agitazione? Dubita delle mie buone intenzioni?”
Il viso del fantasma si deformò in un sorriso di trionfo adirato: “Sospettavo che aveste delle intenzioni e adesso ne ho la conferma.” sibilò in tono di accusa. Piegò appena il busto verso di me e tese il collo, dando l’impressione ferina di un lupo pronto a saltare addosso al cacciatore che l’ha braccato. “È lo stesso fatto che le abbiate che mi è insopportabile.”
Stirai le labbra in una smorfia e cercai in fretta di riguadagnare terreno.
“Le mie intenzioni non sono nocive e sono più umili di quel che pensa. Credevo di essere stato discreto nel ricercare la sua considerazione.”
Il fantasma emise un verso a metà tra lo schiocco della lingua e una risata di scherno.
“Se la vostra la chiamate discrezione, allora devono essere cambiate davvero molte cose da quando ero in vita. Vi prego di tornare a fare come se non ci fossi.”
“Ma lei c’è.”
“No, non è così.”
“Però è qui a parlare con me ora.”
“La vostra ignoranza è insopportabile!”
“Se ritiene che insultarmi sia la risposta più adeguata al mio comportamento, allora devo essermi fatto un’idea assolutamente sbagliata sui modi delle dame medievali.” dissi, ricalcando la frase che mi aveva rivolto poco prima.
Fu un azzardo e in effetti il fantasma fece scattare il volto verso di me, con un’espressione offesa. Ciononostante non se ne andò, ma lasciò passare qualche secondo silenzioso, prima di esordire con un: “Ebbene,” per poi fluttuarmi attorno e tornare a fronteggiarmi. “Sentiamo, allora. Cosa volete da me?”
 
 

*

 
 
Lo schiocco sprezzante della risata rimbalza contro le pareti del corridoio, languendo in un eco cupo che quasi pare un ululato.
La luce delle fiaccole trema come per conseguenza, dipingendo ombre rosse e vibranti sui mattoni di pietra umida e il volto, altrettanto statuario, del ragazzo davanti a me. Ne osservo i lineamenti pallidi, che ancora poco conservano di infantile, tendersi sopra le ossa spigolose degli zigomi in una smorfia contrariata e appena trattenuta. Gli occhi, nell'ombra, rilucono come teste di spillo nere, animate da un moto imperioso di stizza, quasi subito messo a tacere. Il suo corpo non perde rigidità o contegno e rimane fermo davanti al mio, fluttuante come fumo argenteo a mezz'aria.
“Tempo? Mi chiedete tempo? Ho tutta l'eternità davanti. Il tempo non è un concetto che mi appartiene più. Voi però potete risparmiare il vostro. Pensate che non immagini perché siete qui? Non siete il primo e non sarete l'ultimo. Generazioni di ragazzi mi hanno tormentata.”
So che è lugubre il tono di voce che accompagna le mie parole, teso appena di rabbia e amarezza verso la fine, eppure basso, come un sibilo stanco.
Non posso urlare, non sempre. È come se la morte avesse strappato alla mia gola la forza di una voce umana, lasciando anche di quella un'ombra pallida e sbiadita.
“Non era mia intenzione offenderla, chiedendo del tempo da trascorrere in sua compagnia. Tormentarla non è quello che voglio.”
“Dunque ditemi cosa desiderate.” ribatto con cupo malumore e una nota sprezzante affatto celata. “Se potrò sarò certamente lieta di accontentarvi.”
Né il mio tono di stizza, né il cipiglio che mi indovino sul viso sembrano irritarlo ora. Lo strano ragazzo con un sorriso morbido e caldo tende la sua mano verso di me, porgendomi il palmo in un gesto antico e galante. China di poco il capo, facendo spiovere sul bel viso corti ciuffi di capelli bruni, in un inchino composto. In un altro tempo, in un altro luogo, so che quel semplice gesto mi avrebbe fatto stringere il cuore in un nodo di aspettativa smaniosa.
“Desidero farle vedere una cosa. Vuole? Ruberò volentieri il mio tempo, se accetterà.”
“Non sai che poco conviene rendere una mano ad un fantasma? Io non potrei prenderla e tu sentiresti il freddo della mia morte su di te.”
“Sì, lo so, ma nessuno dei due mi sembra un motivo abbastanza buono per non farlo.”
Non ho più un cuore che possa stringersi per la determinata franchezza di quella risposta o delle guance capaci di scottare per l'impronta affascinante che il suo sguardo lascia su di me, eppure vedo la mia mano sollevarsi e le mie dita arrivare a sfiorare le sue.
Le ritiro, quasi mi fossi punta, evitando il suo sguardo.
“Niente di quello che vorrai mostrarmi in questo castello mi è sconosciuto. Hogwarts è casa mia!”
Il suo volto non muta quando la mia voce riesce a sollevarsi, irata, più alta di un sussurro. È arroganza quella contenuta in quel semplice gesto compito. Cosa crede questo ragazzo? Di assecondarmi con le sue moine? Che gli dirò dov'è perché si mostra diverso dagli altri?
Sento la rabbia, mia antica compagna nel tempo infinito di questa stanca agonia, fremermi dentro e sollevo il corpo senza peso più in alto, rivolgendo allo studente uno sguardo sdegnoso, prima di voltargli le spalle. Le sue parole mi inseguono smorzate oltre il muro che attraverso per allontanarmi da lui.
“ Aspetterò tutto il tempo che occorre...”


“... e Lady Tosca ha detto che bisogna attendere tutto il tempo che occorre.”
Una voce squillante di bambina vibra nel vento, distogliendomi dalla lettura. Alzo lo sguardo e colgo un fremito percorrere il tappeto di foglie bronzee disteso sul terreno ai miei piedi. Fruscii e refoli coprono il resto delle sue parole, ma non nascondono la figura che incede oscillando nel prato, le trecce bionde che brillano sotto un raggio sparuto di luce. Le nuvole che incombono sul castello sembrano grumi sporchi ed informi, a tratti incrinati da crepe da cui penetra il riverbero di un sole nascosto. Riflettono l'umore nero che mi percorre come un tremito da quella mattina, quell'insoddisfazione capricciosa che trova pace solo nell'isolamento. Da quando i cancelli sono stati aperti per la prima volta, Hogwarts mi è diventata aliena come un ritrovo di Babbani. I corridoi silenziosi e le giornate sonnacchiose hanno ceduto il passo allo scalpitio rumoroso di piedi estranei e al tempo scandito dagli orari delle lezioni. Non esistono più stanze vuote in cui giocare o nicchie in cui nascondersi: ogni angolo si è tramutato in un covo di voci fanciullesche e odiose, entusiaste di penetrare nel più remoto angolo della mia casa e sporcarlo con la loro presenza.
Fuggendo, ho trovato riparo nell'unico luogo che sembra tenere lontano gli allievi e alimentare, allo stesso tempo, le loro chiacchiere e le loro paure. Dalle mura del castello le propaggini della Foresta Proibita sembrano allungarsi, dita nere di una mano spettrale, per ghermire chiunque si avvicini. Gli alberi secolari, piegati dal tempo, protendono i rami nodosi e scuri, sibilando nelle notti senza vento mentre il buio tra le erbacce si accende di mille occhi senza palpebre.
Questo, almeno, è ciò che racconto per venire qui ed essere certa di rimanere sola.
Il nero fitto e imperscrutabile della Foresta non mi spaventa, gli scricchiolii sinistri mi sono familiari quanto il respiro di mia madre quando, esausta, si addormenta sui suoi scritti.
Hogwarts è casa mia.
Il gruppo di bambini procede spedito, i mantelli che ondeggiano attorno ai corpi minuti e i cappelli tenuti premuti sul capo perché non vengano catturati dal respiro gelido del vento. Solo la bambina bionda che ha parlato non lo indossa, forse perché ha le mani congiunte, concave, a formare una coppa di carne che racchiude terriccio e uno stelo solitario di erba.
Hogwarts è casa mia, continuo a riflettere, un pensiero ossessivo, assillante e rabbioso.
Non possono vedermi, a cavalcioni di un ramo d'albero troppo alto, e spero continuino a non farlo, andando per la loro strada. Le speranze si rivelano vane ben presto e i bambini, deviando dal loro percorso rettilineo, puntano verso di me.
Con mio sommo disappunto si fermano sotto l'albero accanto al mio, assiepandosi come uno stormo di passeri intirizziti dal freddo attorno alla loro bionda guida. Molti di loro lanciano sguardi colmi di sacro timore all'indirizzo della Foresta, e qualcuno si azzarda a dar voce all'ansia che ha preso ad assillare la sua mente.
“Berenice, non dovremmo avvicinarci così tanto alla Foresta. Lady Tosca ha detto...”
“Lady Tosca ha detto che l'Artemisia ha bisogno di un terreno ombroso per crescere. Non ce ne sono altri ad Hogwarts e le serre sono occupate dalle coltivazioni di Mandragola.”
“Ma ci occuperemo dell'Artemisia solo dopo Natale...”
“...Già, è immagina come sarà fiera di noi Lady Tosca quando vedrà che siamo riusciti a farne crescere una senza che lei ci seguisse!”
“Ma non sappiamo come fare!”
“Mia nonna nel suo giardino fa crescere Funghi Saltellanti e Belladonna. Nessuno le ha mai insegnato come fare. Non sarà così difficile. E poi un tentativo non costa nulla.”
Berenice ha lo sguardo che brilla di una brama fulgida, mentre assapora il momento in cui verrà ricompensato dal sorriso materno della sua insegnante. Ha ragione nel pensarlo: comunque vada Lady Tosca premierà il suo impegno anche se si ritroverà tra le mani dell'erba marcia. Perché è esattamente quella fine che faranno le buone intenzioni di lei, visto che ha deciso di trapiantare l'Artemisia nel periodo sbagliato dell'anno. Non che il periodo cambi qualcosa, naturalmente. È davvero un'illusa se spera di saper curare una pianta simile senza che qualcuno la segua.
Sento il trionfo sbocciarmi nel petto e far affiorare un sorriso meschino sul viso al pensiero.
Osservo la buca (troppo poco profonda) scavata nel terreno (troppo umido) e la delicatezza con la quale lo stelo viene sistemato. Nel guardarlo il sorriso si allarga e un senso di vittoriosa esultanza mi graffia la gola, liberando una risata di scherno.
Le teste dei miei coetanei si voltano a guardarmi, non senza che un fremito di timore attraversi i loro corpi e i loro sguardi per quell'improvviso infrangersi del silenzio. Picchietto la bacchetta sul ramo che sostiene il mio corpo, e quello scricchiolando si inclina verso il suolo, facilitando la mia discesa. Quando sono ormai in piedi sul tappeto di foglie umide, gli sguardi curiosi ancora sono puntati sul mio viso. Quello di Berenice, in particolare, mi fissa con cipiglio contrariato.
“Cosa c'è da ridere, Helena?”
“Molte cose. Non so quasi da dove iniziare.”
“Sarebbe bene che tu ti spiegassi.”
Il tremore che percepisco nella sua voce è simile a quello di un tono rotto da un groppo in gola.
“Credi davvero che Lady Tosca ti premierà per aver spostato nel posto sbagliato e nella stagione sbagliata la pianta sbagliata?”
Un mormorio sconcertato percorre il gruppo di bambini, tingendo di chiazze rosse la pelle puntellata di efelidi della mia interlocutrice. Non le do il tempo di rispondere, affondando una nuova stilettata nel suo orgoglio di bambina.
“Si deve essere dei veri inetti per sbagliare così il terreno e il periodo, ma solo degli stupidi non sanno distinguere un'Artemisia da un Alioto.” indico lo stelo piantato nel terreno e il mio gesto dà vita ad un coro di respiri smorzati dallo stupore degli altri bambini. Avanzo con passo grave, accostandomi a Berenice. Ha il capo basso e gli occhi vergognosi affossati nel terreno mentre torce le dita con gesti nervosi.
“Sarebbe bene,” le faccio eco con tono sprezzante, voltando leggermente il capo verso di lei. “Che tu tornassi nel giardino di tua nonna. Hogwarts è solo per i migliori.”
La vedo incassare la testa, quasi l'avessi colpita, e stringere le palpebre per impedirsi di piangere. L'immagine mi segue mentre la supero e il gruppo si apre in due ali disarticolate e silenti per farmi passare.
Ho ancora un sorriso soddisfatto scolpito in viso quando supero il portone del castello e le sue ombre mi inghiottono.
 
 
 
 
 

Gluttony

 
 

“Curiosity is gluttony.
To see is to devour.”

 
 
 
 
Avevo promesso di aspettare e lo feci davvero. Innanzitutto sondai il terreno, restai in attesa di un cambiamento e ben presto ottenni risultati: lo sguardo della Dama Grigia mi cercava sempre più di frequente per i corridoi. Capii che era lei, ora, a essere curiosa, così finsi di non accorgermi della sua costante presenza, o peggio: di aver rinunciato a convincerla. Mi lasciai inseguire fino agli inizi di ottobre.
Il clima autunnale era sempre stato piuttosto piacevole a Hogwarts, specie se si guardavano pioggia e temporale imperversare di fuori, dalla posizione sicura e privilegiata all’interno del castello. La vista risultava piuttosto suggestiva attraverso le finestre frustate dal vento e ancora di più dal soffitto di vetro della serra di Erbologia.
Dopo un mese di lezioni la pianta di Grinzafico che stavo curando sembrava crescere bene e non era stata intaccata dai parassiti. Ne studiai lo stato prima dell’arrivo del professore, per poi prendere a sistemare gli attrezzi sul ripiano, vicino al vaso. Sentii i movimenti impacciati dai guanti da lavoro un po’ rigidi, ma in pochi secondi fu tutto in ordine. Nel fracasso delle voci degli studenti non riuscivo a cogliere una sola frase di senso compiuto, eppure quel chiacchiericcio inconsistente mi era familiare come lo scroscio della pioggia sulle vetrate e il cielo plumbeo tutto nuvole. Stesso grigio-azzurro del cadavere annegato, stesso grigio-azzurro di Helena. Così simile, in effetti, che quasi non la distinsi dal chiaroscuro di una grossa nube a forma di nave pirata, quando vidi la sua figura di spalle sollevarsi nel suo strascico fumoso, con la consueta flessuosità da pesce combattente nell’acquario. Qualsiasi cosa stessi facendo, smisi subito per osservare quella piccola sagoma cangiante a mezz’aria fuori dalla serra. Su quello sfondo di pioggia infuriante, cielo foderato di nuvole fumose e il Lago Nero a diversi metri sotto i suoi piedi, Helena, in effetti, sembrava l’intruso in un quadro di paesaggio inglese.
Una corrente di vento troppo forte fece vibrare le pareti di vetro della serra, producendo un gradevole crepitio che percorse l’aula come un brivido e io distolsi lo sguardo dal fantasma con un sorrisino divertito che le avrebbe fatto perdere le staffe, se solo l’avesse visto.
Uscii dall’aula per ultimo dopo la lezione e lo feci di proposito. Quando imboccai il corridoio riuscii a fare pochi passi, prima che il fantasma mi tagliasse la strada di colpo, piazzandosi davanti a me. Mi arrestai subito, tradendo un lieve spavento; trattenni l’impulso di chiederle se non stesse collaudando l’impatto dell’effetto sorpresa e piegai il capo di lato rivolgendole un’espressione interrogativa.
“Mia signora?”
“Va bene.” tagliò corto lei
“Cosa va bene, se posso chiedere?”
“Mostratemi quello che insistevate a farmi vedere, se è tanto importante.” rispose lei col tono di un rimbrotto, ma ormai era chiaro che fremeva di curiosità.
Sarebbe stato difficile trovare un termine di paragone per la paradossale vitalità del suo sguardo, in quel preciso momento. Misi in movimento tutti i meccanismi mentali coi quali sondavo la personalità di chi mi stava di fronte e, benché non fossi proprio un esempio di empatia, comprendere lucidamente le motivazioni altrui mi riusciva piuttosto bene.
Nel suo sguardo, in effetti, non c’era vitalità, come mi era sembrato: c’era fame. Di cosa, poi, era da stabilire. Forse era fame di conoscenza, forse era fame di stimoli diversi dal grigiore a cui è destinato un fantasma. Non riuscii a capirlo, ma vidi che quella strana voracità, fintanto che non era soddisfatta, divorava lei, o quel poco che ne restava.
Sorrisi e dalla sua espressione fu chiaro che quella sorta di resa e la mia conseguente soddisfazione la irritassero, ma quando le porsi la mano, lei l’accettò.
 
 

*

 
 
Attraverso il Velo il mondo tutto ha la sfumatura grigia e polverosa di una vecchia stanza affogata nel bianco livido della nebbia. Non c'è posto per la gioia, nel mare tormentoso di sentimenti in cui questo limbo senza tempo ha gelato la mia esistenza. Eppure questo non è il vuoto della morte e quel poco che resta, e che di male si è stati, è un rovo spinoso sempre pronto a fiorire. È per questo che nei primi giorni inseguo non vista la figura di quel ragazzo lungo i corridoi del castello.
Il fiore che germoglia ha il sapore pungente di una curiosità appena nata.
E come essere appena nato richiede attenzione con fastidiosa costanza e prevedibile tedio. Non assecondo i miei stessi desideri, all'inizio, dando retta all'irritazione crescente che quell'emozione non richiesta né voluta mi provoca.
Abbandono la Sala Grande quando lui vi entra, il giorno successivo quello del primo incontro, al seguito quasi sempre un compagno dal sorriso giocondo e dalla parlata entusiasta e altisonante. Nei corridoi, per tutta la giornata, evito la sua persona che trascina la pesante borsa ingombra di libri spostandosi da una lezione ad un'altra.
Non trascorre molto tempo prima che i miei stessi gesti mi portino a rendermi conto, con fastidio, che sto fuggendo da quello che ai miei occhi è niente di più che un bambino. A separarci c'è un muro più spesso del tempo, ma meno visibile, eppure lo evito come se il suo tocco potesse davvero sfiorarmi.
Niente può più farlo, ormai.
Ed è indegno di me il timore che sento, indegno è pensare che ci sia qualcosa di diverso in lui.
I miei pensieri mutano all'improvviso in atti. Da che la sua figura veniva aggirata, prendo a spiarla non vista. So che attraverso il Velo la vita sembra un riflesso sbiadito e inerte, così vicina e diversa da ciò che sono diventata, così lontana e aliena dal luogo in cui sono ora, eppure nell'oblio tetro dei giorni che si avvicendano lentamente il bianco del suo volto diventa simile ad una luce.
Ovunque vada lo riconosco spiccare, un tremulo bagliore nel grigio della foschia.
I miei occhi imparano a guardare di nuovo, riconoscendo come familiari le linee azzurre delle vene sulle sue mani ossute e la curva appena accennata di un sorriso sul bel panorama levigato del suo giovane viso. Il mio sguardo insegue l'austera bellezza del suo profilo chino su pergamene e libri, soffermandosi a lungo sulla sfumatura ferrigna di una paio di occhi che guardano il mondo intorno come per eviscerarne i significati.
Il tempo trascorre e non c'è espressione o gesto, sguardo o cenno, che mi siano estranei ormai, di lui. E ogni volta che ne apprendo uno nuovo, vedo altri mille schiudersi, possibilità inespresse che inseguo con accanimento febbrile.
Come un cancro, sento crescere in me il desiderio insoddisfatto di sapere.
E alla fine cedo, sconfitta, un mattino ventoso e minaccioso di pioggia in cui il corridoio bloccato dal mio passaggio viene rischiarato dal bagliore di un fulmine improvviso.
“Va bene.”
“Cosa va bene, se posso chiedere?”
“Mostratemi quello che insistevate a farmi vedere, se è tanto importante.”
C'è trionfo nel suo sorriso e vittoriosa esultanza nel gesto di porgermi la mano. Trattengo il disappunto a stento, mio malgrado incuriosita dal gesto. Con ripicca quasi infantile gli concedo ciò che raramente mi è capitato di offrire, per far sì di strappare una piccola rivincita che possa domare il mio orgoglio.
Il contorno sfocato delle mie dita si posa su quello sottile e teso delle sue. Per un frammento di tempo infinitesimale la pressione del mio tocco è vera e tangibile sulla sua pelle; per un istante soltanto sfioro il tepore vivo del suo corpo, prima che la mia mano torni ad essere niente più che uno sbuffo di fumo che trapassa la sua. Lo vedo sobbalzare e non certo per il freddo: la sua espressione smarrita ricambia il mio sguardo e il genuino stupore che si dipinge sul suo viso placa il desiderio di vittoria.
"Può farlo?" chiede, alludendo a quel tocco.
"Per breve tempo. Così breve che a stento ne vale la pena."
Annuisce, distogliendo lo sguardo e puntandolo per qualche istante nel vuoto del corridoio. Le pupille scattano in movimenti veloci, ravvicinati, e mi è quasi possibile attraverso quel gesto percepire il ronzio assordante della sua mente che assorbe avidamente l'informazione. Non dura molto, come accade spesso. Torna a rivolgermi la sua attenzione col fare a modo che ne contraddistingue i gesti.
"Andiamo?"
Il suo invito trova ad attenderlo il cenno del mio capo.
Ci avviamo silenti e affiancati mentre su Hogwarts si scatena la tempesta.
Di tutti i luoghi che pensavo non avrei rivisto, la Stanza delle Necessità è forse quella che mi provoca il rammarico maggiore. Comprendo dove il mio giovane accompagnatore ha intenzione di dirigere i nostri passi nel momento in cui scorgo l'arazzo di Barnaba il Babbeo. Rimango a fluttuare nell' imbocco del corridoio, mentre lui prende a camminare avanti e indietro, lo sguardo concentrato per fare in modo che l'incantesimo abbia luogo.
Le linee scure e antiche della porta si materializzano senza sforzo dopo pochi istanti, emergendo tra i corposi mattoni del muro come un affresco per poi assumere la densità di oggetti materiali. Basta una spinta delle sue mani perché i battenti ruotino cigolando sui cardini e un solo passo perché la stanza ci inghiotta nella sua magia.
Ciò che mi accoglie è il panorama doloroso e familiare di un altro luogo che non tornerà mai più. Mi sorprendo e non poco nel trovarlo scorrere davanti al mio sguardo quasi lo studente lo avesse direttamente estrapolato dai miei ricordi. Vorrei voltarmi e rivolgergli uno sguardo interrogativo ma non riesco a distogliere gli occhi, divisa tra lo stupore e un senso di inestinguibile nostalgia.
La Sala Grande non è mai stata così nitida nella mia memoria, né così diversa da ciò che è diventata. Ovunque regna la luce calda e intensa dei fuochi accesi nei numerosi camini incassati nelle pareti, così che pare di camminare in mezzo ad un'aula rivestita di brillante oro rosso. Seguo le linee squadrate delle colonne e il loro fondersi negli archi di pietra che si susseguono come costole di un corpo da Gigante nel formare il soffitto a volte. Non c'è alcuna magia a trasfigurarne l'aspetto e renderlo simile al cielo carico di nuvole scure e rigonfie che soverchia in questo momento il castello, solo una penombra appena rischiarata dove si scorge il profilo curvilineo del tetto.
Dettagli che avevo dimenticato si affastellano casuali davanti alla mia coscienza, elementi che nella Hogwarts di Tom Riddle sono persi da tempo: le pesanti panche di legno di tasso dai piedi intagliati come zampe di leone; i quattro colossali lampadari di argento regalati dai folletti ai fondatori; i fiori disposti sui tavoli, nei vasi di rame, provenienti dal giardino di Lady Tosca…
Potrei continuare ad enumerare a lungo gli oggetti, mi ferma solo la consapevolezza che non sono solo quelli ad essere emersi come ombre tangibili dai dedali della mia memoria. Figure silenti si muovono tra le arcate come fantocci muti, trascinandosi dietro il peso degli abiti del tempo che mi ha dato i natali. Riempiono la scena come personaggi in un quadro, sparsi nella Sala, accomodati ai tavoli o impegnati a percorrerla. Salto da un viso all'altro, da un'espressione immota all'altra, riconoscendo studenti e professori che da secoli ormai sono cenere e ossa, e giungo infine nel punto che a lungo il mio sguardo ha evitato.
Devo ripetermi di non avere più un cuore che possa essere trafitto dal dolore fisico perché la vista del tavolo dei fondatori non mi costringa a voltarmi e andarmene. Godric Grifondoro e Salazar Serpeverde siedono l'uno affianco all'altro, conversando fittamente ma senza voce, tra le mani i calici d'oro ricolmi di vino. Lady Tosca offre alla luce l'ovale rosato del suo viso, mentre un sorriso lo attraversa: lo rivolge ad una donna dai lunghi capelli neri che mi dà le spalle.
Rimango a fissare il lucido inchiostro dei capelli di mia madre, affatto sicura se sia più il desiderio o il timore che provo al pensiero che possa voltarsi. La vedo muovere una mano in un cenno familiare, pregno di indescrivibile grazia, ed è quello che mi convince a distogliere gli occhi tornando ad appuntarli sull'unico nella stanza a cui posso rivolgere una muta domanda.
Lo trovo intento a ricambiare il mio, sul volto un'espressione al tempo stesso sorpresa e corrucciata. Mi rendo conto che il mio è in realtà l'interrogativo di entrambi, ma lui mi precede.
"Ho desiderato un luogo che fosse confortevole per lei. In cui fosse a suo agio."
Sulle mie labbra preme una risposta che preferisco non dargli. Quel luogo mi mette a mio agio quanto in vita lo avrebbe fatto sedermi su un covo di spine: la nostalgia dei miei tempi è degradata dall'aspetto spettrale degli uomini e delle donne che percorrono quella sala.
"Probabilmente è il meglio che la Stanza ha potuto strappare ai desideri di un fantasma." dichiaro invece, facendo un cenno in direzione di uno studente dallo sguardo vitreo puntato sul suo pasto. "Nemmeno la magia sfugge alla morte, d'altra parte."
Il cenno del capo che il ragazzo fa è meccanico, come se in realtà il suo pensiero fosse impegnato altrove. Non posso non ammettere a me stessa che la sua idea non mi abbia colpita al di là dei risultati. L'ingegno per il quale è famoso, ad Hogwarts, è ben meritato. In nessun altro modo avrei potuto varcare le soglie di questa stanza, se non per suo tramite. Il mio spirito è quieto ora ed incline a ricompensare il suo impegno.
"Rimane una magia straordinaria." accenno nuovamente alla Stanza.
"Sì, lo rimane. I fondatori erano straordinari."
"La Stanza delle Necessità non è opera dei fondatori, Tom Riddle."
Si volta a guardarmi sorpreso e nei suoi occhi leggo la fame di conoscenza che quella semplice frase ha provocato in lui.
"No?"
"Questo è uno dei segreti di Hogwarts che nessuno conosce."
 
Il petto di Lady Tosca è caldo e accogliente come un giaciglio e i suoi bellissimi ricci rossi scivolano sulle mie spalle come una coperta di velluto. Ha messo da parte il ricamo per accogliermi tra le sue braccia quando mi ha visto sulla soglia della Sala Grande, e mi ha stretto a sé con fare materno, sussurrandomi di non avere paura.
Ciò che mi ha spinto ad un uscire dal mio letto ad un'ora così tarda è esattamente quello: la paura. Il temporale che si è scatenato sul castello da ore è un concerto di tuoni e fulmini che non sembra destinato a finire. Mentre percorrevo i corridoi alla ricerca di mia madre ho temuto che il soffitto dell'intero castello potesse crollarmi sulla testa.
Mia madre non era nella sua stanza.
Ho preso a singhiozzare senza quasi rendermene conto, iniziando a vagare come un'anima in pena nel labirinto vuoto di stanze e scale, passaggi e corridoi, giungendo nella Sala Grande attirata dalla luce accesa dei camini.
Ora, mentre il sonno mi richiama a sé, la voce della donna che mi stringe mi ricorda che mia madre è via, con Godric e Salazar, per risolvere un'importante questione che ha portato scompiglio ad Hogsmeade. Anche se Lady Tosca non dice nient’altro, prima di prendere a cullarmi, affiora nella mia coscienza ciò che ho origliato nel pomeriggio. Un mannaro è giunto nella contea e sembra abbia ucciso un Babbano e ferito un mago: la gente del villaggio, spaventata, ha chiesto aiuto qui al castello per la fama dei suoi abitanti.
Ho osservato inquieta mia madre prepararsi, qualche ora prima, indossando comodi abiti che le permettano di cavalcare agevolmente. L'ho seguita con gli occhi armarsi di ampolle e pugnali, libri e provviste, fino a che non si è seduta sul letto al mio fianco per intrecciare i capelli in un'acconciatura che non le sia di impaccio.
“Vuoi aiutarmi, Helena?” mi ha chiesto, con l'intenzione di distrarmi, porgendomi una lunga ciocca nera. “Segui questo movimento, con ordine. Ti ricordi quando ti faccio le trecce? Ora ho bisogno che tu ne faccia una a me.”
“Quando tornerai, madre?”
Immobile, stretti tra le dita i capelli morbidi, non mi sono lasciata sviare dalla sua espressione pacata né da quel tentativo di far apparire meno grave il motivo della sua assenza.
“Quando riusciremo ad aiutare la gente del villaggio.”
“Perché devi andarci tu? Ci sono altri maghi al villaggio.”
“La gente del villaggio si fida di noi. E qui ad Hogwarts chi chiede aiuto lo troverà sempre.”
“Ma la scuola non è ancora aperta.”
“Per questo dobbiamo dare il buon esempio, Helena.”
Adirata e affatto soddisfatta da quella risposta ho abbandonato la presa sui suoi capelli, scendendo dal letto e dirigendomi verso la porta, seguita dal suo sospiro stanco.
“Helena dove vai?”
“A giocare nelle stalle.”
“Non mi saluti prima che vada?”
“Io non devo dare il buon esempio, madre.”
Nascondendomi per tutto il tempo non l'ho vista partire. La rabbia per essere stata abbandonata in favore del villaggio e dei suoi abitanti, più forte di ogni cosa, è durata fino a che non mi sono infilata tra le coperte gelide quella stessa sera. Il primo tuono mi ha svegliato dall'incubo nel quale il cadavere di mia madre tornava al castello scortato da un corteo nero. Le immagini tornano ad affiorare a sprazzi nella mia coscienza anche mentre la voce di Lady Tosca mi sussurra all'orecchio una nenia. Per qualche istante la sua voce musicale mi riempie la mente, scacciando via la paura dei tuoni e della morte.
Poi, all'improvviso, uno schianto più forte di qualsiasi rumore esplode nell'aria.
Mi rizzo a sedere, ormai sveglia, convinta che da qualche parte nel castello il tetto sia davvero crollato al suolo. Lady Tosca mi stringe a sé, i muscoli improvvisamente rigidi e le labbra pallide nonostante il guizzare delle fiamme sul suo volto.
La vedo sfoderare la bacchetta e stringerla per qualche istante. Sobbalziamo di nuovo entrambe quando il rumore si ripete, con la stessa intensità, soverchiando il rumore cupo dei tuoni. In pochi istanti mi ritrovo le spalle strette dalla presa ferma e gentile delle mani di Lady Tosca.
“Qualcuno bussa alla porta, Helena. Potrebbe essere un viandante in cerca di riparo. Devo andare a vedere, ma finché non ti chiamo voglio che tu entri nella dispensa e ci resti. D’accordo?”
Annuisco, percependo il nervosismo di lei, nonostante il tentativo di rassicurazione. I colpi sul portone non smettono, risuonando con il ritmo di rintocchi di campana, e tutta quella insistenza non può che stringere il nodo di ansia che mi serra la gola.
Una spinta leggera delle mani di Lady Tosca riesce a farmi muovere. I passi sono leggeri, veloci, tanto che quando arrivo alla porta di collegamento tra la Sala Grande e le scale che portano alle cucine ho quasi il fiatone. Mi volto indietro, notando l’orlo della veste rossa della donna scomparire dietro un angolo.
Il bisogno impellente di rifugiarmi nella dispensa combatte per qualche istante con quello, non dissimile per intensità, di assicurarmi che non le accada niente. Il bussare è ormai uno stanco sottofondo ai miei pensieri tetri e impauriti. Ogni briciola di calore è di nuovo fuggita lontano e nonostante i camini accesi i miei denti battono per il freddo e il nervoso. La decisione è presa prima che mi accorga di stare percorrendo gli stessi passi di Lady Tosca, cercando di essere il più silenziosa possibile.
Il riflesso carmino dei suoi capelli si accende di sfumature elettriche mentre attraversa il corridoio, diretta verso il portone principale del cancello. Attraverso gli archi delle finestre i tuoni colorano la sua pelle di una lucente sfumatura azzurrognola, proiettando la sua ombra distorta sul muro. Per tutto il tragitto non si accorge di me, limitandosi a stringere la bacchetta tra le mani ed esitando appena quando, ormai davanti al portone, percepisce un altro colpo violento battere contro la superfice lignea. Pronuncia a mezza voce l’incantesimo che va sciogliere la protezione, tirando indietro i pesanti chiavistelli di metallo e schiude appena l’uscio.
“Vi prego, mia signora. Un riparo…”
“Voi non…”
“Anche… fuori… Me.”
Mi sporgo appena oltre la colonna di pietra per cercare di cogliere le frasi che lo scrosciare della pioggia e il rombo dei tuoni coprono. La voce cavernosa, quella di un uomo, ha il tono affannoso e implorante di qualcuno prossimo allo sfinimento. In risposta, quella di Lady Tosca, è pregna di malcelata preoccupazione e fermezza. Non trascorre più di qualche istante prima che il portone venga spalancato e la sagoma di una figura colossale si stagli sul panorama uggioso del cortile spazzato dalla pioggia. Quando l’uomo più alto che abbia mai visto mette uno stivale consunto oltre la soglia, un brivido freddo mi percorre interamente, stringendo la mia mente in una morsa di paura. Il mantello che indossa, ruvido e zuppo, sembra nascondere le forme mostruose di un corpo deforme. Un volto scavato e scuro, macchiato da barba nera e ciocche di capelli ingarbugliati, si piega in un cenno di rispettoso ossequio nei confronti della donna che gli ha permesso di entrare. Il corpo appare deforme perché in realtà stringe a sé un cumolo di stracci con amorevole cura: mentre si avvia al seguito di Lady Tosca scorgo corposi ricci scuri fare capolino tra gli strati di stoffa insieme al viso pallido di una bambina che ha più o meno la mia età.
“Da questa parte, nella mia camera il camino è acceso. Ha la febbre? Da quanto è in queste condizioni?”
“Una settimana fa tossiva. La febbre si è alzata improvvisamente, siamo stati costretti a dormire all’addiaccio. Ha perso conoscenza nelle ultime ore.”
Quasi mi dimentico quello che mi era stato detto per cercare di seguire gli stralci del loro discorso. Lady Tosca mi scorge e mi lancia un’occhiata di preoccupato rimprovero, ma al contrario di quello che credevo invece di rispedirmi nella mia camera mi richiama a sé.
“Helena vai nel magazzino delle scorte e prendi le erbe che ho lasciato essiccare sul panno bianco. Poi passa dalla cucina e raccogli due o tre canovacci. Raggiungimi in camera e fai il più presto possibile.”
Annuisco semplicemente, evitando lo sguardo dell’uomo che sembra figlio di un gigante, lieta semplicemente che la necessità della mia presenza superi, al momento, quella di rimproverarmi per non aver seguito le sue indicazioni. Non sento più i tuoni o la pioggia avvicendarsi come un’orchestra mentre faccio volare i miei passi lungo i corridoi vuoti del castello, recuperando velocemente ciò di cui Lady Tosca ha bisogno. Arrivo trafelata alla porta della sua stanza, notando come l’uomo si sia ritirato dal capo opposto del letto dove la bambina è stata fatta distendere. La sua mano, enorme e segnata da profonde cicatrici bianche, tiene stretta delicatamente quella di lei e il suo corpo colossale è piegato in avanti, curvo sul giaciglio attorno al quale Lady Tosca si affaccenda nel tentativo di abbassarle la febbre. Le passo il fagotto di erbe e stracci, ritirandomi in un angolo qualche istante dopo.
“Signora, le catene e una stanza sigillata da incantesimi.” pronuncia l’uomo spostando finalmente lo sguardo dalla bambina alla donna. Lei per tutta risposta annuisce, invitandolo con un cenno a seguirla. C’è una tensione particolare nel corpo di Lady Tosca e una pena infinita nel suo sguardo. Lo conduce lontano, ordinandomi di restare nella stanza e non uscire per nessun motivo questa volta.
Quando torna è trascorsa ormai mezz’ora e non sembra ci siano parole capaci di esprimere la tristezza sul suo viso.
Durante la notte e in quella successiva, gli ululati di un lupo riempiono i corridoi del castello come il suono di tamburi di guerra. Lady Tosca, quasi non li sentisse, continua ad occuparsi della sua piccola paziente con l’amorevole solerzia di una madre.
I giorni passano, la bambina dorme nel suo delirio di febbre e suo padre rimane a vegliarla.
Fino a che l’ultimo respiro l’abbandona.
 
“Spezza il cuore vedere piangere un Mezzogigante.” Interrompo il racconto con quella considerazione che pare disegnare sul volto del mio interlocutore un’espressione scettica. Non che questa rimanga a lungo a dominarne i tratti, ma lo fa abbastanza perché io possa coglierla. Continuo, rivolgendo il mio sguardo e un cenno della mano verso l’intera Stanza. “Il suo nome era Tabas. Veniva da nord. In quanto Mezzogigante era sempre stato scacciato e perseguitato, ma il destino aveva aggiunto ulteriore mala sorte alla sua sfortunata vita. Aveva ricevuto la maledizione del lupo, nel tentativo di salvare la sua famiglia da un attacco di licantropi. Sua moglie era morta e tutto ciò che gli era rimasto era la sua figlia. Rimase rinchiuso qui dentro fino all’ultima notte di Luna piena, incatenato e bloccato dagli incantesimi di Tosca. Puoi immaginare bene che Tabas era il lupo mannaro che mia madre e gli altri fondatori stavano cercando.”
Mi avvicino ad una porzione libera di panca, scostando le gonne in un gesto non davvero necessario quando vado ad accomodarmi.
“Un Mezzogigante e per di più licantropo. Dopo la morte di sua moglie, che era una strega, visitare i villaggi era diventato impossibile. Avevano vissuto entrambi nelle campagne, cibandosi di quello che trovavano, senza ripari che non fossero quelli offerti dalla natura. La bambina si era ammalata, ma l’abilità di Tosca era riuscita unicamente ad alleviare le sue pene, non a salvarla.”
Dopo qualche istante di incertezza, il ragazzo mi si accosta, sedendosi al mio fianco. Lascio che il mio sguardo vaghi sul suo profilo aristocratico, precipitando dal mento alle mani ancorate allo spigolo della panca.
“La verità, vedete, ripaga più di ogni menzogna.” riprendo in quel modo e se nell’ascoltarmi il ragazzo trova nel significato delle mie parole una nota allusiva non lo dà a vedere, ricambiando il mio sguardo direttamente. “Quando Lady Tosca aprì a Tabas le porte del castello lui non le nascose la sua natura; le chiese di salvare sua figlia e che se lo avesse fatto sarebbe andato via e non avrebbe mai più nuociuto a nessuno, a costo della vita. La gentilezza di lei e il suo buon cuore la obbligarono a non separarli. Il tempo in cui sono nata non perdonava la provenienza o l’appartenenza. Non scusava il destino né consideravo un atto caritatevole accogliere un licantropo per salvarne la progenie. Tabas lo sapeva e la sua gratitudine, nei confronti di Hogwarts fu tale che, dopo aver seppellito sua figlia nella Foresta, disse a Lady Tosca che c’era un solo modo in cui avrebbe potuto sdebitarsi. Dato che qui aveva trovato l’aiuto che in vita gli era sempre stato negato, avrebbe offerto il suo ad Hogwarts ogni volta che i suoi abitanti lo avrebbe chiesto.”
Con un cenno del capo gli indico una delle tavolate più lontane. Lì, di spalle, un uomo dalle enormi fattezze e una bambina, parlano fittamente tra loro consumando il loro intangibile pasto.
“Morì in questa stessa stanza, ma non come muoiono i maghi. Il suo corpo prese a rompersi, sgretolarsi come quello di un gigante di sabbia. Non aveva più un senso per lui restare in vita, così infuse il potere della sua morte in questo luogo, mantenendo la sua promessa e ripagando il suo debito.”
“La morte può creare un tale tipo di magia?” chiede, e nel mentre si delinea sul suo volto la stessa espressione concentrata che ne rende peculiare l’aspetto, affamato di conoscenza. Il suo respiro è uno sbuffo lieve di vento che, se fossi ancora, incontrerebbe il mio a mezz’aria.
“C’è poco, Tom Riddle, che la morte non possa fare.”
 
 
 
 
 
 
 

Greed & Wrath

 
 

“No matter what we breed We still are made of greed”

 
 
 
 
Si avvicinava la fine del mese e di conseguenza qua e là per il castello facevano bella mostra già molte delle decorazioni per Halloween. La prima che vidi fu una ghirlanda di minuscole zucche alla fine della scalinata di marmo che avevo infilato per risalire dai sotterranei. Gli elfi domestici dovevano essersi dati da fare per tutta la notte, stando all’aspetto dei corridoi addobbati; a quell’ora, in ogni caso, la scuola era completamente deserta.
Nel corso del mese non era mancata mattinata in cui mi fossi alzato prima di tutti gli altri per presentarmi all’appuntamento con il fantasma e quel giorno non fece alcuna differenza. Il fatto che non ci fosse nessuno in circolazione sembrava chiudere la scuola in una grossa bolla di silenzio ronzante e luci fredde che penetravano oltre le finestre. Quando raggiunsi il Salone d’Ingresso mi concessi un’occhiata fuori dall’ampia vetrata vicino alle clessidre segnapunti: una crepa di un iridescente color albicocca, adesso, tagliava il cielo in una linea orizzontale ancora piuttosto bassa. Il profilo montano, invece, emergeva in un cupo color indaco oltre il parco, il Lago Nero e la Foresta. Immaginai di essere l’unica persona già sveglia ad assorbire il fascino immobile di quella vista. O quasi.
I sette piani di scale che mi separavano dalla Stanza delle Necessità mi rimisero completamente in moto e solo pochi minuti dopo scorgevo dal fondo del corridoio l’arazzo di Barnaba il Babbeo. Davanti alla parete a cui era affisso, c’era Helena ad aspettarmi: fluttuante a mezz’aria, fissava il punto dove aveva già visto comparire la Stanza delle Necessità. La sua figura di profilo se ne stava lì imperturbabile, coi contorni leggeri e animati da una brezza invisibile, ad attendermi con indifferenza, senza rivolgermi né lo sguardo né un saluto.
Non ci feci caso e restai in silenzio anche io. Camminai su e giù per il corridoio tre volte, concentrandomi su quello di cui avevo bisogno. La porta apparve e quando feci scattare la maniglia ritrovai di nuovo la vecchia Hogwarts e la sua aria stranamente pietrosa e cupa, rispetto all’attuale volto del castello. Ancora una volta mi inoltrai nella navata centrale della Sala Grande, alzando gli occhi al soffitto, non incantato, ma tempestato di lampadari con candele che si tenevano sospesi da soli, mandando bagliori caldi, non troppo dissimili da quelli delle fiaccole che si intervallavano nei corridoi dei sotterranei. Lungo le tavole gli studenti dai volti sconosciuti si servivano del banchetto fastoso. I soliti personaggi noti o meno che fossero si aggiravano con l’indifferenza di ombre animate per la Sala e infine ritrovai i Fondatori al tavolo degli insegnanti. Nonostante la scena fosse di per sé festosa, qualche dettaglio stonava, impedendo all’atmosfera di apparire almeno un po’ calda: tanto per cominciare c’era lo sgradevole contrasto tra le luci rossastre e la pesante pietrosità delle architetture, che nel presente era mitigata dalla leggerezza del soffitto a “cielo aperto”.  In secondo luogo le pose e i movimenti di ogni singolo personaggio presente erano stereotipati e ripetitivi come quelli del soggetto di una fotografia. Quella rievocazione non suggeriva un legame con gli anni perduti di Helena, ma l’estraneità del passato. Più che un castello, ciò che si rivelava all’interno della Stanza delle Necessità aveva l’inquietante freddezza di una tomba particolarmente sontuosa, infestata di fantasmi ignari.
Il dettaglio che più attirò la mia attenzione, tuttavia, fu la grossa brocca al centro della tavola dei fondatori che dalla mia prospettiva copriva il viso di Rowena Corvonero. C’era sempre stato, in quei giorni, un ostacolo allo sguardo, qualcosa che non rendesse possibile vederla bene e non era difficile capire che fosse colpa di Helena. Quel giorno della fondatrice potevo scorgere una spalla e un velo aggraziato di capelli neri. Con lo sguardo inseguii qualche rara linea della siluette fragile di Rowena, per quello che permetteva il desiderio di sua figlia, subito dopo ritornai a studiare lo sguardo del fantasma.
“Le manca?”
“No.”
Il modo in cui liquidò la mia domanda mi lasciò intuire che, nonostante i progressi, Helena non fosse completamente disposta a lasciarmi libero accesso ai misteri che la riguardavano.
“Capisco.” le diedi corda.
In effetti qualcosa lo capivo: la gelosia dei pensieri che covava. Mi era facilmente comprensibile perché sapevo di condividere, in diverse occasioni, quel genere di piacere nell’escludere gli altri dalla mia dimensione personale.
Naturalmente la presi come una sfida.
“Eppure converrà che questa rievocazione ha un sapore piuttosto nostalgico.”
“Vi sbagliate, la nostalgia ha poco a che vedere con tutto ciò; si tratta soltanto di uno sfondo familiare, dopotutto è questo che desideravate dalla stanza, dico bene?”
“Esatto.” confermai.
Helena sembrò non voler aggiungere altro e si insinuò nello spazio tra il tavolo di Tassorosso e quello di Corvonero, sfilando con la solita leggerezza verso quello degli insegnanti.
“Sapete,” esordì a metà strada, mentre io la seguivo. “Io credo che voi non siate sincero. Credo,” aggiunse. “Che siate abbastanza attento da sapere cosa sia questo posto e quanto poco abbia a che fare con la nostalgia di cui ciarlavate goffamente fino a un attimo fa. Tuttavia per qualche motivo tacete e vi fingete più sciocco di quel che siete. Non capisco il perché.”
Sorrisi alle spalle di Helena.
“Se mi ritiene un così bravo osservatore, mia signora, capirà cosa intendo se le dico che siamo in due, penso, a non essere completamente sinceri.” replicai.
“Oh, capisco. Dunque la vostra soluzione prevede di rispondere al mio riserbo con una provocazione?”
“Non la chiamerei proprio così.” risposi.
Helena si arrestò e per poco non le passai attraverso. Si voltò verso di me, studiandomi con un’occhiata in tralice.
“Ah no?”
“No.” ripetei.
“Vi prego di illuminarmi con l’ennesima delle vostre sagaci e brillanti rivelazioni, allora.”
Faticai ad accantonare il desiderio di rispondere a tono al suo sarcasmo, o di mandarla semplicemente al diavolo, ma mi costrinsi a farlo.
“Quella che lei chiama provocazione non lo è. Non nel senso peggiore del termine, comunque. I miei sono stimoli, invece, impulsi sottoposti a una materia sconosciuta per studiarne le reazioni. Non voglio che creda di essere una cavia per me, sia chiaro.” aggiunsi in fretta. “Ciò che intendo è che non saremmo qui se lei non desiderasse spunti inconsueti e io gliene ho offerti. In un’altra situazione lei mentirebbe al suo interlocutore, mia signora, eviterebbe la compagnia di qualsiasi altra persona, disprezzerebbe chiunque la disturbasse. Ma lei è qui con me e non sarebbe così se non fosse rimasta colpita da quelle che ha chiamato provocazioni. Sbaglio?”
Helena inarcò un sopracciglio, sorpresa, nonostante tutto.
Colpita.” ripeté. “Siete presuntuoso, lo sapete questo?”
“Io non presumo, sono piuttosto consapevole. Di questo e del fatto che l’umiltà non appartiene a chi sceglie di imboccare un certo tipo di strada.”
Le sopracciglia di Helena si abbassarono, incurvate, a crearle una ruga verticale proprio sopra la radice del naso. Non mi parve un buon segno.
“Si può essere ambiziosi quando se n’è già fatta molta di strada e da lì si inizia un nuovo e più periglioso cammino, ma all’apprendista si addice l’umiltà. Se desiderate apprendere qualcosa da me, quindi, vi suggerisco di mettere da parte la vostra superbia.”
“Così che la sua abbia libero spazio di espressione?” mi lasciai sfuggire.
“Esattamente.” replicò Helena senza badare all’impudenza della mia frase. “È questo ciò che avviene quando qualcuno sa qualcosa e la insegna a chi non la sa.” un angolo della bocca di Elena si incurvava verso l’alto in maniera appena percettibile, ma sufficiente a dare al suo viso l’impressione di qualcuno che gusta a fondo la situazione e le parole appena pronunciate.
“Se anche le sono sembrato presuntuoso, sono abbastanza certo di non essere in torto e lei non mi ha contraddetto.” le ricordai.
Helena schioccò la lingua sul palato e io non potei fare a meno di chiedermi come accidenti facesse, dato che era un fantasma.
“No, non vi sbagliate.” concesse. “Ma se credete che l’avermi colpita, come dite, vi dia facile accesso a ciò che sono io, allora il vostro errore è molto più grande di tutte le giuste intuizioni messe insieme.”
“Non lo credo.” dissi in fretta. “Ma tutto questo ci riporta al punto di partenza.” le feci presente.
“Sì.” considerò Helena. “Dunque, ecco cosa vorrei chiedervi per il futuro: fatemi la cortesia di non essere accondiscendente con me e di non pormi quesiti su cose che immaginate bene, o che forse già sapete, perché non intendo rispondere a domande stupide.”
“E a quelle intelligenti?”
“Nella giusta misura.”
“E sarebbe?”
Vidi fare a Helena una cosa che non aveva mai fatto prima: sorrise apertamente.
“Sapete come si accede alla Sala Comune di Corvonero?”
“Temo di no.”
“Ebbene,” disse. “Un batacchio a forma di aquila permette l’accesso alla stanza, ma non è necessaria una parola d’ordine perché consenta di entrare.” disse.
“Cosa allora?” incalzai.
“Il batacchio sottopone agli studenti un indovinello. La risposta esatta permette di entrare. Questo metodo incoraggia la vivacità intellettuale, l’apertura dei propri orizzonti, l’allenamento della mente e anche la cooperazione, qualora il singolo studente non sia all’altezza.” aggiunse con una malcelata nota di disprezzo.
“Desidera sottopormi degli indovinelli?” chiesi, sorpreso.
“Per accedere a qualcosa di nuovo bisogna dimostrarsi meritevoli, o colui che avrà ottenuto la conoscenza, essendone indegno, non saprà né apprezzarla, né adoperarla.” spiegò. “Quindi vi metterò alla prova. La nostra conversazione è nata da una domanda sciocca, una domanda sulla nostalgia per mia madre o per questo posto, così com’era quando vivevo. Rispondete voi alla vostra stessa domanda e io sarò disponibile a soddisfarne una che sia più meritevole di considerazione.”
“Una sola?” contrattai.
“Due.” concesse Helena. “Non di più, per oggi.”
“Molto bene.” dissi, in tono pratico, tirando indietro una sedia dal tavolo di Tassorosso in un gesto che mi riuscì più brusco di quello che avrei desiderato. Mi misi seduto e la studiai per qualche istante. “No, non credo che lei provi nostalgia. La nostalgia è un sentimento dolce e la dolcezza non le appartiene. Non più in ogni caso. Credo che qualsiasi cosa lei provi sia legata alla condizione di fantasma, di cui io so ben poco.” ammisi. “Tuttavia, credo di potermi definire un buon osservatore e lei non è l’unico spirito a cui abbia prestato attenzione: come certo sa i sotterranei ne sono pieni.”
Helena fece un cenno di assenso un po’ rigido.
“Bene, quindi: il Barone Sanguinario indossa delle catene. Credo che a modo suo ogni fantasma indossi qualcosa di pesante e che quel qualcosa lo tenga ancorato a questo mondo. Sospetto che lei, benché nessuno possa vederlo, indossi questo castello, la vecchia Hogwarts. Credo che lei indossi le prospettive bizzarre da cui è impossibile vedere il volto di sua madre. Quando sono entrato in questa stanza ho desiderato che prendesse le sembianze di un posto che avrebbe definito casa.” dissi, senza riuscire a fermarmi.
Non persi tempo a preoccuparmi per l’espressione accigliata della Dama, perché, mano a mano che le parole venivano fuori, mi rendevo conto di capire sempre più cose e non potevo fare a meno di inseguire con entusiasmo quella catena di intuizioni, non senza provare un certo gusto sadico nell’esprimerle apertamente considerazioni così logiche e verosimili.
“Ma dubito che lei sia stata esaudita.” continuai. “La stanza può leggere i miei desideri e le mie esigenze, ma credo che interagisca in maniera più complessa con un fantasma. Questo luogo non ha niente del calore di una casa, tutti i dettagli sono artefatti e distanti, ciascun elemento allude al fatto puro e semplice che ogni persona qui presente è morta e che ciò che muore è perso per sempre. Questo non è il suo desiderio: non è questo che la Stanza ha riprodotto. La Stanza ha dato corpo a tutto quello che ha potuto leggere in lei. Non c’è qualcosa che desidera, ma c’è ancora qualcosa che lei è, e lei è questo incredibile scenario gelido di tutte le cose che ha perso.”
Forse fu in quel momento che accadde: la questione smise di riguardare solo il diadema nel momento in cui compresi che il fantasma non era ciò che restava di Helena, ma il corpo stesso della sua assenza dal mondo e lo strascico di tutto quello che era morto con lei. Il mistero della morte, della sua morte brillò come il grigio-azzurro del cadavere annegato sotto il raggio del sole. Lo sguardo che le rivolsi quando smisi di parlare doveva essere entusiasta. Capii troppo tardi che era stata una pessima idea.
 
 

*

 
 
“Chi credete di essere?” odo la mia stessa voce scivolare fuori dalle labbra in un sibilo affilato che, tuttavia, non comunica adeguatamente il risentimento che questo ragazzino ha provocato con le sue parole.
“Con quale audacia,” esordisco, marcando la parola. “Con quale stoltezza avete fantasticato di avere i mezzi e le conoscenze per poter articolare simili congetture? Voi, ragazzino presuntuoso, persuaso di essere tanto intelligente da avanzare ipotesi su materie sconosciute, come la mia più intima e viscerale natura! Voi che elargite parole velenose con l’entusiasmo di una grande scoperta.” il mio tono di voce diventa sempre più cupo e vibra di note lugubri e irate, che lo rendono aspro e ruvido.
Quando fluttuo in avanti in uno scatto che mi porta a pochi centimetri da lui, lo strascico grigiastro che mi segue diventa una cornice di fumo attorno al mio corpo e io so che mi conferisce un’aria minacciosa.
“Volete saperla una cosa invece? Voi non siete speciale e non sapete nulla. Voi non avete condotto alcuna grande scoperta. Siete un esploratore senza la sua isola, o meglio ancora: uno sciocco che non sarà mai in grado di comprendere la terra su cui ha posato i piedi.” la consapevolezza di averlo offeso, forse quanto lui stesso aveva fatto con me, mi strappa una soddisfazione insufficiente a placare l’ira che provo.
Lì, a una minima distanza dal mio viso, quello di Tom Riddle ha appena mutato una piega spaesata in una che a stento trattiene un lampo di nervosismo non indifferente.
“Non è necessario che lei volga le mie parole a significati che non ho voluto conferirvi.” replica, malgrado tutto, in quello che leggo come un ridicolo tentativo di recuperare all’ultimo secondo.
Stringo le labbra, così scossa dall’offesa ulteriore perpetrata dalla sua sciocca risposta, che divengo consapevole che da umana avrei dato sfogo con le lacrime a un tale cumulo di rabbia.
“Io,” sibilo, non potendo fare altro. “Sono una creatura antica quasi quanto questo luogo che voi infestate con la vostra odiosa inconsistenza.” lo informo. “Credete che sia così ingenua e sciocca da prendere sul serio la toppa logora che volete cucire allo strappo? Smettetela di insultarmi!”
“È lei che deve smetterla!” ribatte prontamente lui, cogliendomi di sorpresa. “Si sta arrabbiando troppo. Avrei avuto più contegno se lei non mi avesse esasperato, così avara di parole e di ciò che fa parte della vostra persona da voltarmi le spalle ogni qualvolta cerco di stabilire un contatto con lei.”
“Ah! Contatto lo chiamate!” mi ritraggo, guardandolo a occhi sgranati e incredula.
Ma lui riprende, ostinato: “Io ho chiesto del tempo in sua compagnia, del tempo per parlare e forse condividere qualcosa. È stata lei a chiedermi delle impressioni su uno dei suoi tanti misteri e ha preteso che io mi pronunciassi in maniera esatta, quando si rifiuta di lasciarmi intravedere anche solo una base di partenza sulla quale potrei farmi delle idee. E poi, quando azzardo un’ipotesi lei semplicemente inveisce contro di me. Lei non ha mai voluto dirmi nulla!” mi accusa.
“Siete una creatura di tale incoerenza!” soffio con disprezzo. “Proprio voi parlate così! Vi ho osservato, io, mi sono degnata di farlo, diversamente da voi e ho visto con quanta compiaciuta presunzione negate a chiunque di conoscervi davvero, scimmiottando l’idea che gli altri vorrebbero avere di voi. Mi dite che sono gelosa e restia, quando voi nascondete il vostro volto dietro una maschera, reputando indegno chiunque di guardare al di sotto.” questa volta sembra essere giunto il suo turno di tacere, sorpreso dalle mie parole. Sospetto che stia già architettando una risposta plausibile alle mie accuse, ma non gliene do occasione.
“Voi siete venuto qui a prendere in prestito del tempo, come un libro dalla biblioteca, con tutta la naturalezza del mondo e sembrava ben misera richiesta. Ma poi, con le vostre domande impertinenti, mi avete chiesto me stessa e pretendete di appropriarvene con semplicità perché forse prima d’ora per voi è stato molto facile entrare in possesso di qualcosa che desideravate.” qualcosa cambia sul volto di Tom Riddle e i bei tratti mutano la sua espressione in una ombrosa e cupa.
“Lei non mi conosce.” mi dice.
“E voi non conoscete me. E se non siete disposto ad applicarvi per farlo, ma preferite fare i vostri calcoli su congetture spregevoli, allora dovreste andarvene e rassegnarvi al fatto che io non vi darò mai ciò che volete.” affermo con determinazione.
“Lei non…”
“Andate via! Adesso!” lo interrompo con il tono più alto e imperioso che mi riesce di estrapolare dalla gola.
Lui si irrigidisce, mi guarda, stavolta senza nascondermi la sua di ira e con un movimento scattante e sdegnato mi volta le spalle.
Quando esce dalla Stanza delle Necessità, la sua assenza smette di supportare la realtà plasmata sui miei ricordi e io la vedo sgretolarsi come un affresco logorato dal tempo le cui preziose schegge cadono, frantumate, scrostandosi sotto forze più grandi e prive di indulgenza.
Forse sono le stesse forze che hanno animato la mia ira; quella di adesso e quella del passato. E tutto il dolore e il rammarico che mi hanno trascinata in questo oblio privo di logica. Hogwarts cade a pezzi attorno a me e io mi volto verso il tavolo dei fondatori.
Per un solo istante, in quella pioggia di macerie scorgo lo sguardo di mia madre, solo lo sguardo. Chiaro, limpido, audace e senza tempo. Bello come non lo sarà mai nessuno. Bello come il mio, sbiadito e ombroso, non potrebbe mai. E un dolore che spero sempre di dimenticare, nel travolgermi, rende chiaro che il peso di quel limbo non mi permetterà mai di essere libera.
 
 
 
 
 
 

Envy

 
 
 
 

“There's one at the door, at the gate to damnation…
 is it thief, thug or whore?”

 
 
 
 
Spalancai gli occhi e mi svegliai di soprassalto; il mio sguardo fece una capriola nel buio, senza imbattersi in un solo elemento che si distinguesse nell’oscurità.
Li tenni aperti il più possibile, per vedere se si sarebbero abituati al punto da raccogliere qualche dettaglio anche sporadico – magari il ricamo argentato sulle tende verdi del letto a baldacchino – ma il tentativo si rivelò del tutto inutile.
Mi limitai ad attendere che il respiro, leggermente accelerato, tornasse regolare. Al di fuori del tepore delle coperte pesanti indovinai una mattina ancora acerba e senza luce, indubbiamente gelida, dato che eravamo a inizio febbraio.
A quel punto dell’anno scolastico stavo sperimentando una sensazione completamente nuova: ero in difficoltà a destreggiarmi tra lo studio per i M.A.G.O., un consistente quantitativo di compiti e i doveri da Caposcuola. In passato ero sempre riuscito a gestire tutto senza fatica, ma avevo anche tenuto in conto il fatto che l’ultimo anno sarebbe stato impegnativo persino per me.
In ogni caso non era questo a impedirmi di dormire. Non ricordavo niente di quello che avevo sognato, ma intuivo che aveva avuto a che fare con Helena, il fantasma che avevo smesso di incontrare da quattro mesi, ormai. Mi tirai su a sedere nel tentativo di raccogliere i pensieri, ma ogni volta che cercavo un filo logico, mi distraevo e smettevo di seguirlo. La mente ritornava all’occasione che avevo perso a ottobre e a quanto avrei potuto ricavare continuando a parlare col fantasma. Prima che la mia curiosità fosse animata dalla questione del suo status di quasi-morta, Helena per me non era una creatura diversa dalle altre, né riusciva a sfuggire all’indifferenza che mi ispirava chiunque altro: dagli studenti agli insegnanti.
Non c’era qualcuno che vedessi come un mio pari, in effetti, e, a dirla tutta, nemmeno adesso mi riusciva di pensare che lei fosse tale, ciononostante ora non riuscivo neanche a considerarla comune. La sua figura era diventata complessa e certamente meno prevedibile di quanto credessi prima di conoscerla. C’erano diversi aspetti di lei che non sarei riuscito a delineare e manipolare a mio piacimento, semplicemente perché lei era come un corridoio pieno di porte chiuse e di ciascuna era difficile ottenere la chiave. Una di quelle porte era la morte e il significato esatto del momento in cui l’aveva sperimentata.
Helena era morta e al tempo stesso era un volto della morte stessa. Io avevo ucciso, ma farlo non mi aveva aiutato a comprendere, né aveva stimolato la mia curiosità. Di contro, adesso ciò che desideravo era proprio sviscerare l’argomento e studiarlo a fondo. Lo volevo almeno quanto ambivo ancora a venire a capo del mistero del diadema.
La questione del gioiello appartenuto a Rowena Corvonero, in effetti, non era spiegata con chiarezza nemmeno in Storia di Hogwarts; si sapeva solo che era andato perduto, ma nessuno studioso o storico avrebbe saputo dire quando e perché. Helena era l’unica diretta testimone della sua esistenza – viva o morta che fosse – in grado di parlarne.
La questione era oscura e l’idea di risolvere l’arcano era stata piuttosto stimolante, il problema era che ora gli enigmi erano diventati due.
Mi passai una mano tra i capelli ed espirai pesantemente. Sbattei le palpebre e quando fu chiaro che non avrei ripreso sonno facilmente, aprii le tende del baldacchino e scesi dal letto.
Senza la luce delle fiaccole, il dormitorio sotterraneo sarebbe risultato buio anche in pieno giorno. Presi la bacchetta e sussurrai un: “Lumos”, per poi controllare l’orologio sul comodino del letto a fianco al mio. Erano le cinque del mattino.
L’alone luminoso emanato dalla bacchetta investì l’angolo di un arazzo su cui figuravano noti Serpeverde e in particolare la figura di Merlino che inarcò un sopracciglio canuto, attraverso la trama del tessuto. Merlino in genere non parlava con nessuno studente, ma avrei giurato di avergli sentito borbottare: “Non è un po’ presto, giovanotto?”
Pur immaginando che avrei seguito le lezioni a fatica per la stanchezza, posai la bacchetta illuminata sul letto e mi vestii. Raggiunsi la Sala Comune di Serpeverde, infilai l’uscita incamminandomi nei corridoi bui dei sotterranei. La fonte di luce della bacchetta e l’abitudine mi permisero di evitare qualche brutta scivolata sul pavimento dissestato; vidi spesso passare qualche fantasma silenzioso nel suo alone biancastro, ma nessuno di loro era Helena.
Se mi domandavo che ci facessi a quell’ora in giro per il castello, non riuscivo a darmi una risposta convincente, se non che la prospettiva di restarmene steso a letto a pensare e basta era più fastidiosa dell’alternativa. Alla fine mi risolsi a orientarmi verso il bagno dei Prefetti al quinto piano, cosa che mi parve ragionevole per un ragazzo fuori dal letto così presto. Raggiunsi la Sala d’ingresso per imboccare le scale e salire ai piani superiori, e fu a quel punto che distinsi un formicolio localizzato al centro della schiena. Mi voltai d’istinto puntando la bacchetta illuminata in pieno viso a un mezzobusto baffuto in un quadro, curiosamente somigliante al ritratto di Vlad III di Valacchia. Il mezzobusto strizzò gli occhi e sporse il labbro come se avesse appena ingurgitato uno spicchio di limone.
“Insomma, per il corsetto striminzito di Morgana, ragazzo!” sbottò, mentre io mi affrettavo ad abbassare la bacchetta e lui sbatteva ripetutamente un paio di occhi straordinariamente lucidi. “Credevo che questa faccenda dell’insonnia fosse finalmente risolta, dopo mesi. Dovresti portare il tuo caso all’attenzione di un guaritore come si deve, dammi retta. Di certo non si può andare avanti in questa maniera!”
Ignorai il quadro con la netta sensazione di essere osservato da altri, a parte i dipinti irritabili.
Presi in fretta la decisione di fare finta di niente e vedere cosa sarebbe accaduto, quindi imboccai le scale senza dire una parola. Prestai attenzione al rimbombo dei miei passi, contandoli per accertarmi che non ce ne fosse qualcuno di troppo. Ero a metà strada quando la scala si mosse e roteò affacciando al corridoio sbagliato.
Artigliai il corrimano in tempo per evitarmi una brutta caduta, emettendo un verso a metà tra un gemito frustrato e uno di spavento. Quando la scala si fermò, sbuffai un: “Andiamo,” a mezza voce. “Non ho tutto il tempo.”
In realtà di tempo a disposizione ne avevo anche in eccesso. Assestai meglio la mia posizione sugli scalini, quando sentii qualcosa scricchiolare sotto il piede. Mi accigliai e sollevai la punta della scarpa; illuminai con la bacchetta il tratto di pietra sotto di me e due piccoli oggetti d’argento rotondi. Mi chinai sul ginocchio per osservarli meglio e scoprii che erano una coppia di gemelli con una decorazione in rilievo raffigurante lo stemma di Serpeverde. Un incantesimo faceva sì che il serpente non restasse fermo; così invece di stare al suo posto, scivolava lungo i bordi eleganti dello stemma e attorcigliava le spire alla struttura del blasone in un moto lento e continuo.
Feci un calcolo mentale piuttosto rapido, abituato a stabilire il valore materiale degli oggetti del castello, o appartenenti a compagni Serpeverde; conclusi che i gemelli dovessero essere delle piccole e preziose rarità. Probabilmente valevano un occhio della testa e il proprietario – stando allo stemma, un membro della mia stessa casa – era stato tanto sciocco, superficiale (o semplicemente ricco) da perderli in mezzo alle scale a cuor leggero. Feci una smorfia contrariata e senza pensarci due volte li intascai. Fu a quel punto che sentii ancora lo stesso formicolio di poco prima, stavolta all’altezza della nuca. Mi voltai di scatto e diressi nervosamente la bacchetta in più punti per scovare chiunque mi stesse spiando, ma alle mie spalle non sembrava esserci nessuno a parte il silenzioso panorama di un castello pieno di gente ancora profondamente addormentata.
Sbattei le palpebre, restio a voltarmi di nuovo, mentre aspettavo che anche solo uno di quei dettagli inanimati vacillasse e mi rivelasse qualcosa fuori posto. Non accadde nulla e mio malgrado mi distrassi quando la scala si mosse ancora, con la pietra che gemeva per l’attrito, nello spostamento.
Stavolta mi affrettai a salire, prima che i capricci del castello deviassero ulteriormente il mio percorso.
Raggiunsi la statua di Boris il Basito che faceva da guardia al bagno dei Prefetti e biascicai la parola d’ordine per riflesso. Quando la porta si richiuse dietro di me, agitai la bacchetta in un gesto distratto che girò le manopole sul bordo della vasca e dai rubinetti cominciò a scorrere il getto scrosciante dell’acqua.
Alzai lo sguardo alla vetrata per trovare l’immagine della sirena dormiente e constatai che fuori era ancora buio pesto. Cominciai a togliermi la divisa e quando restai a torso nudo mi sporsi verso il bordo, per dare un’occhiata al livello dell’acqua. Un grosso budino vacillante di schiuma bianca cominciava a sollevarsi dal fondo e per poco non ci caddi dentro per lo spavento, quando alle mie spalle una lugubre voce femminile sibilò un: “Gli oggetti che avete preso non erano vostri”.
Mi voltai immediatamente, solo per trovarmi a fronteggiare dopo mesi Helena e la sua figura grigio-azzurra in tutta la sua severa alterigia. I tratti erano induriti come di consueto, e sempre come al solito lo sguardo tradiva una tensione che a malapena le riusciva di celare dietro la sua maschera altezzosa.
“Sa una cosa?” dissi, mentre sentivo in gola le pulsazioni del battito accelerato per quel colpo e la tensione accumulata. “Credo che arrivati a questo punto potremmo persino cominciare a chiamarci per nome.” osservai, facendole un cenno eloquente col viso alla totale assenza di camicia o relativo sostituto.
Helena dischiuse le labbra con l’espressione di qualcuno che è stato appena preso in contropiede e io le diedi le spalle per nasconderle la mia soddisfazione. Allungai una mano a recuperare la bacchetta e girai le manopole dei rubinetti nel verso opposto, dato che ormai il bagno era un po’ troppo affollato per consentire di attenermi ai progetti iniziali.
Ripresi la camicia e la indossai.
“Credete… credi che i tuoi tentativi di mettermi in imbarazzo mi distoglieranno da ciò che ti ho visto fare?” riprese Helena, nell’evidente sforzo di ridarsi un tono. Notai che aveva preso in parola il mio invito a far cadere le barriere formali che avevamo eretto tanto ostinatamente fino a quel momento.
“Cosa avresti visto di preciso?” chiesi, mentre riabbottonavo il polsino sinistro.
“Hai rubato.” disse, decisa.
“Davvero?” schioccai la lingua, ostentando un’assoluta calma. “Non mi pare affatto. Intendevo restituire quanto ho raccolto, ho trovato semplicemente opportuno spostarlo dalle scale, poteva essere pericoloso.”
“Stai mentendo.”
“Ah sì? E tu come lo sai?” le lanciai un’occhiata con la coda dell’occhio, mentre passavo al polsino destro e quando non mi arrivò risposta, non riuscii a reprimere una risatina a denti stretti e scossi la testa. “Se anche fosse così, la prima volta che hai voluto che fossi schietto con te, Helena, l’assecondarti non mi ha ripagato come speravo. Capisci bene che non sarei tanto sciocco da tentare la fortuna una seconda volta.”
Alle mie spalle Helena emise un verso fastidiosamente simile a una risata di scherno.
“La chiami schiettezza la tua? Avrei da dire molto a proposito della tua schiettezza.”
“Non ne dubitavo affatto.” dissi, in tono monotono, mentre prendevo ad abbottonare la camicia, partendo dal colletto.
“Credevo di avere a che fare con una persona intelligente e con il senso della misura per le parole e per i modi. Una persona fuori dal comune e meno rozzo e superficiale dei suoi coetanei.” il tono tagliente di Helena non era riuscito a scalfirmi se non all’ultima frase che ebbe il potere di interrompere quello in cui ero impegnato, per farmi ruotare il busto verso di lei e osservarla di sottecchi attraverso un silenzio che molti avrebbero preso per un avvertimento. Ma Helena continuò: “Ma mi sono illusa e ho offerto il mio tempo a un vanaglorioso ragazzino imberbe con lo sguardo annebbiato dalla sua stessa sicurezza e dalla superbia.”
Repressi un moto di stizza che mi si inarcò dallo stomaco al petto in un guizzo ardente che in un’altra situazione avrebbe portato la mia mano dritta alla bacchetta, invece tornai a voltarmi e schioccai la lingua.
“Non hai dimenticato ladro?”
“Giust’appunto!”
“Benissimo.” affermai in tono risoluto. “Quindi cosa ci fai qui? Venivi a scambiare due parole con la sirena? Può darsi che lei si riveli più morigerata.”
Ero troppo arrabbiato persino per godermi appieno l’esitazione di Helena.
“Io… io ho solo creduto che dopotutto…”
“Oh, ti prego, non finirla nemmeno, la frase. Fammi il favore, va bene?” sbottai, interrompendola. Recuperai la tunica e la indossai in gesti sbrigativi e secchi. “Non fingere di essere qui per fare la carità a un… com’era?” mi accigliai alzando lo sguardo al soffitto, fingendo di sforzarmi di ricordare. “Vanaglorioso ragazzino imberbe? Posso fare a meno di raccogliere quello che hai da offrire dall’alto della tua generosità a qualcuno che non è abbastanza degno per i tuoi canoni. A meno che tu – come credo più plausibile – non sia qui perché lo vuoi. Ma non pensare che ti permetterò di corroborare la tua idea di gran dama che ostenta il suo nobile intento di fare beneficienza a un ragazzino immeritevole.”
Cercai di non pensare al fatto che forse stavo esagerando. Mi voltai e puntai dritto verso l’uscita.
“Come osi? Come osi essere così sfrontato, dopo che sono tornata da te a…”
“Non riprenderò le nostre conversazioni senza assicurarmi una condizione di parità. Il ruolo di maestro non ti calza affatto, figurarsi quello di maestro di vita. Non hai da elargirmi nessuna illuminante lezione, quello che desideravo era condividere qualcosa insieme, da pari a pari, evidentemente non sono riuscito a spiegarmi, quando tutto questo è iniziato.”
Helena tacque mentre uscivo dal bagno, per poi attraversare la parete e venirmi dietro.
“Come credi che avrei dovuto reagire alle tue offese?” protestò.
“Io non ho parlato per offendere, ho rivelato ciò che pensavo, se il mio discorso ti ha offesa, quello è ben altro passaggio e non ha nulla a che vedere con i miei scopi. Sei una Corvonero, credevo che le trappole di un eccessivo amor proprio non intaccassero la ricerca di verità scomode o meno che siano.”
“La tua verità. Una verità potenzialmente opinabile in cui riponi sin troppa fiducia.”
Mi fermai in mezzo al corridoio e mi voltai a guardarla.
“Non sono colpevole di dar credito a quello che penso, è il presupposto necessario per acquisire un punto di vista. Vagare tra condizionali e incertezze impedisce di azzardare una qualsiasi opinione.”
Helena fece una smorfia che si accartocciò all’altezza della bocca, attorno a un principio di risata.
“Non divagare, sai benissimo come i modi possano fare la differenza, tu che trascorri il tuo tempo a misurarli.” disse, senza nascondere una traccia di disprezzo nella voce.
“Già” dissi. “Ed è ciò che ho fatto, finché non mi hai esortato a non essere accondiscendente, ma schietto e rivelare ciò che l’intuito o l’intelligenza mi suggerivano. Quando ho indugiato sulla soglia di certi argomenti per cautela ti ho irritata e non ne hai fatto mistero.” le ricordai.
“E il tuo buonsenso non ti ha suggerito una ragionevole via di mezzo tra tatto e onestà?” chiese con un’espressione che sembrava dire: non è ovvio?
Lasciai trascorrere qualche istante in cui la guardai fisso, prima di riprendere.
“La schiettezza che mi hai chiesto e con cui ti ho risposto è la migliore forma di cortesia e rispetto di cui sono capace e non la uso tanto di frequente con chi mi circonda. Ero certo che sarebbe stata apprezzata, ma forse avrei dovuto ricordarmi che non sei esattamente scevra da filtri emotivi capaci di annebbiare persino te.”
“Io non sono affatto annebbiata!” ribatté in fretta.
“Be’, è un peccato, perché avrei potuto scusare il fatto che non avessi prestato fede al nostro patto, se lo fossi stata. Ma se l’hai fatto lucidamente, allora il tuo è poco più che un inganno.”
“Parli delle due domande a cui avresti avuto diritto dopo la tua risposta?”
“Precisamente.”
“Il giudizio sulla prova che ti ho sottoposto era una mia prerogativa, c’era tutta la possibilità che tu non ti rivelassi meritevole di varcare la soglia, o l’hai scordato?” disse, nel chiaro tentativo di riguadagnare terreno il prima possibile.
“Quindi è così? Tutto si riduce a questa spiegazione? Le mie risposte erano tutte un errore e non ho meritato il premio?”
“Per quello che ne sai potrebbe essere assolutamente plausibile.” perseverò lei.
“Non prendermi in giro.” sibilai, riprendendo a camminare, alla volta delle scale. “Il punto non era che il mio discorso fosse inesatto, ma il fatto che tu non volessi ascoltarlo. O intendi continuare a negare l’evidenza?”
Helena restò sorprendentemente in silenzio. Mi fermai e mi voltai per assicurarmi che fosse ancora lì.
C’era e mi osservava con un’espressione per una volta priva dalle pieghe altere che la caratterizzavano. Era stranamente genuina.
“Hai davvero un’opinione tanto superficiale di me?”
“Semmai è il contrario.” replicai, ma ero già più pacato di quanto fossi stato fino a un attimo prima.
“Non sarei qui.”
“Se è così usami la stessa cortesia che ti ho dimostrato e dì le cose così per come sono.” dissi.
“Ti ho cercato perché avrei dovuto risponderti.” si risolse alla fine.
Inarcai le sopracciglia e sospirai con un fare che dovette risultare fastidiosamente indulgente.
“Credo che possiamo continuare questa conversazione in un luogo che ci sia più consono e familiare, cosa ne pensi?”
Quando Helena accettò, invece di scendere le scale, le risalii fino al settimo piano. Una volta entrati insieme nella vecchia Hogwarts, ripristinata dalla Stanza delle Necessità dopo mesi interi, lasciai che Helena mi guidasse dove voleva.
Scelse l’aula di Trasfigurazione, al piano terra, che non era troppo diversa da quella del presente. Fuori dalla porta aperta, di tanto in tanto, passavano file sciamanti di studenti che parlavano a bassa voce per non disturbare le lezioni. Non potei fare a meno di pensare che l’educazione e la disciplina del tempo dovessero essere più rigorosi di quelle odierne e immaginai con un certo divertimento una condanna alla gogna per alcuni miei compagni di Casata particolarmente rumorosi.
Prima di voltarmi a guardare Helena fui quasi sicuro di aver scorto una figura più adulta attraversare per un solo istante la visuale del corridoio consentita oltre la porta; non mi servivano altri indizi per immaginare che si trattasse Rowena Corvonero.
Se anche sua figlia se ne accorse, non lo diede a vedere, ma si librò verso il soffitto dell’aula in una piroetta strascicata che la rese molto simile a una murena. Passò davanti ad una delle alte finestre che circondavano il perimetro della stanza. Oltre il vetro vidi che non era mattina, ma sera. In lontananza alcuni studenti nel cortile medio facevano volare dei globi luminosi affiggendoli a un grosso abete. Immaginai di essere tornato indietro a dicembre nei giorni prima delle vacanze natalizie.
Quando tornai a guardare Helena lei stava passando davanti al punto in cui normalmente avrei visto una lavagna, ma che ora era soltanto nuda pietra. Si fermò alla scrivania e si puntellò sul bordo restando a fissarmi.
“Dunque,” cominciò. “Sentiamo queste domande.”
“Sempre due, o diventano tre, considerato il piccolo incidente di percorso che c’ha tenuto lontani per mesi interi?” chiesi.
Lei mi rivolse un’occhiata stizzita che non comunicò né assenso né diniego; io per tutta risposta le sorrisi.
Non le diedi la soddisfazione di sedermi dietro uno dei banchi delle quattro lunghe file che riempivano l’aula, ma mi misi davanti a lei, la guardai dritto in volto e coi modi più diretti che potessero riuscirmi cominciai.
“Come sei morta?”
Helena calò le palpebre riducendo gli occhi a due spiragli.
“Assassinata.”
“C’entra con tua madre e il fatto che eviti di guardarla?”
“Non del tutto.”
“Col suo diadema, allora?”
Helena si accigliò.
“Perché lo pensi?”
“Perché la tua storia è avvolta dal mistero, lo è anche quella del diadema. Un oggetto che racchiude la magia straordinaria di Corvonero…” inarcai le sopracciglia e le rivolsi uno sguardo eloquente. “Be’, per qualcuno potrebbe essere un motivo sufficiente per uccidere.”
“Ah sì? E per quale razza di mostro?”
Non risposi, perché la risposta probabilmente l’avrebbe fatta ritrarre in maniera definitiva.
“È questa la tua teoria? È sempre stata questa?” riprese lei, in tono greve, guardandomi di sottecchi.
“A dire il vero sì.”
“E il punto di questo… di tutto questo, sarebbe?” chiese.
“Capire.”
“Tu vuoi capire? Allora lascia che capisca anche io. Perché hai rubato?” domandò con un tono che lasciava ben intendere che non avrebbe ammesso menzogne, questa volta. Capii che avrei dovuto essere schietto, mio malgrado.
“Al proprietario non doveva importare poi così tanto.” dissi, distogliendo lo sguardo da lei e sedendomi sul bordo del banco davanti alla sua scrivania.
“Restano di sua proprietà.” mi fece presente lei e io risi.
“Se vuoi la mia opinione l’idea di proprietà andrebbe rivista.”
“Che vuoi dire?” domandò in tono scettico.
“Che con gli anni ci siamo dimenticati che significa. Non tutti l’hanno fatto però. I folletti ad esempio. Loro sanno cosa significa possedere qualcosa, più di quanto non ce l’abbia presente un mago. Noi sintetizziamo la maggior parte di questi concetti col passaggio di denaro.”
Helena chinò la testa di lato e restò a fissarmi.
“E allora secondo quale principio si avrebbe diritto a possedere qualcosa?”
“Le cose dovrebbero appartenere a chi le merita.”
“Merita.” ripeté lei dopo una lunga pausa.
“Precisamente.” risposi, fingendo di non accorgermene. “Se qualcuno ha la determinazione e il potere di far suo qualcosa, quel qualcosa è legato a lui. Il denaro è la via che un gruppo di persone deboli ma astute ha escogitato per prendersi cose che non avrebbero mai potuto strappare via a mani nude ai più forti.”
“Quindi quei gemelli sono tuoi perché tu li meriti.”
“Il proprietario è solo ricco. Non ha nulla in sé che paghi il valore di un oggetto prezioso.” mi limitai a ribadire.
“Tu sì?”
“Sì” affermai con decisione. “Io sì.”
Helena rimase in silenzio, spiccò nuovamente il volo dalla sua posizione passando a pochi centimetri sopra la mia testa; io mi alzai e lei si posizionò alle mie spalle per poi accostarsi all’orecchio.
“O forse sei solo invidioso dei vantaggi dei tuoi coetanei?” insinuò.
“Non solo di loro. Quella è piccola cosa.” dissi, cercando il suo profilo con la coda dell’occhio.
“E chi altri?”
“Di te.”
Helena tacque, probabilmente presa in contropiede dalla mia risposta. Io accennai un sorriso e non mi voltai per fronteggiarla, ma tenni lo sguardo sospeso verso un punto imprecisato della parete di pietra davanti a me.
“Lo sai che ricordi un pesce, quando ti muovi? Devo averlo pensato cento volte quest’anno. Sembra che l’aria che io respiro e dove io mi muovo schiacciato da forze invisibili, per te sia acqua. L’ho capito, sai? Quello che intendevi quando mi hai dato dell’ignorante nel sostenere che tu fossi qui, perché ti vedevo. Ora so che tu non sei davvero qui.”
“Dimmi dove sono, allora.” disse in un soffio.
“In acqua.” risposi. “In un confine liquido che coincide col mio mondo fatto di aria, ma che al tempo stesso è diviso da esso. Tu lo spezzi solo nel tempo di un istante. È quando…”
“Quando ti tocco.” mi anticipò lei e per un breve momento fui sicuro di sentire la pressione delle sue dita sul braccio. Il gelo si allargò a macchia d’olio, prima sul tessuto dei vestiti, poi sulla pelle e dopo qualche istante svanì.
“Esatto.” dissi.
“È questo che invidi?”
“La tua conoscenza.” precisai. “Quella e la comprensione che hai del posto in cui ti trovi e i suoi misteri.”
“Acqua.” ribadì lei, col tono sospeso di qualcuno che chiede una conferma per essere certo di avere inteso bene.
“L’acqua è incredibile.” spiegai. “Trasforma qualsiasi cosa, la rigenera, la cambia, la dà alla luce. E la uccide anche. Vedessi cosa fa l’acqua a un cadavere.” aggiunsi con un mezzo sorriso che non mi riuscì di reprimere.
“Non è che sia proprio acqua quella in cui mi trovo, sai?” osservò lei, ma percepii una nota bonaria nel suo tono di voce.
“Allora dimmelo come si deve.” incalzai. “Dove ti trovi e come è stato.”
Helena non rispose subito, mi aggirò per tornare a fronteggiarmi. La sua espressione era esitante.
“È complicato.”
“Come la faccenda di tua madre?” chiesi.
“Sì.”
La osservai in silenzio per un po’ di tempo, prima di riprendere.
“Raccontami tutto, Helena.” 
 
 

*

 
 
Lo guardo a lungo e ricerco dentro di me tutte le motivazioni che dovrebbero portarmi a non accontentarlo. Mi chiedo, con schietta sincerità, se il peso della mia non vita sarebbe in parte sollevato da un semplice gesto di condivisione. Il suo volto è serio e composto, di fronte al mio, il suo essere intero teso come la corda di un arco nell'aspettativa di un tale momento. La verità che mi ha spinto a tornare, a spiare ancora i suoi passi durante i mesi della nostra separazione, è chiara alla mia mente ora più che mai.
Questo ragazzo invidioso, che senza battere ciglio si appropria di ciò che appartiene ad altri, mi ha fatto un dono raro che è ben poca cosa, rispetto a ciò che ora mi chiede.
Tom Riddle mi ha regalato il tempo: l'attesa trepidante, la noia incalzante e il timore onnipresente che lo definiscono. Scandendo con le ore delle nostre conversazioni l'agonia che è propria del ciclo infinito che è la mia esistenza; ricordandomi cosa vuol dire essere in funzione di qualcosa e non al di là di ogni cosa.
Per questo e per mille motivi decido e so che è giunto il momento.
"A guardarla c'era il rischio di rimanerne accecati. Mia madre sembrava fatta di luce. Né i quadri né le statue le rendono giustizia. Niente potrà mai farlo. Non c'era uomo che guardandola non la desiderasse né strega o mago che non riconoscesse il suo valore e il suo potere. Aveva una mente unica, un'immaginazione senza limiti e una risata talmente bella da sembrare musica. Riusciva a trasformare l'aria intorno a sé, a far convergere ogni attenzione sul suo più piccolo e aggraziato gesto. I suoi allievi ne erano innamorati: la maggior parte chiedeva la sua mano appena raggiunta la maggiore età. E persino quando lei li rifiutava garbatamente loro non potevano fare altro che adorarla come una dea magnanima. Niente di quello che faceva passava mai sotto il setaccio della società magica senza che ne fossero tessute le lodi: persino avere una figlia senza essere sposata o senza che si sapesse chi era il padre, poteva esserle perdonato. Lei era perfetta, al di sopra di ogni umano giudizio, superiore a qualsivoglia comparazione. Perfetta. Lei era perfetta." c'è una pausa di silenzio in cui il mio sguardo galleggia vacuo sopra la testa di Tom, inquadrando lo stipite della porta, prima che le mie parole tornino a riempire l'aria, basse e vibranti, come un sospiro stanco di vento. "E io la odiavo." rivelo, il tono che si chiude in una nota bassa, risentita. "La odiavo con ogni fibra del mio essere." torno ad abbassare il mio sguardo, fissando Tom e la sua reazione a quella rivelazione. Trovo ad attendermi un'espressione quieta e concentrata, ancora nessun giudizio a percorrere i tratti appena spigolosi del suo viso. "Quando ero piccola non potevo che esserne fiera, bada bene. Mia madre era una dea anche ai miei occhi. Il problema delle dee è che non sanguinano, non ha debolezze e sprofondano lo spazio intorno a loro dell'ombra proiettata dalla loro luce. Può essere sopportabile, finché sei una bambina, ma quando inizi a diventare una donna è impossibile non notare che nessuno di quegli sguardi adoranti è rivolto a te. A meno che per giudicarti e cercare di comprendere perché sei solo una copia malriuscita di qualcuno senza il quale il mondo sarebbe un luogo tanto più oscuro."
Non mi accorgo subito che sul finire di quella frase anche l'atmosfera nella stanza muta: quasi le mie parole avessero offerto un'indicazione, la luce pare venir risucchiata via e lasciare il posto ad una progressiva oscurità che investe lo studente qualche metro sotto di me. A fatica mi rendo conto che è un'ombra quella che ha preso a materializzarsi sul pavimento di pietra, strisciando e allungandosi per ghermire la figura di lui e colorarne la pelle di una sfumatura grigia. Il suo tragitto non si interrompe, però, a quella prima conquista, raggiungendo il muro di fronte, risalendone in verticale la superficie e allargandosi ancora come una macchia di inchiostro. Le sopracciglia di Tom si corrugano e il suo sguardo per la prima volta abbandona il mio, ritrovando a sua volta il motivo di quella improvvisa oscurità. Lo segue, come me, fino a che per farlo non è costretto a darmi le spalle e fissare gli occhi sulla parete. Non commenta però e io faccio altrettanto, attribuendo quella strana bizza dello scenario immaginato all'interazione particolare che l'incantesimo e la mia anima hanno instaurato.
"Non tutti gli sguardi, d'altra parte." riprendo, guadagnandomi nuovamente il suo. "Ce n'era uno, in particolare, che non sembrava attratto da mia madre quanto da me. La cosa, di là dal lusingarmi, mi indispettì fin dal primo istante. Non avevo stima del Barone. Lo consideravo rozzo e rissoso, indegno della mia attenzione almeno quanto incapace di un discorso che esulasse questioni frivole o di poco conto. Trovavo insopportabili le sue costanti profferte e non avevo alcun problema a rifiutarle. Nella sua superbia, lui imputava i miei rifiuti all'affetto per mia madre - vedete quanto poco mi conosceva? - e presumeva che io non avessi il cuore di lasciarla per sposarmi. La sua stupidità era irritante, così come il tempo che trascorreva ad assillarmi in un momento in cui il mio grado di sopportazione aveva ormai raggiunto il limite."
Arrivata a quel punto l'ombra è ormai giunta al soffitto, spegnendo di alcuni toni il baluginio delle fiaccole e tingendo l'aria delle sfumature di un crepuscolo avanzato. I contorni del viso di Tom Riddle iniziano a sfuggire, mischiandosi allo sfondo grigio della parete alle sue spalle: persino la lieve luminescenza del mio abito ha assunto le tonalità cupe dell'argento opaco. Una lieve preoccupazione prende a scalfire la maschera del suo viso, ma più forte del desiderio di capire quello che sta accadendo nella Stanza è conoscere il resto del mio racconto.
“Allora non era come ora e io non ero Rowena Corvonero. Ero una donna adulta, brava ma non brillante. Bella ma non fuori dall’ordinario. Il mio nome aveva peso perché era stato ereditato da mia madre, non perché io stessa gli avessi reso onore. Il mio carattere non mi aveva mai portato amici né ammiratori ed ero giunta ormai a quell’età in cui, presentandomi a volti sconosciuti, potevo distinguere perfettamente nelle loro espressioni una domanda che ben presto smise di essere taciuta.” stringo appena le labbra, prima di proseguire. “Perché non ero sposata? Non ero più una bambina attaccata alle sottane di sua madre. Iniziavo anzi ad invecchiare senza trovare il mio posto nel mondo. Posto.” La nota sprezzante nella mia voce sembra sferzare l’oscurità incipiente, attraversandola come una vibrazione cupa. “Il posto di un matrimonio insoddisfacente, di una vita scandita dalle incombenze di moglie e madre, lontana da ogni possibilità di riscatto e sempre più vicina ad una ingloriosa vecchiaia in cui a stento sarei stata ricordata come la figlia priva di talento di Rowena Corvonero. Il destino che mia madre aveva scalzato, diventando una delle streghe più straordinarie del suo tempo, ricadeva su di me. Per una che si distingue, altre mille sguazzano nel fango. Non potevo sperare di raggiungerla e nemmeno di accostarmi alla sua luce senza bruciarmi. Sarei stata l’ordinario che permette allo straordinario di risplendere. Era tutto quello avrei potuto mai aspirare. E tutto quello che non sarei mai riuscita ad accettare.”
Tom muove il suo corpo verso di me e per qualche istante ho l’impressione di vederlo galleggiare nell’oscurità. La sua figura ne è avvinta, ammantata di buio come di un mantello nero che si confonde con il panorama ormai indistinguibile dell’aula. Si avvicina e leggo nel suo volto la preoccupazione per quei cambiamenti inaspettati, ma nonostante sul suo viso sia dipinta una chiara domanda quella non trova la strada delle sue labbra. Ottiene quello che ha desiderato e di lì a poco anche di più. Manca un metro perché mi si accosti, ma è invero costretto a fermarsi perché una crepa di luce gli si para davanti, accecandolo. Volute polverose di oro fuoriescono come sbuffi di polvere da quella ferita sospesa a mezz’aria, stratificandosi e scolpendo nell’oscurità la silhouette di un oggetto dalle linee aggraziate che so lui non impiegherà molto tempo a riconoscere.
“Rubai il diadema, perché la prospettiva di una strada futura tracciata nella mediocrità mi avrebbe distrutto più di ogni senso di colpa. Lo rubai perché credevo di meritarlo.” i suoi occhi hanno come uno scatto a quella frase, e distolgono ogni attenzione dalla tiara per appuntarla su di me. “Ero stata defraudata, resa piccola, invisibile, senza peso e senza possibilità di cambiare il mio destino. La mia vita era stata l’espiazione di un crimine che mi apprestavo a commettere solo in quel momento. Il solo coraggio dimostrato nel compiere quel gesto e scappare via, lontano da Hogwarts, dimostrava che avessi la forza. Che meritassi qualcosa in più di un’esistenza anonima e miserabile.”
L’alone di luce pulsante che si dirama dal diadema ha preso a propagarsi, sfiorando in una carezza dorata la pelle di lui e divorando le ombre sul suo viso, mentre l’oggetto rimane a fluttuare tra noi.
“Non lo usai mai. Poco tempo dopo la mia partenza mi giunse la notizia che mia madre si era ammalata. A portarmela fu il Barone stesso. Dal suo letto lo aveva pregato di trovarmi e riportarmi a casa da lei. Non fu l’unica cosa che mi disse. Avevo sempre pensato a lui come ad uno stupido, ma fu l’unico a capire che nel mio desiderio di rivalsa avevo rubato la tiara. Anche mia madre lo sapeva, in realtà, penso l’avesse capito la sera stessa del furto. Eppure non aveva detto niente, coprendo le mie tracce e il mio crimine con un falso.” Ancora una pausa, durante la quale il mio sguardo si abbassa fino a toccare il pavimento.
“Era convinta che la odiassi. Nel delirio della febbre pregava che tornassi per scusarsi di avermi fatto soffrire, per riparare il torto che mi aveva costretta a fuggire.”
“Avevi detto che la odiavi.” è la prima frase che mi rivolge dall’inizio di quel racconto e nel farlo so che ricerca il mio sguardo, nonostante io non sia pronta ad incrociare il suo.
“Si può odiare l’unica persona che amerai mai al mondo, Tom Riddle. Nessuno dei due sentimenti esclude mai l’altro completamente.”
La macchia di luce di fronte a noi prende a sfaldarsi e con essa le linee del diadema. La luce si dirama in bracci compatti e polverosi, prendendo a vorticare nella stanza e fugando ogni ombra durante la pausa di silenzio che segue. Il mio interlocutore osserva il fenomeno senza proferire altre parole: d’altra parte la sua curiosità non è ancora stata soddisfatta.
“Fino a quel momento avevo messo a tacere le mie colpe, illudendomi di poterle accantonare e sminuirle alla luce dei miei successi. Quando incontrai il Barone, però, compresi che a nessuno è concesso fuggire ai propri crimini. Provai vergogna e una pena infinita per tutto il dolore che avevo inflitto a mia madre, per aver reso gli ultimi giorni della sua esistenza un’agonia senza pace, riuscendo in quello in cui nessuno era mai riuscito: spezzare il suo spirito.” esito alcuni istanti, prima di riprendere. “Era la donna più forte che conoscessi e io l’avevo fatta a pezzi. Non potevo tornare ad Hogwarts. Non potevo guardarla morire. Per questo scacciai il Barone, rifiutai la sua offerta di aiuto e per costringerlo ad andare via mi presi gioco dell’amore che nutriva per me. Il risultato avrei dovuto prevederlo. Sapevo che era un uomo orgoglioso.”
Le mie mani scivolano lungo la linea fumosa del corsetto, soffermandosi sulla macchia argentea di sangue che tinge il tessuto evanescente del vestito. “Per la sua, di colpa, ancora trascina quelle catene.” passo le dita sulla ferita mai rimarginata, per poi rivolgere i palmi in alto, in modo che lui possa vederli. “Per la mia, io resto morta ogni giorno senza che mai niente possa cambiare. ”
È il tono solenne di una domanda che non può più essere trattenuta che infrange il silenzio a seguire.
“Com’è morire?”
Lascio che dopo tanto tempo trascorso immobile il mio corpo scivoli lontano dalla cattedra, verso di lui.
“Come perdere sé stessi, pezzo dopo pezzo, istante dopo istante. Lasciar scivolare ogni briciolo della propria esistenza in un gorgo buio e gelido senza poter fare niente per evitarlo che non somigli al gesto di trattenere l’acqua tra le mani, fino al momento in cui ogni luce è spenta, l’acqua si è prosciugata e la mancanza è tutto ciò che resta.”
Lo osservo concentrarsi nel tentativo di estrapolare un significato chiaro alle mie parole. Cerco di andargli incontro, nonostante tutto, ricercando un’espressione che possa comprendere.
“Morire è toccare con mano l’irreversibilità. Comprendere per la prima e ultima volta che c’è una linea tracciata, un confine oltre il quale tutte le possibilità si esauriscono nella loro stessa mancanza. Non importa il potere, non conta la forza, né la voglia di continuare ad esistere: morire è tutto ciò che sarebbe potuto essere.” il mio viso ora è ad un soffio dal suo, e la mia voce si infrange sulle sue labbra dischiuse. “E non sarà mai più.”
 
 
 
 
 
 

Lust

 
 
 

“With the lights out it’s less dangerous”

 
 
 
“E la morte?”
“Ancora, Tom?”
“Ancora.”
Il verso rauco emesso da Helena assomigliava a una risata. Distolsi solo in quel momento gli occhi dal libro di Pozioni aperto sopra la mia mano, per spiare la sua figura.
Eravamo nell’aula di Difesa contro le Arti Oscure, quella dei tempi di Helena. Lei sedeva in cima all’armadio, meno logoro di quello del mio tempo, ma col legno di quercia lucido che di tanto in tanto emetteva strani rumori e tonfi sordi contro le ante sigillate da catene, come se all’interno ci fosse qualcosa di fermamente determinato a uscire. Helena sedeva in una posizione da montatura all’amazzone, con le gambe penzoloni e l’orlo della gonna che vibrava in uno strascico nebuloso, mosso da una corrente invisibile. Io me ne restavo seduto dietro una delle scrivanie da tre posti che riempivano le quattro file nell’aula. Ogni scrivania era diversa dall’altra, ne dedussi che gli incidenti con gli incantesimi fossero frequenti e che avessero mietuto non poche vittime tra gli arredi.
“Quante altre volte intendi chiedermelo?”
“Quelle necessarie perché comprenda la risposta.”
Forse Helena non mi aveva ascoltato, oppure fece solo finta di non aver sentito, perché riprese: “E poi non hai i M.A.G.O. a cui pensare?”
Al di fuori della Stanza delle Necessità, in effetti, era già maggio e mentre la rigidità di una primavera mal congedata dall’inverno cominciava a sciogliersi in qualche pozza di luce calda non più tanto sporadica, gli studenti del settimo anno si preparavano per l’ultimo passo della loro carriera a Hogwarts, perlopiù barricati in biblioteca.
“Ecco una cosa che mi differenzia da buona parte del resto delle persone: io posso fare più cose contemporaneamente.”
“Straordinario.” constatò lei, atona.
Io rivolsi il mio sopracciglio inarcato alle pagine del libro.
“Sembra che qualcuno, qui, abbia appreso il sarcasmo.”
“Non ho bisogno di impararlo da te, il sarcasmo.” ribatté.
“Certo che no.” dissi. “Infatti sono sicuro che fosse parte integrante dell’educazione di una signorina beneducata nel medioevo.”
“Oppure è un modo d’esprimersi a completo appannaggio delle tradizioni della tua famiglia.” replicò Helena e io pensai che se davvero l’aveva imparato da me, il sarcasmo, in quei mesi dovevo averle fatto una buona scuola.
“A dire il vero io non ho una famiglia. Vivo in un orfanotrofio a Londra.” dissi.
Mentre leggevo per la seconda volta il paragrafo del libro, indovinai il gesto di Helena di voltare il capo verso di me con un’espressione sorpresa.
“Non lo sapevo.”
“Be’, non te l’ho mai detto prima.” risposi in tono disinteressato, voltando pagina.
“È per questo che ti incuriosisce la morte?”
“A voler essere del tutto sinceri, non ci pensavo così tanto prima di conoscerti.”
Con la coda dell’occhio riuscii a vedere la figura di Helena irrigidirsi come se fosse stata appena punta da un insetto.
“Davvero un grazioso complimento, sostenere che ti faccio pensare alla morte.”
Non mi sforzai di trattenere una risata bassa. “Be’ sei morta, che tu lo voglia o no è la prima cosa a cui far caso quando ti si incrocia.” le feci presente.
“Molto gentile davvero.” ripeté.
“Sai non è che sia esattamente un’offesa.” dissi, alzando gli occhi dal libro e rivolgendole un’occhiata di sottecchi.
“Non dovrei deciderlo io, questo?”
“Guai a chi dice il contrario!”
Avrei potuto giurare di averla sentita sibilare, mentre gli occhi puntati su di me le si riducevano a due spiragli sottili; io incurvai un angolo delle labbra in un mezzo sorriso, per poi tornare a guardare il mio libro.
“Lo sai.” ricominciai, dopo un po’. “Notavo che qui, nella tua Hogwarts, intendo, è quasi sempre giorno.”
Lanciai un’occhiata alla finestra più vicina, come a cercare conferma delle parole appena pronunciate. Oltre la superficie di vetro il cielo era di un azzurro spento, con nuvole scarse simili a piante di cotone e le punte degli alberi della foresta creavano un curioso effetto da orlo ricamato.
“Dici?” chiese lei, col tono di qualcuno che non ha mai speso troppi pensieri a riguardo.
“Quando entriamo nella Stanza delle Necessità è sempre mattino, anche se al di fuori è sera. Cosa pensi che accadrebbe se ce ne restassimo qui ad aspettare?” chiesi, tornando a guardare lei.
“Suppongo che il tempo trascorrerebbe normalmente.” rispose, accigliata.
“Quindi arriverà il buio?”
“È così importante?” chiese, con un sorriso divertito che non arrivò a illuminarne lo sguardo.
“Lo è.”
“Perché mai?” domandò lei.
“Col buio cambiano molte cose.” spiegai, senza aggiungere altro.
“Non essere sciocco!” mi rimbeccò. “Cosa mai dovrebbe cambiare?”
Io non feci una piega e proseguii: “Oggi resterò qui dentro con te, fino a sera, se necessario, finché non avrò capito tutto quello che mi è sfuggito da quando abbiamo cominciato a parlare.” dissi, chiudendo il libro.
Helena restò a osservarmi per qualche istante. “Non sei stato in grado di cogliere il punto delle mie parole fino ad ora. Che differenza può fare un orario diverso?”
“Ci sono barriere che nei giusti momenti della giornata si inspessiscono o assottigliano, a seconda.” dissi in tono leggero, con una scrollatina di spalle.
“Che teoria strampalata.”
“Che lo sia o meno, tu saresti disposta a restare?” l’occhiata che le rivolsi era una di quelle che poteva definirsi carica di sottintesi, anche se io stesso non avrei saputo discernerne molti.
“Va bene.”
Benché mi fosse sembrata inizialmente scettica riguardo il mio piccolo esperimento della durata di un giorno intero, Helena fu collaborativa e non mi negò alcuna risposta. A metà mattinata, dopo un numero già importante di conversazioni le idee si erano già fatte confuse e il sole dietro le grandi finestre ad arco acuto della Sala Comune di Corvonero – in cima alla torre ovest del castello – era alto e illuminava la sala e il motivo ricorrente a cielo stellato riprodotto su soffitto e pavimento.
“Cominciamo da te.” cercai di riepilogare.
“Ovvero?” domandò Helena dalla sua posizione vicina all’unico camino, ora spento, mentre io sedevo sul divano foderato di tessuto blu scuro, ignorando il passaggio di studenti contemporanei di Helena con le braccia cariche di libri.
“Dal giorno in cui sei morta.” spiegai.
“Vuoi chiedermi di nuovo come è andata?”
“Conosco la storia.” dissi.
“Allora cosa vuoi che ti dica?” domandò lei, voltando verso di me il bel volto dall’espressione accigliata a cui ormai ero abituato.
“Tutto quello che hai omesso.” dissi come se fosse assolutamente ovvio, ma dato che Helena si accigliò anche di più dedussi che non lo fosse così tanto.
“Non ho omesso niente.”
“Invece manca qualcosa.” insistetti.
Helena sbuffò, ma ricominciò a raccontare dall’inizio, facendo mostra di una pazienza che mi sorprese e io prestai ascolto a ogni parola. In quei mesi già diverse volte la mia immaginazione aveva ripercorso l’episodio dell’assassinio di Helena nel tentativo di visualizzare la scena e ogni volta dalla mia prospettiva il viso del suo assassino, che avrebbe dovuto coincidere con quello del Barone Sanguinario, restava abbastanza marginale. Tuttavia in quel momento, mentre mi raccontava per la seconda volta di come la lama le affondò nel petto facendo a pezzi carne, ossa e muscoli e riversandole nelle vene quel freddo terribile che l’aveva colmata da cima a fondo, nella mia mente avvenne qualcosa di strano e l’assassino di Helena assunse il mio volto. Non passai troppo tempo a interrogarmi sulla natura di una fantasia simile, perché l’effetto immediato fu quello di strapparmi un brivido violento e – con mia sorpresa – gradevole. Cercai di non rendere evidente nessuna variazione sul mio viso che potesse tradirmi, ma da quel momento ignorai il resto del discorso del fantasma e mi dedicai a riavvolgere la scena e rivederla, finché il brivido che tentavo di replicare non si infiacchì per l’usura di quella fantasia, sino a languire definitivamente. Solo quando Helena lanciò un’occhiata alle mie mani, mi accorsi che avevo cominciato a grattare un angolo del libro di Pozioni tra indice e pollice, fino a scollare di poco la copertina di pelle.
Helena non fece domande, né io le chiesi di ripetere la storia una terza volta.
Quel dialogo non era stato particolarmente illuminante, a dire il vero, così feci un secondo tentativo nel primo pomeriggio. Eravamo nel corridoio che conduceva alla biblioteca, al terzo piano.
“Ricordi quando ho parlato della tua condizione di mezzo? Del fatto che la mia idea sia che un fantasma si porti dietro qualcosa di pesante che lo tiene ancorato a questo mondo?” le chiesi.
“Difficile dimenticare quella conversazione.” considerò lei.
“Avevo ragione alla fine? Le tue catene erano il castello?”
Helena restò in silenzio come se dovesse pensarci su. “Non del tutto.” si risolse alla fine.
“Lo sapevo.” dissi; mi fermai e attesi che Helena facesse altrettanto, prima di riprendere a parlare. “È il diadema non è così? Rappresenta il tuo rimorso. Tutto torna.”
“Adesso non essere insolente.” mi avvertì lei.
“Ma lo è dico bene? Tu saresti svincolata da questa forma se qualcuno…”
“Se qualcuno lo distruggesse?” mi anticipò. Tacqui per lasciarle intendere il mio assenso. “Molto bravo.” disse in tono poco entusiasta. “In effetti è così. Quell’oggetto è la mia catena; indovini anche dove sia il mio problema?”
“Chiunque lo trovasse farebbe tutto tranne che distruggerlo.” dissi subito.
“Precisamente.”
 “È troppo prezioso.” aggiunsi, senza riuscire a trattenermi.
“A chi vuoi che importi delle conseguenze che ha per me… di quello che potrebbe significare liberarmi da questo limbo senza scampo?” riprese lei, come se non mi avesse sentito.
“A qualcuno importa.” dissi.
“A te?” chiese lei, con uno dei suoi sorrisi spenti. “Credi davvero che ti affiderei qualcosa di così importante?”
Cercai di non dare a vedere il lampo di entusiasta bramosia con cui accolsi quell’occasione.
“Non ho bisogno che tu mi affidi questa faccenda. Mi appartiene già. Ricordi cosa ho detto una volta sul possesso? Le cose appartengono a chi le merita e io ho meritato…”
“Me?” fece lei, guardandomi. Io tacqui e le restituii lo sguardo con decisione.
“Sai anche tu che è così. Pensaci un po’ Helena. Chi altri, se non me? Dopo quest’anno devi averlo capito per forza: sono il solo che può chiudere questa faccenda una volta per tutte.” dissi.
“Anche se fosse,” disse lei, ostinata. “Io non potrei ripagarti.”
“Puoi invece.” dissi. “Puoi insegnarmi quello che non so su cosa sia morire. Una missione complicata in cambio di un obiettivo altrettanto difficile, mi sembra equo.” insistetti, fissandola alla ricerca di un qualsiasi dettaglio potesse anticiparmi la scelta che avrebbe compiuto Helena.
“Sia.” disse alla fine, in un bisbiglio. “Io ti dirò dove trovare il diadema, metterò il mio destino nelle tue mani, ma solo dopo che sarò riuscita a darti il tuo compenso. Solo dopo che sarò riuscita a spiegarti la morte per come la conosce chi l’ha attraversata.”
Emisi una risatina che cercai di controllare perché non apparisse sin troppo entusiasta.
“Tu e le tue aspirazioni da insegnante.” la presi in giro.
“Dunque accetti?” incalzò lei.
“È perfetto.”
 Quel patto non fece che aumentare le aspettative di entrambi e l’ansia di non riuscire a completare un quadro che mi facesse intendere una volta per tutte la faccenda della morte era palpabile. Eravamo nell’aula di Incantesimi quando il sole cominciò a tramontare oltre le finestre trasformando l’orizzonte in una linea iridescente, mentre il cielo era diviso in due da sfumature arancioni in basso e viola in alto.
“Hai mai avuto a che fare in maniera diretta con la morte?” chiese Helena, mentre fluttuava lentamente tra i corridoi creati dalle file di banchi.
“Qualche volta” risposi, mentre la osservavo da dietro la cattedra.
“Per esempio?”
“C’è stata la volta alla scogliera.” dissi, accigliandomi, mentre cercavo di ricordare altri episodi – escludendo l’omicidio di mio padre. “Ma ancora prima c’è stata la morte di una bambina… credo che si chiamasse Tilly, o Holly, qualcosa di simile, insomma.”
“Cosa le è successo?” chiese Helena percorrendo lo stesso tragitto a ritroso per avvicinarsi di più a me.
“Un attacco di appendicite. È successo ad altri bambini, ma lei è l’unica ad essere morta.” mi accorsi tardi che nel tono poteva distinguersi una nota di biasimo, ma Helena non parve farci caso.
“E cosa pensi di quell’episodio?” chiese, osservandomi con evidente attenzione, come se volesse studiare la mia espressione mentre le rispondevo.
“Che l’atmosfera dopo la sua morte è stata… silenziosa.” cercai di spiegarle.
“Cosa intendi dire?”
“Che per giorni la signora Cole e le altre responsabili sono state un sacco zitte. La stanza dove la bambina era morta era una specie di luogo stregato, di notte i ragazzini cercavano di avvicinarsi il più possibile senza essere scoperti, per scommessa. Giuravano che vicino alla stanza l’aria fosse più fredda e altre idiozie del genere.” dissi. “All’inizio era come se fosse quella stanza a essersi trasformata in una tomba, poi tutto l’orfanotrofio. Lo respiravi. Uno dei bambini farneticava che si sentisse odore di morte tutt’intorno. Che razza di espressione, no? Chissà dove l’ha sentita. L’hanno messo in punizione, naturalmente.”
“Ti spaventa?” chiese a bruciapelo.
Posai la guancia sul palmo della mano e le rivolsi un’occhiata interrogativa. “Cosa vuoi dire?”
“Che è la prima volta che vedo in te qualcosa del genere.”
“Ovvero?”
“Una certa… ansia, credo.”
La osservai e inarcai un sopracciglio, preso in contropiede.
“Be’, sai, preferirei rimandare la mia morte più a lungo possibile, penso che sia una tendenza comune.”
“Fino ad ora nulla di quello che viene da te mi è sembrato avvicinarsi al concetto di comune.” insistette lei, fermandosi quando mi fu finalmente davanti.
“Lo prenderò come un complimento.” tagliai corto.
“Oh, non osare.”
“D’accordo, signora.” le sorrisi. “Comunque perché me lo hai chiesto?”
Helena si strinse nelle spalle. “Per capire quanto fossi lontano dalla comprensione.”
“Quanto lo sono?” chiesi.
“Meno di quanto credessi. Ma non hai ancora capito.”
“Allora cosa mi manca?”
“Un pezzo importante. Che mi dici invece dell’episodio della scogliera? Quello a cui hai accennato all’inizio.”
“Be’,” dissi. “Ho visto il cadavere di un annegato, una volta, in un porto di pescatori. Ci portavano in gita su quella spiaggia e quando ho visto che un bel po’ di gente si affollava attorno all’Herring Drifter mi sono avvicinato.”
“E hai visto il cadavere.” completò lei.
“Era azzurro.” sottolineai, rendendomi conto poi che molto probabilmente era un dettaglio del tutto irrilevante.
“È per questo che un po’ di tempo fa parlavi dell’acqua? Colleghi l’acqua alla morte?”
“Non saprei dirlo. Forse.” risposi e in effetti non c’avevo mai riflettuto.
“Ti manca pochissimo. È un peccato.”
“Lo dici come se ti fossi arresa.”
Helena fece una smorfia che le distese le labbra e le trasformarono in una linea obliqua, come se trovasse difficoltà a spiegarsi adeguatamente.
“È che alcuni concetti ci sono: il silenzio, l’abisso – che tu incarni nell’acqua. Concepisci bene cose come il peso e il corpo dell’assenza, la sua entità che lentamente prende il tuo posto. E tu la senti, Tom, la senti bene, come se fosse viva, come se fosse una persona.” aggiunse. “Sai queste cose, ma altre sono inconcepibili. Quando io sono morta ho provato moltissime sensazioni, concentrate in un singolo istante. Rimpianto, mancanza, paura. E orrore. Non immagini che sensazione sia provare ribrezzo per il proprio corpo, mentre viene meno. Senti che qualcosa ti ingoia, ti trascina via dal mondo, ma divorandoti, appunto e ti vedi per quello che sei: carne da macello inghiottita dalla morte, masticata e digerita. E con tutta la mia intelligenza, con tutto il mio valore, per usare un termine a te caro, io non ho potuto impedirlo.” spiegò. “E poi c’è un’ultima cosa.”
“Sarebbe?” chiesi, improvvisamente più attento.
“L’unica che è impossibile da spiegare.” e parve voler liquidare l’argomento.
Decisi di non insistere e rimasi a osservarla poggiandomi allo schienale della sedia.
“Davvero ti sei sentita mangiare?”
“È un modo per spiegarlo, sì.” rispose lei.
“Però io non sono d’accordo sul fatto che sia impossibile impedirlo.”
Helena proruppe in una delle sue risate basse. “Ma davvero? Quindi secondo te come si scampa a una cosa del genere?”
“Se non vuoi farti divorare, in genere, ti trasformi da preda in predatore.” riflettei.
“Facile a dirsi, ma in termini pratici? Diventi un mangia-morte? Nessuno può fare una cosa simile.”
“È normale che tu lo dica, sei un fantasma.” replicai, probabilmente in tono più brusco di quanto avrei voluto.
“Sii serio, pensi che anche con tutta la magia risucchiata dai più remoti nuclei di potere del nostro mondo e confluita nelle mani di un solo mago si possa conquistare la chimera dell’immortalità?”
“Credo che un obiettivo non si raggiunga da solo e che resti un miraggio finché chiunque continuerà a ritenerlo tale e non farà nemmeno un tentativo.”
“Sfidare e sovvertire leggi basilari e irreversibili, come quelle che governano la vita e la morte? Esistono delle regole, Tom, esistono dei limiti; studi da sette anni, dovresti saperlo.” disse col suo tono severo da insegnante. “Questi sono deliri e anche piuttosto ingenui.”
Ricacciai indietro il moto di irritazione che le sue parole provocarono e cercai di cambiare direzione.
“Ad ogni modo non importa quello che credo io, che sia un visionario o uno stupido, non è di questo che stiamo parlando.”
“No, infatti. Ma io non ho altre parole da proferire.”
Mi accigliai e la guardai e basta, lasciando trascorrere diversi istanti di silenzio fitto che molti avrebbero trovato imbarazzante.
“Che vuoi dire?” chiesi, cauto.
“Che non dirò altro.”
“Cioè ti arrendi?” incalzai, senza notare di aver alzato il tono di voce.
“È molto semplice, Tom. Non c’è nulla che le mie parole possano aggiungere all’argomento.”
“Avevi promesso…”
“No che non l’ho fatto.” mi interruppe tornando alla gravità severa del suo timbro, senza celare una nota burbera. Capii subito che stava cercando di liquidare in fretta ogni discorso e mi restò solo il tempo di un istante per realizzare che era finita.
Immaginai di starle rivolgendo uno sguardo quasi stordito in quel momento.
“Fin dall’inizio i patti erano chiari: avresti aperto certi passaggi segreti soltanto risolvendo gli indovinelli che ti avrei sottoposto. Ad oggi tu possiedi tutte le chiavi. Tutte meno una, Tom. Forse non l’otterrai fino al momento prestabilito, ma nel frattempo potresti apprendere una cosa più importante della morte: ad accettarla semplicemente, anche senza conoscerla come vorresti e dedicarti a vivere, piuttosto.”
Riconobbi il suono di una risata nervosa che proruppe dalle mie labbra, senza controllo.
“Sono davvero colpito, credo che mi serva un fazzoletto per asciugarmi le guance, dal momento che trabocco di commozione. Avresti potuto essere una poetessa, Helena. Perché non lo metti nel tuo personale bagaglio di cose che sarebbero accadute se non fossi morta?” sciorinai quella sequenza di malignità con la scioltezza di qualcuno che è più portato per quello che per ordire la sua impeccabile facciata di ragazzo modello.
Mi alzai in piedi ed uscii dalla stanza insinuandomi nei corridoi labirintici della Hogwarts fantasma, con lo scopo evidente di uscire e ritornare a quella reale.
“Non dobbiamo litigare per forza su questo.” sentii una voce alle mie spalle e realizzai che Helena mi stava seguendo.
“Io ho perso il mio tempo e tu un’occasione.” replicai, implacabile. “Non ho più alcun motivo di restare con te intrappolato nelle tue ridicole illusioni.”
“Sei solo arrabbiato. Non dici sul serio.”
Mi fermai davanti all’ingresso del castello, posai lo sguardo sulla sommità del portone, come sovrappensiero, mentre in volto mi si disegnava la smorfia di un sorriso sprezzante. Mi voltai verso di lei e la guardai fisso in viso.
“Non dico sul serio?” ripetei. “Be’ Helena, lascia che ti riveli una cosa: il tuo intuito e tutta la tua intelligenza non ti hanno salvato la vita, né ti hanno rivelato che tipo di persona io sia davvero. Quindi, ti prego, risparmiami.” dissi, per poi darle nuovamente le spalle, allungare la mano verso la maniglia della porta e infine aprirla.
“Ti prego risparmiami.” ripeté la voce di Helena, mentre la luce di fuori per poco non mi accecava, costringendomi a riparare il viso col braccio. “Sarà l’ultima cosa che penserai.”
Prima che potessi chiederle cosa intendesse dire, mi resi conto che la voce con cui aveva proferito l’ultima frase era curiosamente lontana e che se anche avessi parlato, probabilmente lei non mi avrebbe sentito.
Sbattei le palpebre, confuso, nel tentativo di mettere a fuoco ciò che avevo davanti e prima che questo accadesse cominciai a percepire un suono. Uno scroscio ritmico, con la cadenza di un respiro pesante, che mi fece intuire in anticipo in che luogo mi trovassi.
Quando il panorama cominciò a profilarsi davanti ai miei occhi attraverso la luce troppo forte, dettaglio dopo dettaglio, riuscii finalmente a guardarmi attorno e vidi che mi trovavo sulla pedana di legno a cui attraccava l’Herring Drifter. Davanti a me: il mare e il cielo dello stesso colore.
La superficie dell’acqua era calma, quasi piatta e nel colore dominante che mi circondava percepivo un’inquietudine crescente, quasi marcata dall’immobilità del paesaggio e trasformata in un’ansia agorafobica.
Capii che la Stanza delle Necessità era cambiata di nuovo, plasmandosi sulla base di un’infelice connubio tra i miei ricordi e i desideri di Helena, ovunque lei fosse.
“Adesso basta!” ordinai, anche se nei dintorni non c’era traccia del fantasma. “Questo scherzo idiota è durato a sufficienza, lasciami uscire da qui.”
Nessuno rispose. Sbuffai, feci per voltarmi e aprii bocca per parlare, ma qualsiasi frase morì a fior di labbra nel momento stesso in cui la base su cui poggiavo i piedi cedette.
Nel caos di assi di legno frantumate, distinsi solo l’immediatezza dell’impatto gelido con l’acqua che mi tolse il respiro e il fragore assordante del tuffo.
L’immagine di una crescente massa d’acqua sopra la mia testa a frammentare la luce fuori in una pioggia di schegge bianche mi attraversò la mente come un lampo. In quell’istante desiderai solo la spinta che mi avrebbe riportato a galla, mentre comprimevo in gola quella bolla di ossigeno che ero riuscito a raccogliere prima di andare a fondo.
Non arrivò nessuna spinta: un peso invisibile ancorato alle caviglie mi tirava a fondo e la superficie era sempre più lontana. Il battito cardiaco accelerò e quando presi a dibattermi per contrastare quella discesa inesorabile, cedetti a una crisi di panico da manuale. La poca aria raccolta sfuggì dalle labbra in uno sciame di bolle biancastre con un suono ovattato e grottesco. La sete di ossigeno fece divampare un bruciore da incendio che invase petto e gola e contrastare l’istinto fatale che voleva farmi respirare l’acqua diventava sempre più difficile.
Se i miei polmoni ne fossero stati riempiti e fossi morto in quella maniera la mia pelle sarebbe diventata azzurra. La consapevolezza arrivò insieme all’orrore di cui aveva parlato Helena poco prima.
Il sentimento più miserabile e logorante che provai a quel punto fu la resa che mitigò ogni lampo disperato di ribellione, mentre ingoiavo acqua da bocca e narici e lentamente cedevo a una sorta di gelido sonno accelerato.
Fui risucchiato dalla morte prima ancora di potermi chiedere se l’ultima immagine vista mi sarebbe rimasta impressa nella memoria; direi prima ancora di poter capire se ci sarebbe stata alcuna memoria cui attingere qualcosa, in realtà. Fui risucchiato dalla morte come se vi fossi sempre appartenuto: come se fossi stato, sin dalla nascita, attirato da essa e trattenuto da una sorta di fragile imbracatura. Non a lungo e non saldamente: solo per quella breve parentesi in cui mi era stato concesso di fermarmi e gettare uno sguardo sulla vita. Il caos era lì a tirarmi via dalla terraferma e io ero sempre appartenuto alla corrente. Così morire mi avrebbe dato l’iniziale, brevissima sensazione di cedere a una trazione affatto sconosciuta, ma latente in ogni singolo istante di veglia.
Morire fu naturale, mentre ritornare a respirare fu atroce.
Spalancai gli occhi di colpo, mi alzai a sedere e ingoiai una grossa quantità di ossigeno, per poi cominciare a tossire senza tregua, lo scenario dell’ingresso di Hogwarts mi aggredì la vista: ero di nuovo nel punto che avevo attraversato prima di ritrovarmi nel porto dei pescatori. Non ero fradicio come mi aspettavo, d’altra parte.
“Sta’ tranquillo. È finita, era solo un’illusione, un’illusione molto realistica. Questa stanza non avrebbe mai potuto ucciderti.” la voce di Helena, ovunque lei fosse, arrivò decisa e placida. Sarebbe stata rassicurante se io non fossi stato assolutamente risoluto a impedirle di rassicurarmi.
“Tu,” soffiai quasi senza voce, interrompendomi per un altro colpo di tosse. “Tutto questo… sei stata…”
“Era l’unico modo.” si affrettò a rispondere. “Avrei preferito fare in un’altra maniera, qualsiasi altra. Ma non ce n’erano. Ho mantenuto la mia parola Tom, adesso puoi capire.”
“Non avresti dovuto.” soffiai, ma mi sentii debole anche solo per impostare un tono duro.
“Non ho avuto scelta. La conoscenza ha un prezzo, ma la soluzione di un enigma particolarmente complesso ne ha uno più alto. Ora lo sai, ora puoi finalmente capire anche tu: la morte ci volge lo sguardo dalla nascita, Tom, noi le apparteniamo e mano a mano che quei radi legami con la vita si spezzeranno, noi faremo ritorno da lei. Oggi per accontentare la tua sete di conoscenza ho dovuto reciderne uno.” disse.
Mi resi conto in fretta di non riuscire a restare seduto senza essere percorso da ondate di una nausea crescente, così tornai a stendermi senza dare a vedere a Helena di aver ascoltato anche solo una parola.
Chiusi la bocca e presi a respirare con il naso cercando di ottenere un ritmo calmo; con la coda dell’occhio vidi il cielo dietro la finestra: era buio.
Ci sono barriere che nei giusti momenti della giornata si inspessiscono o assottigliano, per qualche motivo ricordai quella frase, prima che il viso grigio-azzurro di un fantasma si chinasse con grazia sul mio, per poi premermi un paio di labbra ghiacciate sulla bocca. Quando le schiuse con un particolare schiocco liquido che l’udito captò a malapena, la imitai più per non rendermi ridicolo, che per altro, dal momento che lei mi aveva preso completamente in contropiede; presto mi accorsi di come ogni movimento e pressione dessero vita a un gioco di variazioni suggerite più o meno velatamente. Sapevo quando avrei chiuso il suo labbro inferiore tra le mie e quando le avrei lasciato lo spazio necessario per riaprire la bocca e ricominciare. Lentamente passai dal seguire quel processo con un’attenzione quasi tecnica a percepire un brivido simile a quello provato quando immaginavo di essere l’assassino di Helena. Fu in quel momento che le andai incontro col viso e per un breve istante sospettai di aver sentito la sua lingua contro la mia, ma prima di poterlo realizzare lei era tornata vuota e inconsistente come se fosse stata fatta di aria fredda.
Aprii gli occhi e la guardai, molto probabilmente con l’espressione ancora confusa e stravolta da tutto quello che era appena successo.
“Il diadema è nel cavo di un albero in una foresta chiamata Divjaka, nella città di Lushnje in Albania.” disse, ancora vicina alle mie labbra.
“È protetto dalla magia. Se sarai abbastanza abile saprai individuarne le tracce e trovare il proverbiale ago nel pagliaio. Non sarà facile aggirare tutte le protezioni, ma suppongo che abbassare le mie consuete barriere di diffidenza sia stata un’eccellente preparazione all’ostacolo.” disse e dal tono di voce chiunque avrebbe capito che aveva sorriso verso la fine della frase. Solo io, però, avrei saputo indovinarle un sorriso amaro.
Mi puntellai su i gomiti e mi tirai su a sedere in silenzio. Mi alzai in piedi e vidi che il mio libro di Pozioni era finito vicino alle clessidre segnapunti. Mi avvicinai per raccoglierlo e mi avviai verso il portone d’ingresso. Questa volta, quando lo aprii, mi affacciai sul corridoio della Stanza delle Necessità. Prima di andarmene mi voltai a guardare Helena.
“Non avresti mai dovuto fare quello che hai fatto.” dissi. “Ma sappi che manterrò la mia parola. Ogni discorso fatto con te era vero. Tutto quello che ci siamo detti.”
Non c’era nessun reale motivo per mentirle come feci e alimentare una falsa speranza, o almeno io non seppi individuarlo allora. Forse desideravo semplicemente chiudere il cerchio; completare quella farsa lusinghiera architettata ad arte per raggiungere il mio obiettivo, uscendo di scena così come ero entrato nella vita di Helena.
Poteva essere una risposta plausibile, tuttavia non riusciva a convincermi del tutto: naturalmente non intendevo distruggere il diadema come avevo promesso, ciononostante non potevo negare che in quella messinscena sapientemente recitata, avessi finito col metterci del mio. Forse più di quanto avessi voluto, tradendo il mio inganno e mostrando chiaroscuri del mio vero io sfuggiti al mio controllo.
Mi domandai se Helena si fosse accorta di qualcosa, mi domandai per la prima volta cosa avesse pensato della mia ossessione per la morte.
Dentro la falsa Hogwarts era buio, come anche in quella autentica. Di conseguenza non potei vedere l’espressione del fantasma, né lei rispose alle mie parole. Feci un passo avanti, richiusi la porta, lasciando Helena indietro e abbandonando il mondo che avevamo creato insieme, per sempre.
 
 
 
 

Sloth

 
 
 

“I see magic in your eyes 
On the outside you're ablaze and alive 
But you're dead inside”

 
 
 
 
Mentre finivo di sistemare i miei pochi effetti nel baule, sapevo che fuori dal castello gli studenti del settimo anno con le rispettive famiglie erano ancora intenti a festeggiare il gran giorno.
Il dormitorio era deserto e l’unico suono udibile era quello degli oggetti spostati, raccolti e sistemati ordinatamente nel bagaglio malconcio e di seconda mano.
Se qualcuno fosse stato presente lì con me non avrebbe mai detto che avevo appena ottenuto dodici M.A.G.O. elencati in tono solenne da Dippet durante la Cerimonia di Consegna. In quel mese tutti gli studenti, meno quelli che avrebbero preso il diploma, erano già tornati a casa per le vacanze.
Essere rimasto lì un po’ di più era una magra consolazione, dato che non sarei tornato l’anno successivo.
Mi accorsi di star preparando le mie cose con un po’ troppa flemma, così cercai di darmi un’accelerata e dopo i libri, presi a impilare i vestiti.
“Dodici M.A.G.O.! Proprio non lo immagino come tu ci sia riuscito, con tutto il tempo che destinavi a quella superba sbiadita!” la voce proveniva da uno degli arazzi nel dormitorio; mi voltai e lanciai un’occhiata sospettosa a Merlino, ma lui sembrava assolutamente concentrato sui suoi tentativi di trasfigurare una coltivazione di Mimbulus Mimbletonia.
Tornai al mio baule e abbassai il coperchio, una volta finito di sistemare lì dentro tutto quanto.
Dall’ultimo incontro nella Stanza delle Necessità avevo sistematicamente evitato Helena, ignorando persino un richiamo lungo i corridoi, una volta.
Eppure avevo anche trascorso diverse notti sveglio a ripensare a quanto era accaduto in quell’occasione e, in generale, a quello che avevo passato durante quei mesi dedicati a lei.
Cercavo di dare un nome allo strano nodo freddo che localizzavo all’altezza del diaframma d’allora; all’inizio pensai che fosse un residuo del brutto spavento provato durante quella bizzarra esperienza di morte simulata, ma poi, col passare dei giorni, quella sensazione era rimasta, sita lì, dentro il corpo, come un organo nuovo di zecca, chiaramente non irrorato di sangue.
Col passare dei giorni quella massa estranea era cresciuta e con essa il freddo che portava; non capivo cosa fosse e mi preoccupava il fatto che ci stessi facendo gradualmente l’abitudine.
Avevo lasciato fuori dal baule il pigiama per quella notte e il ricambio per il giorno dopo, soltanto a quel punto uscii dal dormitorio, prima, e dalla Sala Comune, poi. Mentre imboccavo il corridoio non potei non prestare attenzione all’affannato scalpiccio proveniente dalla scalinata dei sotterranei. Mi accigliai e feci qualche passo avanti, prima di vedere la grossa figura del professor Lumacorno che arrancava sul suo percorso, chiaramente alticcio.
“Professore?” lo chiamai, più che altro per avvertirlo della mia presenza.
“Uh? Co…? Tom!” esclamò lui, quasi inciampando sull’orlo della tunica color prugna, mentre deviava la traiettoria per venirmi incontro. “Ragazzo mio, stanno iniziando i festeggiamenti, perché sei rintanato quaggiù? Questo è il tuo grande giorno, ragazzo, vai a festeggiare!”
“Sì, intendevo andarci tra un secondo… è difficile pensare di non tornare più qui, avevo bisogno di restarmene un po’ per conto mio, così ho approfittato per preparare i bagagli.” spiegai.
“Sempre in anticipo su tutti gli altri, eh Tom? Io invece devo recuperare una pozione dal mio ufficio per sistemare uno dei pasticci di Brian Doherty. Lui e i suoi scherzi!” disse facendo il gesto di scacciare un insetto con la mano.
“Comunque tu affrettati a salire, non perderti i festeggiamenti mi raccomando!” riprese, agitando un grosso indice e strizzando l’occhio sullo sfondo molle del viso.
“Certamente.” dissi, provando a simulare almeno un po’ di entusiasmo.
Poi Lumacorno prese la sua strada e io la mia. Quando risalii le scale, mi trovai ancora una volta nel Salone d’Ingresso, dove appena poco tempo prima le clessidre segnavano la vittoria di Serpeverde e la conquista della Coppa delle Case.
Svoltando avrei raggiunto la Sala Grande, ma esitai quando vidi la figura grigiastra e fluttuante del fantasma della Dama Grigia che se ne restava in piedi, dando le spalle ai quadri e fissandomi.
Il nodo freddo sotto il diaframma mandò una strana fitta gelida al resto del corpo. Guardai Helena, ricordai il bivio della scelta che aveva compiuto secoli prima e pensai al mio, di bivio.
Solo in quel momento capii cosa fosse quella sensazione ghiacciata che avevo accusato dopo l’esperienza nella Stanza delle Necessità.
Aver sperimentato la morte aveva cambiato qualcosa dentro di me e forse in modo definitivo: la mia precedente angoscia riservata all’argomento si era evoluta, trasformandosi in una misteriosa sensazione. Adesso il mondo circostante assomigliava al fondo dell’oceano; un abisso muto e pieno di ombre e tetri misteri. Ero vicino alla comprensione; qualcosa di me che prima di allora aveva solo sfiorato il precipizio, stava per sperimentare la caduta reggendosi ancora e per miracolo su un equilibrio fragile.
Era quello il mio bivio, perché mentre guardavo Helena e pensavo alla sua vita, sapevo che potevo scegliere dove svoltare, potevo decidere di non permettermi di inoltrarmi in un’oscurità ancora più profonda di quella che avevo scelto di conoscere. Perché da quando l’avevo compresa, la morte era diventata un’entità vivida e latente in ogni istante, in ogni volto, in ogni luogo, come se ovunque andassi, il mio mondo fosse abitato di fantasmi fatti di gelo, vuoto e assenza.
Potevo ancora tornare indietro ed evitare tutto questo. Potevo e non lo feci. Ignorai Helena, mi diressi in Sala Grande e capii che non l’avrei più rivista.
L’equilibrio si infranse, precipitai senza speranza e non lo impedii. Forse fu per indolenza, forse perché non mi importava abbastanza o magari solo perché sarebbe costato sforzo.
Mentre entravo nel festoso clima di Hogwarts per l’ultima volta, sapendo che non sarebbe mai più stata la mia casa, capii che da quel momento in poi, ovunque sarei andato, ogni luogo avrebbe avuto le sembianze del tetro scenario grigio-azzurro del porto di pescatori, per sempre e indistintamente popolato da fantasmi inconsapevoli e dello stesso colore.
 
 

*

 
 
Ricambio il suo sguardo senza parlare.
Sapere che proseguirà lungo la sua strada senza voltarsi non attutisce il dolore che sento nel vederlo andare via. La mia mano si allunga verso di lui, ma la luce scompare oltre le porte della Sala Grande, sprofondando di nuovo il mio mondo nel riverbero grigio che è la mia condanna.
Non mi chiedo più se l’ho meritato, né se Tom Riddle porrà mai fine alla mia sofferenza. Non mi domando cosa farà del diadema, pur sapendo che verrà meno alla sua promessa, né cosa sarà dell’unico uomo che le mie labbra abbiano mai sfiorato.
Non sono le domande il mio tormento, non è questa l’angoscia della morte. Addosso ho un rammarico stanco, una pena che trattengo come acqua tra le mani.
Davanti a me vedo, vera come se ci fosse ancora, la figura di una ragazza che appare quando lui ormai è stato inghiottito dal percorso che lo attende. Ha un cappuccio calato sul viso e stretta al petto una borsa che è convinta contenga il riscatto di una vita e la felicità che ha desiderato sopra ogni altrui tristezza. Si ferma al bivio della sua esistenza, lo sguardo rivolto per l’ultima volta oltre le porte del luogo che chiamerà casa per sempre. C’è incertezza nel primo passo e un brivido che la coglie inaspettato, indizio di un futuro che soffocherà nella tragedia. Fuori il cielo minaccia tempesta, ma quella dentro di lei viene messa a tacere, mentre spinge i suoi passi oltre i confini della strada che crede sia stata tracciata per lei da altri.
Un giorno un ragazzo le chiederà cos’è la morte.
 
“Helena.”
“Madre.”
Cos'è la morte?
 
Mi volto verso il cortile spazzato dalla luce e ingombro delle macerie della mia casa. Sangue ne imbratta le pietre millenarie, bacchette spezzate e cadaveri smembrati ne tappezzano il suolo senza tempo. Su di essi si erge un uomo vestito di nero, il cranio nudo a stento testimone della bellezza di un tempo passato e le mani scheletriche e bianche che stringono centinaia di vite innocenti.
Dice di aver mangiato la morte, di aver vinto la sua eterna nemica.
Vittorioso, guarda il suo regno di buio e terrore. Reso pazzo dall’odio, accecato dal potere, con l’anima a pezzi a causa dalla sua stessa paura, mi domando (eppure già so) se è lo stesso ragazzo che anni prima ha incontrato una donna e le ha chiesto cosa fosse la morte.
Mi chiedo (eppure già so) se lo ha mai davvero compreso.
Addosso ho un rammarico stanco, una pena che trattengo come acqua tra le mani.
Prima di lasciarla andare.
 
“Helena.”
“Madre.”
Cos'è la morte?
“Cercavi qualcosa?”
“Solo un libro.”
La morte è l'ultimo sguardo di tua madre.
“La cena sarà pronta tra poco. Sono tutti nella Sala Grande.”
“Vi raggiungo subito.”
La morte è l'ultimo sguardo di tua madre, che sa.
“Aspetto che tu finisca. Scendiamo insieme.”
“Non preoccupatevi, madre. Andate pure. Non inizieranno senza di voi.”
Che sa. E tace.
“Non accadrà nulla se tardo. Ti aspetto volentieri. Mi chiedevo se ti andrebbe di sedere affianco a me, stasera, durante la cena. È da tempo che non parliamo un po'. Sono stata molto occupata in questo periodo per via di...”
“Non c'è molto di cui parlare, ma se può farvi piacere siederò con voi madre.”
Che sa. E tace mentre le sue labbra tremano appena e trasformano il sorriso sul suo volto in una piega afflitta. Inconsolabile.
“Allora ti aspetto in Sala Grande.”
“Sì, madre.”
 
La morte è una punizione.
L'ultimo sguardo di tua madre, il dolore scolpito su ogni piega della sua pelle bianchissima e riflesso nello specchio nero inchiostro dei suoi occhi.
La morte è un bivio.
Quello che porta i tuoi passi a dare le spalle alle porte della Sala Grande, al clamore delle voci familiari, al luogo che chiami casa e alla donna che amerai per l’eternità.
La morte è buio.
Il cielo nero e senza stelle che copre la tua fuga, il vuoto che si allarga nel tuo petto quando decidi di andare avanti e mai più tornare sui tuoi passi.
La morte è la porta dietro cui lei mi aspetta.
E che io non varcherò mai.

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