Una penna d’oca corre sulla pergamena, con un fruscio un po’ stridente, quasi assomigliante ad un topolino che scava.
Ma dopotutto potrebbe essere davvero un topo, lì nei sotterranei abbondano. Alcuni poi, galleggiano in ampolle ripiene di liquidi di vario colore, allineati con ordine sugli scaffali che tappezzano le pareti umide.
Il professore di pozioni scrive, assorto, su un tomo rilegato di verde intenso; le candele gli gettano ombre e lame d’ambra sul volto, facendo risaltare gli occhi cupi e tristi.
Quando due colpi, secchi e lievi, vengono battuti sulla porta, sobbalza e le labbra si stringono in una piega irritata.
Passano alcuni secondi, poi inspira a fondo e con tono tutt’altro che amichevole ringhia: “Avanti.”
La porta non cigola, solo i vestiti del nuovo venuto frusciano appena e quando la figura alta e magra si profila sull’uscio Piton solleva le sopracciglia, in un’espressione di malcelato e stupito disgusto.
“Buonasera professor Piton.” Lo saluta formalmente Lupin, facendosi avanti e chiudendo la porta dietro di sé.
“Ah, Lupin…” scandisce lui, alzandosi in piedi e studiandolo come se fosse uno gnomo, brutto e fastidioso. O magari un troll puzzolente, da come arriccia il naso.
Lupin si fa avanti, guardandolo con tranquillità come se l’altro gli stesse sorridendo.
“Sono venuto a prendere la mia pozione e…a ringraziarti. So che non lo fai con piacere.” Niente fronzoli, nessuna premessa: il Mannaro si infila le mani nelle tasche lise, guardandolo ora con un’intensità nuova.
Le labbra di Piton disegnano un sorriso sardonico, mentre appoggiandosi a dita aperte alla scrivania si piega appena in avanti, quasi a sottolineare le proprie parole:
“Preferirei vederti sbranato dai tuoi simili…” sibila, gustandosi l’insulto con una scintilla feroce negli occhi. “Ma dopotutto…” il tono muta, un’espressione infastidita gli attraversa il volto pallido mentre si raddrizza “…me lo ha chiesto Silente.”
Gli getta un’occhiata da capo a piedi, poi si volge e da un tavolinetto afferra una boccetta vecchia e sporca. Aggira la scrivania, rigirandosela pensosamente fra le dita, fino a trovarsi innanzi a lui. La soppesa ancora un attimo, poi gliela tende con malagrazia.
Lupin non la guarda nemmeno. Fissa Piton, dritto in volto. “So che mi odi. Forse non hai tutti i torti.”
Piton non risponde, la sua espressione gelida e disgustata parla per lui.
“Ma sono passati molti anni. Sono successe molte cose. Tutti abbiamo sofferto, tu ed io più di chiunque altro. Mi dispiace, davvero.” La voce è carica di emozione, e con evidente nervosismo si umetta le labbra prima di continuare.
Il professore, invece, è furente: gli occhi scuri lampeggiano minacciosamente e le dita della mano destra si stringono convulsamente sulla boccetta “Non una parola di…” cerca di interromperlo ma Lupin fa un passo avanti, le mani scivolano fuori dalle tasche.
“Vorrei che mi perdonassi. Perdonami. Abbiamo perso tutto, vero? La famiglia, la casa, gli amici… James e L…”
“Adesso basta!” sbotta Piton, fremente di rabbia.
Tutto avviene in un secondo: istintivamente, con la mano destra occupata è la sinistra a correre alla bacchetta e ad estrarla, sollevandola come per colpire.
Ma Lupin lo precede, agguantandogli il polso con la destra e tirandogli giù la manica con un movimento brusco della sinistra, denudando il Marchio.
Il professore di pozioni è impietrito: il gesto inaudito, lo sguardo gelido di Lupin e la sua presa decisa, forte, che quasi gli fa male.
“Siamo due sopravvissuti tu ed io, Severus...” il tono si abbassa, nel pronunciare il suo nome, quasi un sussurro mentre gli occhi sono fissi nei suoi. “Siamo due reietti.” Aggiunge, e volge lo sguardo sul Marchio.
Le dita tremano sul suo polso ma la stretta non diminuisce, anzi si fa più serrata nell’attirare il braccio di Piton vicino al volto, come se volesse studiare quell’emblema di morte che gli incide la pelle.
“Pensavo che potessimo essere... uniti… nel dolore…” le parole sfumano, mentre il Mannaro si porta alle labbra il Marchio per baciarlo.
A Piton si mozza il respiro, e suo malgrado geme. Un’improvvisa ridda di sensazioni gli infuoca il corpo ed annebbia la mente: quelle labbra sul polso, ricordi laceranti, mani calde, un corpo gelido stretto al petto, un abbraccio anelato e mai ricevuto.
Trema e annaspa, e Lupin non ha pietà di lui: lo spinge indietro, afferrandogli anche l’altro polso e sfilandogli la bacchetta di mano coi denti.
Lo sfida con uno sguardo in cui si mescolano tristezza, ardore e passione, quasi volesse istigarlo a reagire.
Piton lo fissa sconvolto, sul volto dai tratti affilati non vi sono più disgusto né altezzosità: gli pare di annegare e serra i denti, per la ferocia con cui Lupin lo stringe ma tanto più per la morsa lacerante al cuore.
Anni di solitudine, anni di dolore nel buio. Chiude gli occhi con forza e reclina il capo, i capelli neri che scivolano sulle spalle, poi scatta: spezza la presa del Mannaro con la forza della disperazione e gli strappa di bocca la bacchetta:
“Cru…” urla, ma la parola si tronca a metà sulle labbra e Lupin lo studia, le mani sospese a mezz’aria, aperte, laddove hanno perso il loro prigioniero. La bacchetta nera, lucida della sua stessa saliva, a pochi centimetri dal volto.
“Io... tu… sei una lurida bestia…” ringhia Piton, ansimando, e quella bacchetta trema, ancora indecisa, le nocche della mano che la stringono così bianche e tese da parere quelle di un fantasma.
Lupin fa spallucce. “Sì, sono una bestia.” Concede con una scrollata di capo e per un attimo sembra tornare tranquillo. Poi però và a scrutarlo nuovamente in volto, occhi negli occhi.
“Ma sono anche l’unico che può capirti, Severus…” bisbiglia, “Sono l’unico che può consolarti… ancora, come quella volta…” e un sorriso malizioso gli stira il volto magro, mentre le dita ancora sospese hanno uno spasmo al ricordo delle sensazioni passate.
Piton socchiude gli occhi, minaccioso. “Eravamo giovani.” è la fredda risposta, ma poi la mano che brandisce la bacchetta esita, si abbassa. Un lampo dell’antico disgusto sul volto pallido, che evapora quando Lupin gli appoggia le mani sul petto, quasi a contornargli il cuore.
“Eravamo soli. Siamo soli.” Replica, e l’insegnante di pozioni non risponde più, il respiro è rapido, gli tremano le mani.
Sudore freddo gli imperla la fronte ma quei sotterranei non sono mai stati tanto roventi.
“Severus…” sussurra Lupin, chiamandolo a sé, legandolo a sé in quel turbinio di pulsioni e reticenze con la sua voce accesa di desiderio.
E quando adagia le labbra sulle sue, entrambi scossi da un fremito, l’unico suono è quello di una bacchetta che cade a terra.
Piton incespica all’indietro, trovando appoggio contro la solida, cupa scrivania: vi abbandona la boccetta senza troppe cerimonie e si aggrappa al bordo di lucido legno, stringendolo quasi ne andasse della sua vita.
Le mani di Lupin lo accompagnano in quel mezzo passo indietro; le dita fremono sulla stoffa nera prima che quelle della destra inizino a salire arrivando al collo, dove insinuandosi fra le lunghe ciocche trovano l’orlo dell’alto colletto, andando a sfiorare la pelle.
Un brivido scuote Piton, che si morde le labbra e dopo un attimo di esitazione chiude gli occhi, abbandonandosi al tocco del suo collega con un singulto.
Il mannaro sorride, ma è un sorriso a mezza bocca, di compiacimento: il sorriso del predatore. Fa scivolare le dita fino alla nuca, solleticandogli il collo mentre con la sinistra slaccia il colletto: quella mano fra i capelli lo invita a reclinare il capo e l’altro acconsente, col respiro che accelera e gli smuove il petto.
“Severus…” è un bisbiglio così basso da poter essere lo sfrigolio di una candela, ma il respiro che lo porta è adesso tanto vicino alla pelle di quel collo nudo da carezzarla prima che anche le labbra lo seguano.
Un bacio lieve, laddove la giugulare pulsa follemente, ma che strappa un tremito e un gemito al fiero pozionista, cui il tavolo non basta più: d’istinto, si aggrappa a Lupin, gli affonda le mani fra le pieghe della veste e lo ghermisce.
Le labbra tremano, le dita si serrano sulla nuca e Lupin si stringe a lui, petto contro petto, prima di far risalire il suo bacio, lentamente.
Si sofferma sotto la mascella, ascoltandone il respiro rotto dalle sensazioni, poi lo morde piano sotto l’orecchio, godendo degli spasmi delle sue dita.
“Re… Remus…” Lupin si ferma ed assapora quel nome balbettato, sussurrato. Lo abbraccia, gli stringe la vita col braccio sinistro e affonda il viso nei suoi capelli, respirandone a fondo l’odore prima di far scivolare la lingua lungo l’orlo del suo orecchio, verso il lobo che morde e sugge.
Piton trattiene il respiro, poi le sue mani corrono al petto del Mannaro, slacciando i bottoni della sua veste uno dopo l’altro, finché questa non rivela il corpo snello, i muscoli tesi.
Vi fa scorrere sopra una mano aperta, lambendo il collo, i pettorali, il ventre con la sua sottile striscia di peluria che sembra invitarlo a continuare, a scivolare ancora più in basso.
Lupin mugola nel suo orecchio, sospira sul suo volto prima di cercarne ancora la bocca: stavolta non vi è alcun tono di scusa nel bacio, nessuna richiesta d’accettazione.
E’ un incontro voluto, labbra che si cercano e si schiudono, lingue che si carezzano e si esplorano, come le mani che stringono la carne dell’altro con urgenza, quasi con bisogno.
La veste del Mannaro scivola a terra con un fruscio che sembra un rombo nei sotterranei silenziosi, e quella del professore non tarda a seguirla, scalzata da dita agili e decise.
Il respiro di entrambi è uno solo, rapido, annaspante. Le mani di Lupin gli accarezzano le spalle, scendono lungo le braccia e poi ne cercano i fianchi, il petto, sottolineando le curve dei pettorali con uno scorrer lieve di unghie.
Piton torna a circondarlo con le braccia, gli affonda le dita nei lombi e lo stringe a sé, percependo il suo corpo accaldato aderire al proprio, il suo cuore in tumulto bussargli sul petto.
Poi, insinua la punta dei pollici fra i calzoni e la pelle calda del Mannaro, facendoli scivolare lentamente lungo il suo bacino finché non si incontrano dinnanzi.
Lupin gli afferra le spalle e chiudendo gli occhi appoggia la fronte alla sua, quasi in una supplica silenziosa.
E Piton lo accontenta.
Uno ad uno i bottoni dei calzoni cedono, e le carezze che seguono fanno tremare le gambe al Mannaro, gli tolgono il respiro e lo costringono a lasciare i segni delle proprie unghie sulle spalle del professore di pozioni.
Cui presto vengono rivolte le medesime attenzioni: Lupin fa scivolare rapide le mani in basso, scosse da un tremito nervoso che ne tradisce l’ormai irreversibile bisogno.
Carezza la stoffa tesa con la punta delle dita, tormentando Piton che abbassa il capo mordendosi le labbra, prima di sbottonare con lentezza.
Ne cerca un attimo gli occhi, senza più alcun sorriso, per cogliervi lo stesso desiderio che arde nei suoi. Quindi, sfilandogli con mani ormai ferme e decise i calzoni, si inginocchia innanzi a lui.
Il professore di pozioni sgrana gli occhi quando le sensazioni lo avvolgono come una vampata di calore insopportabile, che minaccia di strappargli le forze e farlo gridare. Stringe i denti soffocando un singulto che gli spezza il respiro affannato, mentre le mani affondano fra i corti capelli di Lupin, scosse da spasmi.
La scrivania, dietro di lui, lo sostiene in quegli attimi di follia, lontani dalla coscienza e tanto vicini ai suoi bisogni più nascosti da ardergli le membra come fuoco, da farlo tremare e da mescolargli al respiro, divenuto quasi un rantolo, rochi gemiti.
Ha chiuso da un pezzo gli occhi, la realtà è ora formata da un vortice di sensazioni che quando esplodono rischiano di travolgerlo se non fosse per una mano di Lupin che risale fino al ventre e lo spinge contro il legno, sostenendolo in quel momento di supremo abbandono.
Piton respira a malapena, il cuore sembra volergli balzare dal petto, infrangere quella prigione di carne per seguire i gemiti che gli sfuggono. Poi, lentamente, il piacere ritira le sue dita roventi dalla sua mente, restituendogli a poco a poco la capacità di respirare, di disserrare le labbra in un sospiro liberatorio, di reggersi in piedi da solo nonostante la spossatezza.
Le dita si rilassano fra i capelli castani dell’altro, ma è un momento fugace: ad occhi ancora chiusi sente le mani di Lupin scorrergli lungo le gambe ed afferrarlo per le cosce, sollevandolo.
Sussulta, sgrana gli occhi scuri e cerca il volto del Mannaro, il quale gli rivolge uno sguardo così eloquente da lasciargli ben pochi dubbi sulle sue intenzioni, strappandogli un “N-no…” soffocato.
Lupin lo spinge sulla scrivania, inchiodandogli i polsi con le mani e costringendolo a percepire il legno freddo e duro sotto la schiena, chinandosi in avanti per lambirgli l’ombelico con la lingua.
Risale tracciando spire umide di saliva e umori sulla pelle accaldata di Piton, soffermandosi pochi attimi sull’areola per godere del suo respiro che accelera, quindi percorre il braccio sinistro solleticandolo con la corta barba e, giunto al Marchio, ne disegna i tratti scuri con la punta.
Il professore distoglie lo sguardo, protesta ma la voce è soffocata, incerta: arrivare all’avambraccio con la lingua ha costretto i due corpi ad un contatto così intimo che Lupin non sembra in grado di sopportare oltre.
Gli libera un polso, lo accarezza e fa scivolare la mano in basso. Il professore di pozioni cerca di fermarlo, di afferrargli il braccio affondandogli le unghie nella pelle: ma è una ribellione che dura poco.
Con uno spasmo, così come il suo corpo anche l’animo cede al Mannaro e alla sua pressante richiesta di piacere.
Il recondito abbraccio del pozionista lo avvolge in un calore insopportabile che dal ventre gli percorre ogni centimetro del corpo, ed ansimando Lupin abbandona anche l’altro polso e gli afferra i fianchi, scosso da un fremito che lo costringe a mordersi il labbro per trattenersi, i muscoli tesi sotto la pelle sudata tanto da mettere in risalto i tendini.
Trova la forza di attendere che Piton si rilassi, che la presa sulle sue spalle perda anche l’ultimo briciolo di nervosismo, dominandosi finché non lo sente pronto.
I primi movimenti sono lenti e cadenzati, assaporati col rapimento che solo qualcosa di tanto a lungo anelato sa dare. Ma non è quello il tempo della pazienza, della moderazione.
Quando Piton inarca la schiena bisbigliando il suo nome, Lupin rischia di perdere la testa: la risposta è inarticolata e soffocata dal respiro che torna a farsi affannoso, specchio delle sensazioni e pulsioni che sempre più freneticamente li dominano e lo spingono a muoversi col vigore che solo un bisogno disperato sa infondere.
La luce delle candele gioca col guizzare rapido dei muscoli, sottolineando il fisico dalle linee fluide del professore e quello più spigoloso del suo amante, mentre gli scricchiolii della scrivania fanno da eco alla voluttà che ne deforma e innalza voce e respiro.
L’ascesa al piacere supremo strappa ansiti che solo le pareti di spessa pietra riescono a contenere, finché le dita di Lupin si serrano spasmodicamente sui fianchi di Piton e il Mannaro si china su di lui, tremando finché spossato non posa la fronte sul suo petto in tumulto.
Passano avvinti così lunghi minuti, ancora congiunti nei corpi che tuttavia iniziano a perdere il calore e la tensione dell’atto di passione: infine Piton lascia la presa sulle braccia di Lupin e questo si solleva, ne cerca lo sguardo ma gli occhi scuri dell’altro si distolgono, la bocca è stretta in una piega amara.
Il silenzio aleggia come un velo di pudore, o forse di vergogna, sopra i due: rivestendosi il professore non parla, non lo guarda; il Mannaro si riabbottona in silenzio, e l’occhio gli cade sul tomo ancora aperto sulla scrivania, laddove la follia appena terminata non l’ha raggiunto.
Se prima il colore del tomo l’aveva indotto a pensare ad un libro dei Serpeverde, una parola che coglie ora di sfuggita gli fa capire d’essersi ingannato. Fra tante altre parole, il nome “Lily” è stato tracciato dalla mano di Piton.
Per rispetto distoglie lo sguardo, finisce di allacciarsi il colletto.
Al diavolo le pieghe della veste. Si passa una mano fra i capelli, a disagio: il professore, perfettamente vestito, ha raccolto la sua bacchetta ed è tornato dall’altra parte della scrivania, fissando adesso quel libro aperto di cui va a sfiorare una pagina.
Lupin sospira, prende dalla scrivania la sua boccetta di pozione e fa per andarsene, in silenzio.
“Remus.” Lo richiama la voce bassa di Piton. Il tono è neutro, o forse no: una sottile vena di dolore lo percorre.
Il Mannaro si gira, a sopracciglia inarcate e fa appena in tempo a cogliere sulla sua guancia una lacrima.
“Oblivion.” Mormora Piton.