Aveva spalancato la porta dello scompartimento del treno dove lui e Harry stavano facendo man bassa delle prelibatezze che offriva il carrello, ed era entrata. Il passo deciso, il mento alto, come a voler dire al mondo intero che lei era grande e in gamba abbastanza per qualsiasi cosa le avessero chiesto di affrontare. 
 
Avrebbe dovuto capirlo allora. Avrebbe dovuto amarla fin da subito. Non sprecare nessun attimo, nessun respiro.
Adesso, le urla di lei gli perforavano l’anima. E lui sarebbe morto. Sì, sarebbe morto, perché il dolore di Hermione gli rimbombava dentro e lo consumava. Sentiva la risata folle di Bellatrix che godeva della tortura che le infliggeva, una gioia perversa resa ridicolmente acuta dal terrore di non aver adempiuto correttamente a un ordine del suo Padrone.
Immagini e ricordi vorticarono nella testa di Ron, la velocità quasi nauseante. 
 
Stava aiutando Neville a cercare il suo rospo. Ma era stata distratta dalla mano di lui che reggeva la bacchetta in procinto di scagliare un incantesimo sul suo topo, Crosta. L’aveva vista trattenere il fiato, incuriosita e preoccupata, mentre Ron recitava quella stupida formula magica insegnatagli da Fred. Ma non aveva funzionato; Crosta non era diventato giallo. E il sollievo l’aveva travolta, aveva addolcito i lineamenti della ragazzina, aveva acceso i suoi occhi. 
E Ron l’aveva guardata. La stava guardando quando lei, recuperato il controllo, l’aveva canzonato per il fallimento di quel primo, maldestro tentativo di lanciare un incantesimo.
Lei ne aveva già provato qualcuno – qualcuno di semplice – e le era riuscito alla perfezione, aveva confidato loro, l’orgoglio malcelato. 
Si era offerta di dar loro una dimostrazione pratica. Si era spostata una ciocca di capelli dietro l’orecchio, la mano tremante. Ma lui non se n’era accorto. Era troppo sbalordito dall’incantesimo impeccabile di lei, per notare il leggero nervosismo che l’avvolgeva. 
 
Era quella la chiave per capire Hermione. Era con i dettagli che lei si raccontava e lui, Ron, era stato troppo bambino per coglierli sin dall’inizio. Avrebbe voluto dirglielo adesso che l’aveva trovata meravigliosa anche quando i suoi denti davanti erano piuttosto grandi e il suo reggiseno pieno solo per metà.
Vide il suo terrore riflesso nel volto di Harry e si sentì perso. Le labbra contratte e il respiro affannoso, il suo migliore amico stringeva la testa fra le mani in cerca di un’idea brillante per salvare Hermione, per salvarli tutti. Idea che non sarebbe arrivata. Ron urlò.
Se era questa la fine, se era questa l’unica occasione che avevano per stare insieme, insieme davvero, per condividere qualcosa, voleva che il suo dolore giungesse alle orecchie di Hermione, in modo che si sentisse meno sola, che si sentisse amata, che sapesse che quello che le scorreva nelle vene era il sangue più puro e innocente che uno avesse mai potuto desiderare.
Seppe che non c’era più speranza quando Harry supplicò un frammento di specchio in cerca di aiuto. E, invece, la figura piccola e raggrinzita di Dobby giunse a salvarli. Ron l’avrebbe definito un miracolo.
«Resisti, Hermione» mormorò. «Resisti».
 
Lo sguardo materno della McGranitt quando li accompagnò su in infermieria se lo sarebbe ricordato per il resto della sua vita. Ron era rimasto impalato di fronte al letto a baldacchino con le tende candide, incapace di parlare, incapace di respirare. Si sentiva pietrificato, quasi come Hermione e quella sua soddisfazione per aver scoperto il mistero della Camera dei Segreti congelata sul viso. 
 
Olivander, Dean e Luna erano in salvo a casa di suo fratello, Codaliscia era morto sotto i loro occhi, vittima della sua stessa codardia,  lui e Harry correvano di sopra.
 
Non l’aveva mai vista così arrabbiata come al ritorno dal Ballo del Ceppo. Lo odiava, lo detestava. Gli aveva soffiato addosso tutta la sua furia, se n’era uscita con una battuta finale ad effetto ed era corsa, impettita, nel sicuro rifugio del suo dormitorio. «La prossima volta che c’è un ballo, invitami prima che lo faccia qualcun altro, e non come ultima spiaggia!» 
Incredibilmente, Ron aveva sorriso. Finché si odia, si ama ancora.
 
Gli sembrò di correre da una vita intera e, allo stesso tempo, gli parve di averci impiegato solo pochi attimi per giungere al salotto dei Malfoy. Non ci fu tempo per riprendere fiato, né per calmare la fitta lancinante che aveva al fianco. Sentì Bellatrix dire: «Greyback, prendila pure se vuoi» e tutto il corpo di Ron si ribellò.
Urlò il suo rifiuto disperato, quasi disumano, e tutti i presenti si voltarono a fissarlo.
 
«Vieni a ballare!» Sapeva di essere stato rude, sapeva che avrebbe dovuto chiederle il permesso. Sapeva che faceva parte dei diritti di Hermione ballare con Krum, se lo desiderava. Le chiese scusa per la sua irruenza. Non a parole, Ron non era bravo con quelle e, d’altronde, Hermione era troppo intelligente. Lei sapeva leggere tra le righe. In una mano ancorata in modo deciso sulla schiena di lei, nell’alito caldo sul suo collo fresco, nello sguardo serio e sincero dei suoi occhi blu in quelli scuri di Hermione. 
 
Se gliel’avessero detto qualche anno prima, Ron non ci avrebbe creduto. E invece eccolo lì, a disarmare una folle, pericolosa – la più pericolosa, forse – Mangiamorte. Eccolo buttarsi di lato, rotolare su se stesso e proteggersi dietro un divano. Eccolo sfidare la morte, per lei. Solo per lei.
 
Ne era passato di tempo da quando lui e Harry l’avevano salvata dal mostro di montagna chiuso nel bagno delle ragazze. Era la strega più brillante della sua età, Hermione, qualsiasi età avesse. Lo era stata a undici anni, mentre piangeva indifesa sulle parole distrattamente crudeli di Ron. Lo era adesso, a diciotto, inerme nella stretta fatale di Bellatrix Lestrange. Qualsiasi età avesse, Hermione, aveva bisogno di lui che corresse a salvarla. 
 
Aveva esitato lo spazio di un respiro. Poi vide le gocce di sangue colorare la candida colonna del collo di Hermione, e lui e Harry – senza guardarsi, senza parlarsi – scagliarono per terra le loro bacchette e alzarono le braccia in segno di resa.
Avevano perso. Bellatrix aveva avvertito Voldemort della loro presenza a Villa Malfoy, Harry si mordeva forte il labbro nel vano tentativo di ricacciare indietro il dolore che gli causava la connessione con la mente del Mago Oscuro. Ci avevano provato, ma avevano perso.
 
Non avrebbe mai dimenticato la prima volta in cui l’aveva sentita ridere. Erano al loro primo anno ed erano seduti sul tappeto davanti al camino della Sala Comune. Ron aveva deciso di insegnarle a giocare a scacchi dei maghi. 
 
Addio, Hermione.
 
Era stato talmente facile batterla. Continuava a deconcentrarsi e aveva intavolato una discussione con un alfiere che voleva imporre una sua propria tattica di gioco. Quando Ron le aveva dato scacco matto, riducendo il suo re in cocci sparsi sulla scacchiera, lei l’aveva guardato allibita. «Questo è senza dubbio il gioco più barbaro che io conosca!» Poi era scoppiata a ridere e aveva preteso la rivincita. 
 
Il rumore di uno squarcio, come di aria strappata, aveva riempito la stanza. Ron si aspettava il peggio. Harry si aspettava il peggio. Ancora una volta, fu un miracolo. Dobby, e l’enorme lampadario appeso al soffito crollare su Bellatrix. Ron si tuffò avanti e afferrò Hermione. La strinse forte a sé mentre indietreggiava e accettava la mano che il coraggioso elfo gli porgeva. Non c’era più niente che percepisse, solo il corpo di Hermione premuto contro il suo, solo le sottili dita di Dobby, solo la macchia sfocata di Harry all’altro lato dell’elfo.
Poi crollò su qualcosa di morbido. Il profumo salato del mare gli incendiò le narici.
 
Faceva fatica a respirare, gli pareva che ogni filo d’aria che inspirava gli incenerisse un pezzetto di polmoni. Era normale, gli dissero poi, era l’effetto del veleno che aveva ingerito. Ma il bezoar lo aveva salvato. Harry l’aveva salvato. 
Non riusciva ad aprire gli occhi. Percepiva rumori intorno a sé, ma gli costava troppo sollevare le palpebre per capire chi fosse. Fu con uno sforzo enorme che si costrinse a pronunciare un nome. 
«Her – mio – ne…»
Una mano piccola e fresca si intrecciò alla sua. 
 
Bill si era offerto di aiutarlo. Harry si era offerto di aiutarlo. Dean si era offerto di aiutarlo.
Ron rifiutò, e rifiutò, e rifiutò. Trasportò Hermione in casa e l’adagiò dolcemente in un letto che Fleur aveva velocemente preparato per lei. Sua cognata doveva medicarla, gli suggerì di allontanarsi. Lui non le badò. Non batté ciglio mentre Fleur sbottonava la camicia di Hermione rivelando macchie rossastre sulla sua pelle. Strinse pugni e denti e seguitò a guardare.
Non pensò al fatto che lei fosse seminuda e che, se fosse stata cosciente, probabilmente gli avrebbe sbraitato di uscire da quella maledetta stanza. La carezzò con lo sguardo, sperando che ogni goccia d’amore contenuta in esso bastasse a farle riaprire gli occhi.
Fleur era spaventata, lo percepì da come gli occhi le si riempirono di lacrime alla vista del corpo martoriato di Hermione. La lavò con la tenerezza di una sorella maggiore e Ron le rivolse uno sguardo carico di gratitudine. La bendò con garze immacolate e le rimboccò le coperte.
«Ha bisogno di riposo, Ron… E anche tu» aggiunse preoccupata.
«Ancora cinque minuti».
I cinque minuti erano venuti e se ne erano andati, era passata la notte, anche l’alba aveva fatto la sua comparsa. Lei era ancora priva di sensi, Ron era ancora al suo fianco.
I capelli cespugliosi di Hermione erano sparsi sul cuscino; un ricciolo si ostinava a ricaderle sulla fronte. Ogni volta, per tutta la notte, Ron gliel’aveva delicatamente sistemato dietro un’orecchio.
Di tanto in tanto, si era agitata tra le lenzuola, prigioniera di fantasmi che l’avrebbero torturata per il resto della vita. Una piccola v aveva increspato la zona tra le sopracciglia, e il cuore di Ron era rimpicciolito. Si chinò a baciarle la fronte, ad appianare le rughe di dolore e preoccupazione che solcavano la sua pelle liscia. 
Torna da me, Hermione. 
Le sfiorò le labbra con le proprie. Avvertì il respiro di lei sulle guance, poi un bisbiglio.
«Ron…»
Gli occhi meravigliosi che conosceva così bene erano ancora chiusi, celati dalle palpebre diafane di lei. Tuttavia, un nuovo sorriso le incorniciava il volto, inconsapevole, dolcissimo.
Ron si sentì di nuovo vivo. 

Note di fine capitolo


Il titolo della canzone è preso da Killing me softly, solo che il verso originale è «Telling my whole life with his words», che chiaramente ho dovuto cambiare in her, dato che si parla dell'intera vita di Ron da quando ha conosciuto Hermione. 
Grazie al cielo, non mi sono mai trovata nella situazione in cui la persona che ami sta per essere ammazzata, ma ho pensato che quando succede - un po' come quando stai per morire tu stesso - ti passi tutta la vita davanti. Ho voluto immaginare che è proprio questo che accade a Ron mentre, a Villa Malfoy, Hermione è torturata da Bellatrix Lestrange. 

Le citazioni che ho fatto dagli altri libri della Rowling sono tutte riportate a memoria, dato che mi ritrovo a cento chilometri da casa e impossibilitata, dunque, a controllare sui miei adorati libri. 

«Finché si odia, si ama ancora» è un aforisma di Alphonse Karr. 

Uhm... Credo che sia tutto, no? 
Fatemi sapere se vi piace, se vi va, con una recensione.
A presto,

Chicca

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