I.

Fiocchi di neve scendevano dal cielo, danzando lievi. Il giardino riposava nel freddo invernale, sotto una coltre soffice ed candida. Le siepi e gli alberi somigliavano a creature fantastiche, eternamente petrificate nelle loro pose mostruose e deformi. I viottoli erano stati diligentemente spazzati da quelle sciocche creature che erano i nostri elfi domestici, liberando il disegno ordinato ed elegante delle pietre, che tagliava il panorama latteo come un filo d’inchiostro.
Elanor piroettava lenta al centro del giardino, lasciando che il mondo si confondesse attorno a lei. Amava l’inverno ed il suo silenzioso meditare. Il freddo, l’apparente impenetrabilità della terra, il rigore dei giorni, anche i più luminosi; tutto celava dentro di sé la potenza della natura pronta a riemergere alla vita in un tripudio d’energia e magnificenza.
A suo giudizio, l’inverno somigliava a me. A me, che la guardavo rapito, assorto. Incantato. Invece avrei dovuto correre di fuori per riportarla in casa, al caldo, fra le mie braccia, ma vederla così felice, così delicata ed aggraziata nel suo danzare fanciullesco, mi rendeva schiavo di un Anatema ben peggiore dell’Imperius. Un incantesimo che solo Elanor sapeva lanciare e che colpiva unicamente me, soggiogandomi con la dolcezza dei suoi modi e la timida pretenziosità dei suoi desideri.
Le mani, nascoste nei guanti, si allungavano ad accarezzare il vento dicembrino. Il lungo mantello foderato di volpe bianca ondeggiava, accompagnando con sottili fruscii ogni movimento. Rideva, il viso rivolto al cielo da cui continuavano a cadere folle di gelide farfalle.
Levai la bacchetta in alto, mormorando sottovoce l’incantesimo.
«Aureomarginalia».
Ci fu un lampo, un nastro di luce gialla che s’avvitò nell’aria, salendo rapido fino alle nubi. Un istante dopo, una sottile polvere dorata - lo stesso oro che guizzava riflesso nei capelli della mia Elanor - si univa ai fiocchi di neve, donando loro scintillanti contorni.
Lei si fermò, lasciando che la neve si posasse sul viso imporporato dal freddo. Dischiuse le labbra, assaggiando qualche raro fiocco.
«Rabastan, vieni! É meraviglioso!» rise, cercandomi sulla terrazza.
Sapevo di averle fatto un dono gradito: l’avevo udita spesso fantasticare di un momento simile.
Riprese a danzare, il bordo di pelliccia che sfiorava l’ultima neve caduta, sollevando cristalli luccicanti tutt’intorno a lei. Quello stesso scintillio che sentivo pungermi il cuore.
Scesi lentamente i gradini che portavano alla fontana, lasciando che il suo sortilegio mi vincesse passo dopo passo. Ammiravo le pieghe del mantello avvolgerla, stringerla, dividendola dall’abbraccio gelido del pomeriggio, e le invidiavo. Volevo per me soltanto quell’onore.
Tesi ancora la bacchetta, rallentando la caduta dei fiocchi dorati, piegando la loro traiettoria in un morbido vortice. Mi accostai a quella leggiadra meraviglia, esile come i pendenti di ghiaccio che orlavano la vasca, unendomi impacciato alla danza. Odiavo ballare, non possedevo l’eleganza necessaria o il senso del ritmo, ma per la mia dolce sposa osavo sfidare me stesso.
Ci fermammo, sorridendo. La neve continuava a farci compagnia, cadendo in ampie volute sulle note di un valzer silenzioso.
La presi per mano e indicai col capo la scalinata, perché mi seguisse. L’avrei racchiusa in un incantesimo protettivo che la scaldasse un poco, abbastanza per far sì che la casa non le sembrasse torrida. Altre volte era svenuta per questo. Ci saremmo seduti nel soggiorno, guardando la neve cadere nei bicchieri, con il muso di Mirrin poggiato sul divano in cerca della mano della padrona. Avrei animato e fatto danzare le piccole statue che decoravano ogni angolo della stanza, mentre un elfo ci avrebbe portato i biglietti d’auguri e gli inviti giunti durante la giornata. E quando il buio avrebbe invaso il palazzo, zittendo i bisbigli dei servitori, saremmo andati a letto e con un tenue Lumos avrei vegliato sui suoi occhi che si chiudevano. Come ogni notte, da quando l’avevo sposata.
Elanor però si staccò da me.
«Ti prego, concedimi ancora un minuto. Un solo, insignificante minuto, mio buon signore» mi supplicò, inchinandosi e portando scherzosamente le mani al petto, ma già il suo respiro era divenuto affannoso ed irregolare.
Un sorriso duro apparve sul mio volto.
«Rientriamo» le dissi.
Mise il broncio come una bambina, fingendo di non comprendere il motivo delle mie preoccupazioni. La sera calava rapida, presto anche il suo bel mantello avrebbe potuto ben poco contro i morsi crudeli del gelo. E lei era così delicata, fragile. Tesi la mano per invitarla di nuovo a seguirmi.
«Ti prego, lascia che questa piccola volpe respiri ancora un poco d’aria» supplicò, facendosi piccola nel cappuccio di pelliccia.
Gli occhi verdi mi fissavano impertinenti, in cerca di un assenso. Minute briciole d’oro le si erano posate sulle ciglia e fra i capelli. Oro che palpitava liquido, che s’incendiava di luce propria, stregandomi con lo splendore di mille piccolissimi soli.
«Prendimi, signor segugio!» rise agitando in aria la bacchetta, allontanandosi nel labirinto di bosso.
Scossi il capo frastornato, rendendomi conto d’esser caduto vittima di uno scherzo. Doveva aver usato un Confundus mentre ero immerso nella contemplazione del mio operato.
«E così sia» feci fra me e me.
La rincorsi, tenendo un passo volutamente più corto, concedendole un breve vantaggio. Di tanto in tanto, dalla mia bacchetta partivano incantesimi che facevano crescere all’istante le siepi, indirizzando il suo cammino dove desideravo. Lei lo sapeva e si lasciava guidare. A volte rispondeva ai miei sortilegi, aprendo varchi inaspettati tra le fronde, troppo stretti perché potessi passarci, grande e grosso com’ero. Addirittura mi gettò contro una pioggia di foglie e bolle gelate perché rallentassi ulteriormente la rincorsa. Vederla mostrare le sue abilità mi riempiva di gioia e nel contempo mi feriva: troppo spesso la vedevo accasciarsi esausta dopo quei brevi momenti di svago.
Correva e rideva, con il cappuccio che scivolava indietro, liberando i capelli castani nell’aria.
Di tanto in tanto si fermava, restando in ascolto per capire dove mi trovassi, chiamando il segugio lanciato all’inseguimento, sbeffeggiandolo. Allora mi materializzavo al suo fianco e riprendevamo il gioco.
«Prosperia excelsa» ordinai ad un tratto e le cortine dei cespugli presero a salire verso il cielo lattiginoso, scrollandosi di dosso la neve e formando un tunnel verdeggiante.
Elanor seguì dove portava, divertita, fino a trovarsi di fronte al tronco di un grande frassino, i cui rami, a mio comando, si piegarono verso il suolo, congiungendosi ai sempreverdi.
Si voltò, cercando una via di fuga per procrastinare ancora il gioco, ma c’ero io a sbarrarle il passo. Mossi rapido la bacchetta, per chiudere le maglie della rete di rami ai lati dell’albero. Lessi una punta di dispiacere sul suo viso quando si ritrovò prigioniera. Dispiacere subito cancellato dalla consapevolezza delle sue condizioni e dalla grande concessione che le avevo fatto.
«Che cosa mi farai ora, grande e potente mastino? Cosa farai a questa piccola volpe indifesa?» ansimò, appoggiandosi al frassino con finto timore.
«Siete molto abile, mia signora. Non mi ero reso conto d’esser stato trasfigurato. Credevo di essere ancora un segugio» osservai ironico, mascherando l’agitazione che mi pervadeva.
I sobbalzi del suo petto mi impensierivano non poco. Prendeva lunghi respiri fra le labbra pallide. Anche le guance avevano perduto parte dell’allegro rossore di poco prima. Le risistemai il cappuccio, stringendolo bene sotto al mento. La sua pelle era fredda. Tremava.
«Presa» dissi, piantando entrambe le mani sulla corteccia.
«Presa» confermò, chiudendo gli occhi.
Con un sospiro stanco si lasciò cadere fra le mie braccia. Avevo immaginato di ricondurla immediatamente in casa, dopo quel breve gioco alla fontana, invece avevo lasciato che la sua felicità avesse la meglio sul mio buon senso. Ero stato imprudente. Maledissi la mia mancanza: non avevo con me l’Elisir Rinvigorente che le era stato prescritto per i casi di spossatezza. L’Innerva era un incantesimo troppo violento per le sue delicate membra. La sollevai senza sforzo, avvolgendola con cura nel mio mantello.
«Grazie, Rabastan» mormorò grata al mio orecchio.
Risposi sfiorandole la fronte con un bacio. In quel momento, qualcosa mi colpì in testa, raggelandomi fino ai piedi. Levai lo sguardo appena in tempo per veder crollare su di noi l’intero carico di neve dei rami ritorti dal mio incantesimo.

Note di fine capitolo

Questa storia ha partecipato al contest "Re o Regina di Yule", indetto da The Death Eater, alias Circe e Cedric Diggory Tassorosso, vincendo i premi come Miglior Trama, Miglior FanFictionMiglior Stile e Miglior Ambientazione Magica. La storia si riallaccia alla mia "Diciotto calle bianche", ma può essere letta a prescindere da essa. Comunque, se vi fa piacere darle un'occhiata...

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