Note al capitolo
Il titolo del capitolo significa "incontro, scontro".
Mathesis
Capitolo II - Occursus
Con un movimento elegante continuò a girare su sé stesso, con in mano le valigie che non smettevano di sbatacchiargli contro le ginocchia. Quando finalmente il movimento a trottola cessò, si arrischiò ad aprire gli occhi tenuti chiusi per tutto il tempo della smaterializzazione.
Se non avesse passato la maggior parte della sua vita a reprimere le sue emozioni, avrebbe certamente esclamato qualcosa.
Tuttavia l’unica cosa che fece fu dischiudere leggermente le labbra sottili per la sorpresa, ed accigliarsi ancor più del consueto per la rabbia.
Ciò che gli si parava davanti era a dir poco esasperante.
Desolazione.
Solo e soltanto desolazione.
Si aspettava di trovare delle villette a schiera, separate da qualche ettaro di terreno verdeggiante e rigoglioso.
Il tipico paesaggio che si poteva scorgere nelle campagne britanniche.
Beh.
Il terreno verdeggiante e rigoglioso c’era.
La cosa che stonava era che davanti a sé c’era solo terreno verdeggiante e rigoglioso.
Nessuna casetta stile coloniale, o villetta che fosse.
Nessuna casupola, baracca di fango e foglie di banano o quant’altro di più rudimentale e selvaggio che potesse testimoniare la ben che minima parvenza di presenza umana.
Guardò così alla sua sinistra: strada asfaltata.
Guardò allora a destra: ancora strada asfaltata.
Facendo ciò, notò quindi di essere finito esattamente al centro della carreggiata di una strada di cui non riusciva a vedere la fine.
Temeva a girarsi, perché l’ultima sua speranza era in ciò che avrebbe potuto trovare dietro di sé.
Molto lentamente spostò i piedi, fino a trovarsi davanti lo stesso identico paesaggio che ora era alle sue spalle: miglia e miglia di erba ancora fresca dalla brina mattutina si stagliavano davanti ai suoi occhi, illuminate dalla luce del sole vicino allo zenit; ettari ed ettari di terreno apparentemente molto fertile, rigoglioso, spumeggiante, vivo.
I finissimi steli d’erba si muovevano all’unisono mossi da una brezza leggera, ballavano di fronte a lui in una danza ipnotica, lenti ed armoniosi, fragili ed in sincronia, come una moltitudine immensa di eleganti ballerini dipinti di verde.
Il vento li muoveva piano, li appiattiva: prima a destra, poi a sinistra, poi su e giù.
Pareva il manto immenso di un gigante addormentato, coricato sulla schiena, ed il muoversi dell’erba sembrava il suo lento respirare. Il fulgido paesaggio andava poi ad abbracciarsi a metà della sua visuale ad un cielo di un meraviglioso azzurro chiaro, occupato solo da qualche banco di nuvolette, al cui centro, sopra la sua testa, si stagliava febbricitante di vita il sole, i cui dolci raggi gli colpivano piano il volto.
Tutto appariva armonioso.
In mezzo a tutto quel luccicante verde e blu, l’unico puntino oscuro e solitario era lui.
I suoi capelli neri vennero mossi da un alito di vento leggero, ed un odore di terra bagnata e di foglie gli riempì violentemente le narici, inondandolo di vita.
Avrebbe detto che quello era un posto magnifico, paradisiaco quasi.
Se non fosse stato per il piccolissimo particolare che lui non era andato lì per farsi un bel pic-nic solitario e saltellare tra varie giravolte qua e là nell’erba alta, o per discorrere sulle meraviglie del creato, cose che avrebbe certamente fatto Albus.
No.
Lui era lì per poter fare un maledettissimo sopralluogo in una stramaledettissima casa che non c’era.
Nulla! Niente di niente! Solo erba.
L’erba è bella, certo, come dissentire, ma solo quando non è l’unica cosa che c’è per chissà quanti chilometri.
Avrebbe tanto voluto prendersi la base del naso tra l’indice ed il pollice…ma le dita erano impegnate a tenere quelle stramaledettissime valigie.
Chiuse gli occhi e prendendo un bel respiro provò a calmarsi, facendo il punto della situazione.
Niente indice e pollice.
Niente casette, villette o baracche che fossero.
Solo una lunga, lunghissima, forse interminabile strada.
Bene.
Non era quindi in una situazione definibile “piacevole”.
Non riusciva a capire.
Minerva gli aveva dato l’indirizzo, era perciò da escludere che avesse voluto tirargli qualche brutto scherzo, non era da lei.
Sarebbe stato molto più in linea con Silente, questo sì, ma non con lei, per quanto negli ultimi tempi la strega fosse diventata molto più, come dire… “silenteggiante”?
Quindi l’indirizzo era giusto: meno uno.
Era inoltre da escludere che avesse sbagliato qualche procedura della materializzazione, o pensato male o in maniera distorta l’indirizzo.
La sua esperienza, risultato di anni ed anni al servizio del Signore Oscuro e di Silente, aveva pur dato i suoi frutti.
Meno due.
Rimaneva allora solo un’ultima possibilità. E non appariva per niente come quella piacevole.
Quello era realmente lo Scottyshire, e quella su cui ora poggiava i piedi era davvero Road Phidiana, e probabilmente lui si trovava sul serio al numero “161”.
Il fatto da appurare era quanto fosse lungo questo numero “161”.
Aprì allora gli occhi mettendo di nuovo a fuoco il mondo circostante, in un turbinio di tonalità di verde.
Come in trance, il suo sguardo si fermò nell’aria di fronte a sé, fino a che vide entrare nel campo della sua visuale una piccola ape che si posava bramosa sulla corolla di una viola, la cui crescita era stata fermata dall’inizio dell’asfalto.
Cominciò così ad intravedere quella che pareva l’unica soluzione possibile per il momento.
Avrebbe dovuto percorrere la strada fino a che non avrebbe intravisto qualunque segnale che potesse suggerirgli la presenza di una casa.
Un pensiero decisamente poco confortante.
Con un sospiro, guardò l’ape che con il suo movimento sbilenco si alzava in volo dal fiore e si inoltrava tra l’erba alta, sorvolandone la sommità.
Stava per girarsi ed iniziare la sua maratona personale e solitaria quando si bloccò, incuriosito.
L’insetto si era fermato proprio sopra le punte degli steli d’erba.
Rimaneva immobile, senza che il vento lo disturbasse. Era come se fosse appoggiato su qualcosa di solido.
Aguzzando la vista, e facendo più attenzione, poté infatti notare una sorta di incongruenza di colore in tutto quel verde, come se tra gli steli ci fosse qualcosa di bianco.
Incuriosito ed ispirato dal suo proverbiale sesto senso, appoggiò le valigie a terra e si inoltrò così in quella massa odorosa.
Spostando gli steli, sorpreso, si fermò ad osservare quello che sembrava proprio un cartello dalla vernice bianca scrostata, probabilmente a causa del tempo e delle intemperie.
Ma ciò che più attirò la sua attenzione era quello che vi era scritto sopra con uno stile fine ed elegante, per quanto poco leggibile fosse, seguito da una freccia rivolta alla sua sinistra.
“ Granger House, 3 KM ”
Il sorriso che gli affiorò sulle labbra l’avrebbe sicuramente fatto apparire ancora più inquietante di quanto già era, agli occhi di improbabili spettatori.
Con le membra più leggere fece dietro front, tornò alle valigie e le prese in mano, preparandosi a camminare sempre per tre chilometri ma almeno conscio di quello che lo aspettava.
Si girò a sinistra, e ringraziando mentalmente l’ape ed il suo istinto si incamminò seguendo il ciglio della strada.
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Caldo.
C’era molto caldo.
Con un sospiro sollevò il viso al cielo, per osservare la posizione del sole.
Da quanto poteva vedere dovevano mancare circa due orette a mezzogiorno, forse meno.
Ormai era più di un’ora che camminava, accompagnato solo dal rumore del vento tra le foglie e dal cinguettio di qualche sporadico uccellino, che, curioso di quella visita umana, faceva capolino da dietro qualche albero solitario tra la campagna.
Aveva caldo, era affamato ed aveva sete.
Molta sete.
Si fermò così per qualche minuto, il tanto di rifocillarsi un po’.
Non voleva frenare la sua camminata: prima sarebbe arrivato a Granger House, prima avrebbe cominciato ad adempiere alla sua “missione” – al pensiero fece una smorfia sarcastica – e prima sarebbe andato via da quella casa, per far ritorno ad Hogwarts.
Ma doveva fare una sosta, anche piccola, se voleva riuscire a rimanere sveglio abbastanza da iniziare l'esame.
Così, estratta la bacchetta dalla veste ed un suo guizzo, fece apparire una bottiglia di acqua fresca proprio davanti ai suoi piedi.
Mentre beveva in piedi, immobile in mezzo alla strada, guardò il sole.
Quel giorno faceva davvero caldo per essere fine ottobre.
Infatti se ne sorprese: l’Inghilterra, per quanto meravigliosa, non era certamente famosa per il bel tempo e la calura.
C’era qualcosa che non quadrava.
Non sapeva dire cosa di preciso, però lo sentiva.
Percepiva infatti come una sorta di interferenza in mezzo a tutta quella perfezione.
Un tipo di interferenza che poteva essere percepita solo da un mago.
Nell’aria aleggiava magia.
Non era localizzata in un punto preciso, come sarebbe stato se qualcuno avesse lanciato un incantesimo diretto su un punto particolare.
Era piuttosto…come una sorta di profumo diffuso, come un’essenza spalmata omogeneamente nell’aria circostante.
Un’essenza che sentiva provenire da tutto intorno a lui: l’erba, le piante, i fiori, gli insetti, gli alberi, la terra stessa, tutto.
Come se qualcuno avesse puntato la bacchetta in alto nel cielo ed avesse fatto esplodere da essa tutta la magia racchiusa nel proprio corpo, pronunciando un incantesimo che avrebbe potuto toccare ogni singola particella, molecola, atomo nel raggio di chilometri.
Nonostante questo capì che non era un tipo di interferenza che poteva dimostrarsi pericolosa.
Era strano…aveva già percepito una situazione simile, tempo addietro.
Quando era al servizio del Signore Oscuro.
Ma quella volta, l’aria che aveva respirato era satura di veleno.
Questa invece era piena di…sì, di vita.
Una sensazione davvero strana.
Come ipnotizzato, sbatté le palpebre più volte, riallacciandosi alla realtà.
Fatta sparire con un Evanesco la bottiglia, riprese in mano le valigie e ricominciò la sua scarpinata solitaria.
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Finalmente, dopo quelle che non gli parvero ore ma giorni, notò una variazione nel paesaggio.
Una variazione che poteva notare solo un occhio abituato a captare ogni minimo cambiamento.
Inizialmente risultava solo un piccolo rialzo del livello dell’erba, successivamente questa saliva sempre di più, fino ad essere sostituita da una fila di alberi, querce dall’aspetto, – le cui dimensioni suggerivano un’età quantomeno invidiabile persino per Nicolas Flamell – che proiettavano sulla sua testa la loro ombra come un favore, coprendolo dall’azione ribollente del sole, ormai quasi allo zenit.
Continuando a camminare notò che la fila di tronchi enormi nascondeva una sorta di muro di cinta, e conscio di essere vicino alla meta non si accorse di aver affrettato il passo.
Quando ormai si stava per chiedere se quel muro, oltre ad una altezza notevole, avesse anche una qualche sorta di varco, scorse ad una decina di passi proprio l’oggetto di quello che si stava per domandare.
Giunto davanti ad un cancello grigio scuro, che arrivava a metà del muro, non entrò subito.
Per quanto serbasse ancora una certa sicurezza nei confronti dell’inettitudine dei Grifondoro, compresi ex- Grifondoro, dovette ammettere il fatto che sicuramente la ragazza aveva posto delle protezioni attorno alla dimora.
E se qualcuno le aveva già violate prima di lui, le aveva anche presumibilmente ripristinate, per non destare sospetti.
Si chiese se ancora ci fossero in giro maghi con una tale accortezza dei dettagli.
E la risposta fu negativa, ovviamente.
Quindi la possibilità dell’operazione di salvataggio su cui la McGranitt aveva insistito non era neanche da prendere in considerazione.
Appoggiò i bagagli e, pescata la bacchetta, applicò veloce un “Wingardium Leviosa” agli stessi, in modo da non doverli trascinare ancora.
Tornando con l’attenzione al cancello, si preparò a combattere contro gli incantesimi di protezione, sicuramente massicci a causa della certa vastità della dimora.
Levò la bacchetta di fronte a sé e si concentrò cominciando a vagliare l’aura magica.
Non fece neanche in tempo a tentare di aprire il cancello che subito sentì una forza che contrastava la sua, con una potenza che rischiava di piegargli il braccio se non avesse avuto alle spalle una certa dose di esperienza.
Comprese che era un incantesimo di “Protego” particolarmente potente e scagliato in modo da ricoprire tutto il perimetro, senza lasciare varchi di alcun genere.
La concentrazione minore, si accorse, era proprio lì davanti al cancello, e se ne sorprese.
Nonostante tutto, gli bastò solo un movimento secco del polso, ed un contro incantesimo mentale, e sentì subito la potenza vacillare fino a svanire del tutto.
La ragazza avrebbe anche potuto impegnarsi un po’ di più, criticò mentalmente.
Con un cigolio, il cancello si aprì e mentre faceva qualche passo avanti, senza aspettare che le ante si aprissero del tutto, non poté fare a meno di inarcare un sopraciglio.
Rosso.
La prima impressione che ebbe fu di rosso.
Calore.
Tanto calore, e rosso.
Tanto rosso come non ne vedeva da anni, anzi no, come forse non ne aveva mai visto.
Tutto ciò su cui il suo occhio cadeva era colorato di rosso.
C’era tutto.
L’arancione chiaro delle foglie del grande acero alla sua sinistra, proprio dopo il cancello, faceva a botte quasi con il marrone scuro del suo tronco secolare, attorniato alla base da vari cespugli di rose canine; il marron glacè delle foglie dell’albero successivo, che non riuscì a classificare, posto qualche metro più in là del grande acero, poteva ben competere con il compagno; dietro di esso, proprio in mezzo ad un pezzo di prato, scorse un piccolo laghetto sui cui bordi erano poste delle pietre ovali e lisce a delimitarne il perimetro, e quasi non si accorse del rosso intenso di un notevole salice piangente poco più in là; tutto il vialetto su cui si trovava era ornato sui lati da gruppi di piante e di fiori che non si premurò di osservare più attentamente; il rosa intenso che coprì poi la sua vista gli fece capire subito che si trattava di una fila di alberi di ciliegio che si estendevano a destra e a sinistra, circondandolo, e rilasciando su tutto il vialetto piccoli petali rosa scuro, coprendolo come un tappeto regale fino alla casetta.
Questa era di modeste dimensioni, né troppo grande, né troppo piccola, in stile coloniale, di due piani e di un bianco fulgido sotto il sole di mezzogiorno, dei gradini in legno poco prima della porta completavano il quadretto: decisamente di stampa britannica.
A malapena si accorse di essersi fermato, e forse fu grazie al continuo sbatacchiare dei bagagli sulle sue ginocchia che si ricompose e percorse con passo sicuro tutto il vialetto, salendo silenziosamente i gradini.
Fermo di fronte alla porta, picchiettò due colpi sul legno scuro, ed attese.
Dopo qualche secondo, picchiò più forte, ma alla porta non venne ad accoglierlo nessuno, nemmeno un elfo domestico.
Con la coda dell’occhio notò un movimento proprio vicino alla sua testa.
Vide allora una sorta di cordicella di metallo che oscillava, la percorse con lo sguardo fino alla sommità e comprese che si trattava di una campanella rudimentale.
Si arrese a scuoterla.
Dopo che lo sbatacchio assordante finì, non sentì nessun suono provenire dall’interno: nessuna successione di passi, niente di niente.
Non intenzionato a rimanere lì per tutto il giorno, spinse la porta, bacchetta sempre nella mano destra.
L’ingresso della casa rimaneva un po’ in penombra, ma subito comprese a grossi linee come doveva essere strutturata la villa: alla sua sinistra, dopo un appendiabiti dall’aria piuttosto antica ed un tavolino lucido a mezzaluna, era situata una porta scorrevole, da cui filtrava la sola luce ad illuminare il tutto, probabilmente la cucina; il muro continuava fino ad un’altra porta che gli si parava di fronte, e sempre davanti a lui, sulla destra, un gran tappeto ricopriva tutto il parquet fino alle scale dal corrimano elegante, che si aprivano su un corridoio del piano superiore, completamente in ombra.
Infine, alla sua destra, si incastonavano nel muro altre due porte.
Tutto permeava nel silenzio più tombale.
Accigliandosi notò un particolare che di solito non ci sarebbe dovuto essere in una casa vissuta: tutte le porte della dimora erano chiuse.
Riflettendo sulla stranezza della cosa, arrivò chiaro al suo orecchio destro un movimento, quasi un fruscio da spostamento, che sembrava provenire proprio dalla prima porta sulla destra, oltre il portaombrelli dalla forma criticabile.
Veloce, spezzò l’incantesimo precedentemente applicato ai bagagli, e si accostò al muro.
Appoggiò l’orecchio al legno freddo ed attese.
Nessun rumore.
Sicuro di non esserselo inventato, aprì veloce la porta solo quel tanto che bastava a farlo passare e sgusciò all’interno della stanza, bacchetta spianata, nervi tesi, sensi all’erta, pronti a scattare.
Rimase interdetto di fronte alla vista di un normalissimo salottino stile ottocento.
Non si prese la briga di perdere tempo sull’ arredamento.
Molto lentamente percorse pochi passi, quasi in attesa di qualcosa.
Un qualcosa che non si fece aspettare.
Un rumore chiaro, lo stesso fruscio di poco prima veniva esattamente dalla stanza affianco, in cui ci si immetteva probabilmente tramite la porta posta in fondo alla stanza sul lato.
Aveva mosso solo qualche passo quando dall’apertura uscì come una razzo una macchia indistinta che all’inizio non riuscì a catalogare.
Solo dopo uno stridio comprese che si doveva trattare di un gufo.
Lo cercò con lo sguardo e, nonostante le dimensioni alquanto minime, lo scorse appollaiato sulla cima di una credenza dall’aria antica, posta proprio al fianco della porta da cui era schizzato fuori.
Non abbandonò la possibilità che fosse stato un semplice diversivo per distrarlo e, così, mosse lentamente alcuni passi, completamente padrone di sé stesso e della situazione, aspettandosi da un momento all’altro un qualche tipo di attacco.
Mentre i suoi passi strisciavano sul pavimento il cervello percepì un differenza.
Una differenza che gli faceva rizzare i capelli sulla nuca.
Non comprese subito in cosa consisteva, ma c’era.
Si fermò.
Tutto era silenzioso come prima.
Aggrottò le sopraciglia.
Anche se metà della sua testa teneva sempre sotto tiro la porta ancora un po’ lontana, l’altra metà era impegnata a comprendere dove fosse la nota stonata.
Con la coda dell’occhio cercò di sondare la stanza, alla ricerca di un indizio.
Un tavolo a destra, una credenza di fronte, un tavolino tondo a sinistra con davanti un divano beige: semplice arredamento da salotto.
Tutto normale.
Strinse le labbra e continuò a camminare.
Proprio quando fece altri due passi, finalmente capì.
Era il suono.
Era il suono dei suoi passi ad essere differente.
Prima era silenzioso, ora era completamente silenzioso.
Non si sentivano più i suoi passi.
Confuso dal repentino ed insensato cambiamento, stava per abbassare istintivamente lo sguardo ai suoi piedi, quando un rumore dietro di sé lo bloccò. Era stato un minuscolo scricchiolio delle assi, un naturale crepitio del legno in una casa fatta di legno, talmente minuscolo da passare inosservato tra il frusciare delle foglie di fuori e l’incedere del vento sulle finestre.
Davvero insignificante.
Ma solo per un orecchio non abituato a cogliere i dettagli e la pericolosità di trascurare gli stessi.
Una parte del suo cervello, quella analitica e perennemente diffidente, quella che lo aveva sempre accompagnato, gli urlava che forse era solo un modo ignobile e codardo per distrarlo e colpirlo alle spalle non appena si fosse girato.
Ma il suo istinto, quello che gli aveva salvato purtroppo tante volte la vita o comunque l’integrità del suo corpo, gli sussurrava frenetico che sarebbe stato molto più pericoloso continuare verso quella direzione.
Decise di dare ascolto alla seconda opzione, e mosso dall’istinto si girò, intenzionato ad approfittare della momentanea quasi totale assenza di rumore dell’andatura.
Non aveva mosso neanche due passi che sentì un cambiamento repentino.
All’ improvviso il pavimento sottostante pareva più molle, più inconsistente, ed inspiegabilmente i suoi piedi non riuscivano a trovare un appoggio sicuro sull’unico posto in cui avrebbero dovuto trovarlo, e tutto attorno a lui prese a muoversi incomprensibilmente, in un turbinio di mobilio e di carta da parati.
Sentì qualcosa di freddo strisciare sulle sue caviglie e guardando in basso, sorprendentemente comprese che era il pavimento che si era improvvisamente animato.
Il parquet era inspiegabilmente divenuto molle, e si stava attorcigliando alle sue gambe, come avesse volontà propria.
Sempre più sorpreso, puntò la bacchetta contro la confusione marron scuro, che oramai era diventato il pavimento, ed urlò mentalmente “Protego!”, con una potenza che avrebbe certamente aperto una voragine nel legno.
L’avanzamento del pavimento-cosa non ne accusò per niente il colpo, probabilmente non lo sentì nemmeno, e ciò lo sorprese ancora di più.
Provò quindi un altro incantesimo più potente, che non usava mai se non in casi rari, ed urlò ancora: "Repello!", ma niente.
Pensando che fosse simile al Tranello del Diavolo, tentò con l’incantesimo apposito per la pianta, evocando una fonte di luce che andò a colpire direttamente la “cosa” legata alle sue gambe.
Il pavimento-cosa sembrò avere un tentennamento, ma dopo un attimo continuò la sua operazione di avvolgimento, ormai era arrivato alle cosce, si allungava sempre di più, come fosse fatto di gomma, e sembrava intenzionato a finire l’opera: se non l’avesse fermato sarebbe morto soffocato.
Digrignando i denti per la frustrazione, istintivamente, tentò di muoversi.
Sbagliato.
Dopo un momento di perfetta immobilità, la “cosa” si mosse addosso a lui ancor più velocemente.
Tutto era privo di senso in quel frangente e, cercando un minimo di lucidità, tentò di fare qualcosa che di lucido aveva ben poco, ossia acchiapparsi all’unica cosa cui si poteva acchiappare: l’aria.
Mulinò le braccia e, prevedibilmente, perse l’equilibrio.
Si vide cadere in avanti, ormai i piedi erano inutilizzabili, comprese le gambe, ed istintivamente portò le mani davanti a sé, per attutire l’impatto con il pavimento e nel farlo gli scivolò la bacchetta dalle mani.
Ringhiò di rabbia.
Mentre le sue mani toccavano il pavimento, sorprendentemente solido ed al tempo stesso “spugnoso”, guardò la sua bacchetta volteggiare nell’aria ed atterrare qualche metro davanti a lui.
Non era risultata molto d’aiuto fino a quel momento, tuttavia comprese che il problema non stava nell’asticella, ma in sé stesso.
Nonostante ciò, qualora gli fosse venuto in mente qualche incantesimo utile, non avrebbe potuto fare molto senza bacchetta.
Si allungò sul pavimento e tentò con la destra di prenderla.
Come se avesse sentito i suoi pensieri, o avesse capito in qualche strano modo le sue intenzioni, la “cosa” affrettò la sua opera, ed anzi, avvolse completamente nella sua stretta il busto e le mani, bloccandolo.
Comprese, così, di non avere più possibilità.
Sentiva il pavimento-cosa che gli strisciava addosso come un serpente, la cui bocca si stava lentamente avvicinando alla sua gola.
Con un rantolo, non poté fare a meno di dibattersi.
Supino sul pavimento, aveva una sola visuale: il bordo inferiore della porta da cui era entrato.
Osservandolo, vide, come fosse stata una cosa vista da un’altra persona, ciò che poteva vedere da quel livello oltre l’uscio.
Anche se entrando gli aveva dato un’occhiata di qualche secondo ed anche se i capelli gli coprivano un po’ la visuale, riconobbe il rigonfiamento del tappeto posto proprio davanti alla scala, e più in là la porta scorrevole della cucina.
Fu così che notò un particolare strano.
Rallentò la sua folle ed impari battaglia contro la “cosa” fino a fermarsi del tutto, e sbatté le palpebre sugli occhi, pensando di avere la vista annebbiata.
L’immagine della porta della cucina che gli arrivava agli occhi era…nebulosa.
Come se tra lui e la porta fosse stato posto un vetro ammaccato, o non perfettamente pulito.
Aggrottò, se possibile, ancor di più le sopraciglia, e concentrandosi vide di fronte a sé una zona scura, che partiva dal di fuori della porta e raggiungeva parte del pavimento di fronte a sé, come se al di là della stanza proprio di fronte a lui, ci fosse un oggetto solido.
Sembrava proprio…
Non ebbe neanche il tempo di pensare ad una mossa, che la porta, come previsto, si aprì di scatto, rivelando però al di là di essa nient’altro che l’ingresso in penombra.
Ma sapeva già cosa guardare e sapeva già cosa aspettarsi, e non avrebbe mai dato la soddisfazione di vederlo impaurito.
Che venissero pure!
Finalmente avrebbe avuto ciò che sarebbe dovuto arrivare tanto tempo prima!
"Stupefi…!"
Non comprese perché ma la voce che sentì non era quella che si aspettava.
Non era rude e roca, come quella di un maledetto fan delle forze oscure, piuttosto era…melodiosa.
Stranamente in ansia, attese che la voce finisse di scagliare l’incantesimo.
Ma non lo fece.
Rimase un po' interdetto.
Ma ancora più interdetto lo lasciò ciò che successe dopo.
Di colpo apparve davanti a lui il proprietario della voce – si rifiutava di pensarla di nuovo come melodiosa – che si era nascosto sotto l’incantesimo di disillusione.
E di colpo comprese che era tutto fuorché ciò che si aspettava.
Un donna.
E non una donna qualsiasi.
Una donna che ora lo guardava con una palese espressione di scherno e di pietà dipinta negli occhi e sul viso.
"Buon giorno, Professor Snape."
Più precisamente, la donna che assomigliava terribilmente a quella per cui aveva scarpinato per ore e per cui ora si trovava avvolto nel pavimento-cosa alla stregua di un cotechino ripieno.
Ancor più precisamente, Hermione Granger.
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Per un interminabile istante si guardarono negli occhi, incapaci di proferir parola.
Sapeva che doveva dire qualcosa.
Qualsiasi cosa.
Anzi no, non qualsiasi cosa.
Decisamente, qualora qualche malaugurato mago o strega si dovesse trovare davanti la persona, l'unica, che era tornata, e per cui aveva contribuito, non potrebbe davvero dire qualsiasi cosa.
Rovistò quasi freddamente nella parte del proprio cervello dedicata alla memoria.
"Potrei sapere come mai è qui, Professore?"
"Crede che possa essere in grado di sentire la mia risposta dall’interno di questo adorabile pavimento trita-maghi? Perché se la risposta è sì, allora vorrei attendere ancora qualche secondo, per testarlo immediatamente"
Aveva parlato con tono calibrato, che non avrebbe stonato per nulla in una serata tra amici e burrobirra.
Hermione si era quasi dimenticata dell’effetto che quella voce perentoria e sarcastica poteva avere, persino mentre il suo possessore era steso a terra, immobilizzato, lo sguardo truce tra i capelli scompigliati, in una condizione che avrebbe provocato sicuramente imbarazzo e vergogna in chiunque.
Ma non in Severus Snape.
Si accorse anche che si era completamente dimenticata della presenza di quel tappeto e soprattutto della sua azione di inglobamento, che non si era per nulla arrestata, ma solo rallentata.
"A quanto posso notare la risposta che non riesce a dire è sì."
Davanti all’irritante sopracciglio inarcato dell’uomo, soppesò per un nanosecodo la possibilità di farlo inghiottire e di assistere all’operazione.
Ma il suo buonsenso prevalse, come sempre.
Pensò così a quello che le serviva.
Si guardò attorno e vide all’angolo alla sua destra, attaccata al muro vicino alla finestra, quello che stava cercando: una lampada da parete che, restando perennemente esposta alla luce del sole, aveva assorbito, grazie a lei, la luce solare.
Con un cenno della stecca fece schizzare verso di sé un ammasso globulare di corposa luce che brillava come un sole in miniatura in mezzo alla stanza buia; frenò la sua corsa e, sotto l’attento esame di Snape, la fece avvicinare al tappeto, in prossimità della sua schiena.
Subito, come si aspettava, la morsa del tappeto si allentò visibilmente.
Ciò che serviva però era una luce più potente.
Perciò dopo aver mormorato piano “Maiorius”, avvicinò ancora di più la fonte di luce improvvisamente dieci volte più intensa, tanto che dovette socchiudere gli occhi, fino a farla appoggiare alla superficie del tappeto.
Immediatamente questo sciolse la sua stretta, come fosse stato scottato, e ritornò alla sua consueta forma piatta, immobile, come se nulla fosse successo.
Con un ultimo cenno, riposizionò l'ammasso al posto d'origine.
Finalmente libero, vide Snape alzarsi in piedi.
Mentre lo faceva si sistemò il mantello e si lisciò le vesti, per poi alzare gli occhi verso di lei.
Il suo sguardo la percorse completamente, dai piedi – lo vide indugiare sulla bacchetta che teneva ancora in mano – fino agli occhi.
In piedi, uno di fronte all’altro, si scrutarono a vicenda, simili a due animali selvatici costretti a stare chiusi in gabbia insieme.
Finalmente aveva davanti il risultato dei suoi sforzi.
Era incredibile.
Rabbrividì al pensiero di avere di fronte a lei, solo a qualche passo di distanza, proprio la persona che era "tornata".
La sola che era tornata dall’unico regno incontrollabile per i vivi.
Lì, in piedi al centro del suo salotto, tra la poca luce che filtrava attraverso le tende abbassate, la sua figura nera si stagliava alta e longilinea, avvolta completamente dal mantello che teneva con una mano: sembrava davvero appena sbucato dalle viscere della terra, immobile e fiero.
Quella visione non rendeva per niente poco credibile il fatto che fosse stato nel regno dei morti.
Il suo sguardo scuro e profondo negli occhi dal taglio allungato, sembrava racchiudere segreti troppo aspri e abominevoli per poterli anche solo sussurrare, mostrava tempo trascorso, tanto tempo, così tanto da renderlo stanco e provato, saggio e custode unico di pensieri ed esperienze, tanto stanco che sembrava volesse, suo malgrado, dirle qualcosa.
Quello era lo sguardo di un rinnegato.
Fu quel pensiero a farla parlare in un sussurro.
"Come può notare, la mia risposta è no… "
"Sì…ho notato." Continuava a scrutarla, come se la vedesse per la prima volta nella sua vita. Era forse curiosità?
La sua voce aveva perso quella nota sarcastica che aveva sentito poco prima.
A quanto pareva, non era l’unica che aveva sentito la pesantezza del momento.
Tutti e due non si erano ancora mossi di un solo millimetro, tuttavia si costrinse a schiudere le tende accennando un movimento del polso, e facendo entrare finalmente il sole pomeridiano, che le fece socchiudere gli occhi appena.
Tutto divenne molto più chiaro e non solo in termini di colori: le ombre si ritirarono negli angoli, e persino la figura di Snape non sembrava poi così inquietante, colpita dai raggi solari.
O forse no.
L’improvvisa incursione della luce smorzò comunque di netto la tensione, come se, al pari di un risveglio da un sogno angosciante, le tenebre venissero scacciate con il solo incedere della luminosità.
Sperò che contemporaneamente le snebbiasse anche la mente, in modo da poter fare qualcosa.
In quel momento avrebbe accettato persino qualcosa di molto stupido e totalmente fuori luogo, al diavolo le precauzioni-ex-morto-in-salotto.
"Bene, allora mi segua in cucina."
Ecco, accontentata.
Girò sui tacchi ed uscì dalla stanza.
Aveva bisogno di tè.
Tanto tè.
Non osava girarsi per vedere se effettivamente la stesse seguendo.
Spinse la porta della cucina, ed una volta dentro si diresse alla famosa mensola risolleva-umori, e quando non sentì nessun rumore di porte che si aprivano o di passi si concesse di fare un gran respiro, rilassando le spalle fino ad allora rigide.
Chiuse gli occhi e cercò di non pensare al fatto che la sua giornata tipo aveva appena variato il programma quotidiano, e soprattutto tentò in tutti i modi di non pensare al fatto che nel suo salotto, in quel preciso momento, c’era Severus Snape.
Ma il fatto che la sua immagine le apparisse persino ad occhi chiusi, come fosse stata incollata sulle sue palpebre, certamente non aiutava.
Dopo averli aperti si allungò per prendere il necessario per un tè doppio.
O triplo.
"Gradirebbe del tè…?!"
"Mi ero scordato che i Grifondoro hanno il maldestro vizio di urlare."
Hermione si girò di scatto, quasi lasciando cadere la sua tazza.
Vicino al tavolo, Snape la osservava apparentemente annoiato.
"Ma come…?", sussurrò indicandolo con la tazza.
Anche se non aveva completato la frase, troppo sorpresa per farlo, lui doveva aver comunque inteso.
"Non si è accorta che le stavo camminando proprio dietro?"
Il suo sguardo parve suggerirgli la risposta.
"A quanto pare no."
"Ma la porta non l’ha spinta, l’avrei sentita."
A quella frase, credette di aver notato un leggero scatto del sopraciglio sinistro.
"Se mi sta chiedendo se sono in grado di passare attraverso i muri, o sgusciare sotto le porte in forma di nebbia, mi spiace deluderla, signorina Granger."
Acido ed inutilmente elaborato nelle risposte.
Un sì/no/forse/probabile per lui erano troppo difficili.
Non era cambiato per niente.
"Già, ma ci è andato vicino, a quanto sembra.", borbottò mentre gli dava le spalle.
Continuò ad accatastare sul marmo il necessario, non voleva usare la magia, aveva bisogno di muoversi.
Solo quando si accorse di stare aprendo troppe mensole e cassetti per un semplice tè, decise che era tempo di voltarsi.
Portò il tutto sul tavolo e si sedette.
Solo dopo aver preso la sua tazza alzò lo sguardo davanti a sé, fino ad incrociare i suoi occhi scuri che la studiavano.
Così vicini, e sotto la luce, notò come il tempo fosse stato magnanimo con il suo viso.
La pelle chiara era sorprendentemente stesa, con pochi segni dell’età, e, tuttavia, gli angoli della bocca leggermente piegati all’ingiù, il naso affilato un po’ pronunciato, e gli zigomi alti gli conferivano una saggezza che sarebbe dovuta trapelare dal viso di un uomo di almeno dieci anni in più.
"Ora che è miracolosamente salvo dal tappeto assassino, mi potrebbe gentilmente spiegare cosa ci fa qui?"
Aveva parlato con molta calma, ed aspettava una risposta mentre sorseggiava il tè.
Lui sembrava non essersi reso conto della provocazione perché qualcosa in ciò che aveva appena detto aveva suscitato il suo interesse, dato il sopraciglio inarcato.
"Tappeto?"
Questa volta fu lei ad essere interessata.
Possibile che il grande Severus Snape non sapesse cosa lo avesse attaccato poco fa?
"Sembrava decisamente un pavimento.", obbiettò lui.
"Esatto, Professore, un tappeto. Non si è accorto che il “pavimento” su cui ha posato le mani era alquanto morbido?"
Questa volta toccava a lei.
"A quanto pare no."
Lui la guardò tranquillo, come se neanche si trovasse in quella stanza, indifferente.
"A dire la verità sì, signorina Granger, ma la mia mente era molto più interessata a quello che stava facendo piuttosto che alla sua consistenza.", finì la frase aggiungendo un po’ di latte alla bevanda.
"Già, una bella qualità per un tappeto non crede?"
Non sapeva come procedere, e decise così di continuare come se lui fosse sempre rimasto vivo, e come se lei non avesse mai fatto in modo che tornasse.
Una insistente vocina dentro di lei, fastidiosa e irritante come pus di bubotubero in parti non esposte al sole, si fece sentire.
Codarda.
"Come mai risulta invisibile?"
Il suo tono era cambiato, non si poteva definire gentile, ma era garbato, controllato.
Era curioso.
Ovvio.
Il grande Severus Snape, in grado di sostenere perfino lo sguardo di Voldemort, sconfitto da un semplice tappeto.
Decise di accontentarlo, poi sarebbe stato il suo turno per le risposte.
D'altronde chi era lei per dirgli di no?
Bugiarda.
"Un’altra qualità interessante per un semplice tappeto. Non so molte cose, a dir la verità, non era della mia famiglia, un po’ improbabile visto che provengo da famiglia Babbana. Mi è stato regalato da una vicina di casa con cui avevo stretto un bel rapporto, e poco prima di morire insistette per darmelo, mi disse che apparteneva alla sua famiglia da generazioni, e che era stato fabbricato dagli elfi nel lontano 1476, in Romania. Questa data le ricorda qualcosa per caso?"
Mentre parlava aveva notato come lo sguardo di lui risultasse interessato, soprattutto all’ultima parte.
"Direi di sì. E’ l’anno in cui morì Vlad Tepes II l’Impalatore, conte di Valacchia, meglio noto come Dracula sia nelle leggende Babbane che nella realtà magica. Un uomo decisamente avvezzo a strani hobby, come il soprannome suggerisce."
Hermione si aspettava che avesse le sue stesse informazioni.
Aveva pensato molto ad esse, riflettendo sui possibili legami, e, nonostante le poche informazioni che la sua vecchia amica le aveva lasciato, era giunta alla conclusione che quella non era una data qualsiasi.
Era la data in cui era stata creato l’essere più abominevole sulla faccia della terra, dopo Voldemort.
Era l’anno in cui il più grande male della storia dell’Europa del medioevo aveva ripreso vita, in una forma ben più pericolosa di quella umana.
Ed il fatto che quel particolarissimo tappeto fosse stato intessuto proprio in quell’anno di grandi cambiamenti, non poteva essere una semplice coincidenza.
"Avrei un’idea proprio su questa strana coincidenza di date."
Fece una pausa per riordinare le idee. Lui, per appesantire l’operazione, non smise di fissarla, ed osservando la sua espressione di profondo interesse dipinta sugli occhi capì che l’aveva praticamente in pugno.
Non sapeva se il fatto che un pazzo sanguinario e spostato mentalmente fosse così interessante per lui potesse essere trascurato oppure dovesse accendere in lei una campanella d’allarme.
"Nella metà del ‘400 abbiamo un pazzo degenerato con la deliziosa abitudine di impalare i suoi sudditi ed i suoi nemici, che terrorizza non solo la sua popolazione ma persino molte parti dell’Europa, e la cui fama e ferocia è conosciuta persino nella lontana Inghilterra, incredibile dati gli arretrati mezzi di comunicazione dell’epoca… "
"Mi risparmi l’elenco di notizie storiche che tutti sanno o che si possono comunque procurare, Signorina Granger."
Insopportabile.
Soprattutto il suo sorseggiare compostamente e con molta non chalance il suo tè, come fosse stato seduto a disquisire sulle innumerevoli qualità di un nuovo detersivo magico.
Ma decise di non dargli peso, voleva continuare e sentire il parere di una persona molto preparata e dalla mente analitica e razionale come la sua.
"Sappiamo bene che quella è sempre stata una zona altamente concentrata di maghi e streghe, ma ancor di più lo era in quel terribile periodo di paura e terrore. E tutti, tutti, avevano sentito girare strane voci sulla natura del conte. Sì, questo allarmò ed insospettì i Babbani, ma queste voci rimasero tali per loro: solo voci. Invece per gli appartenenti al mondo magico…beh, erano molto più che innocue superstizioni popolari. Sapere che un mago, tra l’altro già potente di suo, aveva venduto la propria anima portò tutti i maghi ad armarsi, organizzarsi per preservarsi, procurandosi i migliori strumenti…oppure creandone di nuovi.", concluse alzando un sopraciglio per dare più enfasi al discorso.
Il suo sguardo non aveva mai lasciato quello di lui, ed ora tutta l’ironia e l’arroganza avevano abbandonato entrambi per essere sostituite da attenzione e perplessità. La luce mattutina che filtrava dalla finestra sì affievolì, probabilmente per il passaggio di qualche nuvola, lasciando la cucina in una sorta di abbraccio tra la luce e l’ombra, una su lei, e l’altra su lui.
"Mi faccia capire bene, Signorina Granger, lei crede che quel tappeto, esattamente il tappeto che ora si trova nel suo salotto, sia stato creato apposta come arma di difesa contro Dracula?", esordì accompagnando la frase con un movimento elegante della mano, come a voler indicare qualcosa di altamente ridicolo.
Merlino.
Sembrava di nuovo una scolaretta di sedici anni alle prese con l’acidità di un professore troppo scorbutico.
Raddrizzò la schiena sulla sedia ed allargò le narici.
"Sì, comprendo che sembra alquanto azzardato come discorso, soprattutto contando la mancanza ingente di testimonianze o documenti a riguardo, ma provi a pensarci un attimo, in Romania gironzola un vampiro appena nato, e proprio nell’anno in cui nasce viene creata un’arma che è stata palesemente progettata per catturare la malignità e…?"
Si fermò di colpo, e sgranò gli occhi.
Solo dopo che aveva finito di pronunciare l’ultima parola, capì l’entità di cosa aveva detto: aveva davvero appena paragonato Dracula a Snape?
A giudicare dalla sua espressione sì.
Snape ora la stava guardando con palese interesse, a giudicare da entrambe le sopraciglia inarcate.
Ma se non sbagliava a decifrare il suo sguardo, non sembrava offeso o infuriato.
Sembrava piuttosto…strano?
Nella foga della spiegazione non si era resa conto di come i suoi pensieri non venissero filtrati affatto dalla sua mente.
Si mosse a disagio sulla sedia, come se avesse una fastidiosa pustola esattamente sul sedere.
E questo ultimissimo pensiero non la aiutava per niente ad uscire dalla fossa che lei stessa si era scavata.
Dracula, Snape, pustola, sedere, fossa.
A stento trattenne una risata che avrebbe aggravato ancor di più la situazione.
In compenso uscì solo un piccolo sbuffo.
"Ecco, non volevo certamente, sì insomma, non avevo nessuna intenzione di… ".
Cosa? Stava balbettando?
"Non aveva intenzione di far cosa, Signorina Granger? Di paragonarmi palesemente a Dracula?"
Le sue sopraciglia erano ancora in quella posizione, ed avrebbe quasi giurato di aver intravisto una sorta di movimento improvviso nell’espressione.
Non sembrava risentito, ma non si poteva definire divertito, era solo…strano.
"Io...sì, esattamente."
"Ma è ovvio, anche perché se davvero così fosse probabilmente non sarei neanche riuscito ad arrivare fin qui sotto il sole."
Il suo tono strascicato ed annoiato era davvero rimasto lo stesso. Proprio come se lo ricordava.
Tuttavia il suo cervello registrò particolarmente l’ultima parte.
Aveva camminato?
"E’ arrivato fin qui a piedi?"
"Signorina sembra quasi che lei abbia una certa simpatia per l’ovvietà. Certo che no, la materializzazione esiste ancora per la fortuna di noi maghi. Ho compreso comunque quello che intendeva.", nonostante non la stesse guardando mentre si versava altro tè tra gesti controllati, l’aveva interrotta ancora prima che potesse chiedere altre spiegazioni.
"Ho dovuto solo camminare per qualche chilometro. Tutto causato da un semplice", prese di nuovo la tazza nelle mani ed alzò lo sguardo su di lei, "malinteso sull’ubicazione." e finì sorseggiando di nuovo il tè.
Le sembrò che la sua mano stringesse anche più del necessario la ceramica.
Prima o poi avrebbe chiesto a Minerva.
"E come mai voleva a tutti i costi raggiungere la mia casa?"
Ringraziò il cambio di argomento.
"Ordine della Preside."
Conciso alquanto.
Troppo.
Si stava scocciando, sembrava dovesse togliergli con le pinze informazioni che avrebbe dovuto darle fin dall’inizio e senza tutta questa reticenza, e soprattutto senza che lei sembrasse una bambina impaziente.
"Vedo che col tempo è divenuto meno pedante, professor Snape, e per quanto la cosa mi faccia piacere, le sarei grata se evitasse che la incalzi per sapere cose che dovrebbe dirmi senza le mie continue domande, è mio diritto, non trova?"
Il silenzio che seguì, la sorprese.
Credeva che il suo tono avrebbe provocato una serie inimmaginabile di sproloqui.
Ed invece lui si limitò a fissarla immobile, schiena eretta, braccia nascoste sotto il mantello, e sguardo indecifrabile.
Sembrava stesse quasi aspettando, come se vedesse qualcosa al di là di lei stessa che lei per prima non riusciva a vedere.
Come se la stesse sondando.
Il rumore della sedia che striscia, una figura nera che si muove.
Si stava alzando?
"Minerva temeva per la sua incolumità, dato che non ha ancora risposto alla sua lettera, inviata da due settimane ormai, mi ha così incaricato di venire per accertarmi che non le fosse successo nulla."
Si mosse verso la porta, e seguendolo con lo sguardo vide che poco prima di aprirla si fermò, parlando dandole le spalle.
"Mi ha anche incaricato di alloggiare per tre giorni da lei, in modo da poterla preparare all’insegnamento, qualora trovassi delle lacune, cosa che non mi sorprenderebbe affatto. Ora se permette, andrei a riposarmi per qualche ora nella camera degli ospiti, non si disturbi, saprò trovarla da solo. Cominceremo di pomeriggio, dopo pranzo, in modo da finire in tempo per il ritorno il giorno prima di Halloween, la pregherei quindi di presentarsi in una veste migliore e più consona all’evenienza. Buon pranzo."
Detto questo, con un movimento fulmineo del mantello sparì dalla sua vista, tanto velocemente che quasi non riuscì a notare la frazione di secondo in cui aprì la porta e la richiuse.
Lei rimase lì, esattamente nella stessa posizione che aveva quando lui si era alzato: mano destra in procinto di portare la tazza al viso, cucchiaino nell’altra, e due domande fondamentali nella testa.
Cosa diavolo era successo esattamente?
E perché mai tutto questo, visto che, se non era totalmente impazzita, aveva inviato proprio il giorno prima una missiva ad Hogwarts?