Note alla storia
La storia è ambientata in sostanza tra la caduta di Voldemort e i diciannove fatidici anni dopo. Ai giorni nostri, per la precisione.Ma, del resto, non è che importi proprio tantissimo, visto che i personaggi saranno tutti nuovi di pacca... quasi tutti, e quei pochi del canon originale... be', diciamo solo che di solito non se li fila assolutamente nessuno!
Enjoy!
Quasi.
Gwendolyn Fitzgerald, in piedi davanti all'ingresso, osservava il salotto e quella singola, banale parola le rimbalzava nella testa.
Quella era quasi una casa. Una mansarda di forse trenta metri quadri, con una sola finestra ad abbaino sul soffitto spiovente, un camino pieno di fuliggine, una cucina incastrata dietro la porta e un bagno in cui si poteva stare seduti sulla tazza e farsi la doccia contemporaneamente. Anche non volendolo, visto che il rubinetto perdeva.Sotto lo strato di cartoni di pizza abbandonati, lattine schiacciate, cartacce, piume di gufo, cacche dello stesso animale e libri e fogli sparpagliati c'era davvero un letto. Forse. Gwen non ne era neanche più così sicura.Con un sospiro appoggiò a terra le due borse della spesa. Quasi vuote, anche quelle. Quattro mesi di disoccupazione totale, una testa troppo dura per chiedere aiuto ai genitori e qualche pretesa di troppo comportavano diversi inconvenienti.Da sotto un cuscino sporco di gelato provenne un borbottio offeso.
Gwen abbassò la mano che stava per afferrare la maniglia semistaccata del frigorifero e si voltò; un calcio al cuscino, e il borbottio divenne un tubare più convinto.“Dannazione, Winston! Era l'ultimo cuscino sano che mi rimaneva!” sbuffò. Winston, una civetta bruna dall'aria perennemente stupita, ruotò il capo rotondo e frullò le ali, buttando in giro un po' della gommapiuma che aveva accuratamente scavato a crearsi un rifugio.“Immagino non siano arrivati gufi per me, giusto?” chiese, voltando le spalle al volatile. L'unica risposta fu un “Hooot!” soffocato dall'imbottitura del cuscino.
Gwen curvò le spalle e tornò alla sua occupazione. Mise nel frigorifero qualche latta di fagioli, delle scatolette di tonno di marca “Tonno” (le più economiche, al discount mica si possono avere pretese!), qualche uovo e una bottiglia di latte; una confezione gigantesca di biscotti dall'aspetto stantio persino sulla foto pubblicitaria trovò posto nell'anta sopra al fornello.
Il fruscio della carta spaventò parecchi scarafaggi che fuggirono nell'ombra.
Gwen strinse gli occhi e arricciò il naso. Va bene, lei adorava gli animali, tutti gli animali... erano la sua ragione di vita e, in teoria almeno, la sua materia di studio. Però gli scarafaggi erano davvero troppo.
A conti fatti, quella somigliava sempre meno a una casa. Era quasi una topaia.Quasi, appunto. Una sola parola che poteva descrivere tutto, nella vita recente di Gwendolyn.
Estrasse la bacchetta e sussurrò cupa: “Gratta e netta!”.L'incantesimo rimosse qualcosa della sporcizia più evidente: i cartoni della pizza e le lattine volarono nel cestino dei rifiuti, qualche macchia svanì. Il divano-letto sfondato era comunque grigio e deprimente, anche senza l'”hoot! Hoot!” di Winston nel suo cuscino.
Con un calcio Gwen si tolse le vecchie Clark's consumate e si sedette a terra, la schiena contro il divano. Attirò a sé un posacenere con la bacchetta -pigrizia su tutta la linea- e si accese una sigaretta.
Quasi.
Una ragazza quasi carina, con gli occhi quasi verdi (tipo il vomito fresco, per intenderci, o il fango di palude) e quasi le lentiggini. Il naso? Quasi carino, certo, ma tragicamente a patata. Almeno quella conformazione impediva agli occhiali di scivolare oltre la punta. Quasi magra, ma non proprio, quasi ben fatta se non fosse stato per i fianchi larghi e le cosce stile cotechino. I capelli, almeno loro, erano meritevoli di aggettivi definiti: decisamente ricci, decisamente rossi, decisamente troppi e indisciplinati.
Non che il resto fosse meglio, comunque: Gwen aspirò una boccata di fumo e si afflosciò in avanti, la fronte appoggiata alle ginocchia. Gli occhiali, prevedibilmente, scivolarono fino alla punta del naso.
Erano passati cinque -no, ormai sei- anni da quando aveva finito Hogwarts; aveva trovato un lavoro serio? No. Cioè, quasi: lavori carini, interessanti, sistematicamente malpagati, che la tenevano occupata per cinque o sei mesi per poi farla ripiombare nel nulla più totale.
Prima i draghi in Irlanda del Nord, poi quell'affascinante stage per studiare la fonetica delle sirene, poi... be', un sacco di progetti di ricerca. A termine. Belli e inutili.
E dire che se avesse deciso di lavorare al San Mungo non avrebbe avuto problemi, con due genitori Guaritori di buon livello. Probabilmente, a ventiquattro anni si sarebbe trovata già bell'e sposata, con qualche pargolo forse e certamente una bella casa col giardino, non quel buco in una zona pure malfamata della Londra Babbana. E magari avrebbe avuto un bel cane e non una civetta socialmente discutibile.
Di sicuro avrebbe avuto un marito.
Un altro quasi della sua vita.
Sull'onda di quella profonda riflessione sulla sua vita Gwen rialzò la testa e guardò la foto sul comodino. Donald, il suo quasi ragazzo. Quasi lo era solo da qualche mese; per un anno e mezzo era stato davvero il suo fidanzato. E poi... aveva deciso di non essere poi così innamorato.
Sono un'idiota, si disse Gwen osservando quel volto con un'ombra di barba e i riccioli da cherubino che la guardava ammiccando dalla foto.
Una gran rabbia la invase. Stava per farlo, per prendere una decisione netta, decisa, per troncare e...
Wooosh!
Una fiammata verde illuminò l'angolo più lontano della stanza. Tra le fiamme del camino sorrideva il viso lungo e pallido di una ragazza dai capelli neri.
“Buongiorno bellezza!” trillò.
“Oh... ciao, Juliette!” rispose Gwen, alzandosi e andando a inginocchiarsi vicino al parascintille. “Come stai? Tutto bene a Hogsmeade?”
Juliette si scostò una ciocca liscia dalla fronte.
“Credo di sì, ma non ci sono ancora tornata... fino a fine mese sono in vacanza e ho pensato di fare un salto a Londra. Che ne dici di vederci, una di queste sere? Ho qualche notizia che potrebbe interessarti”.
Gwen sollevò le sopracciglia.
“E immagino che dirmelo adesso sia chiedere troppo, giusto?”
“Be'... no, se vieni con me a fare un aperitivo. O hai qualche impegno?”
“Be', ecco...”
Gwen distolse lo sguardo. Juliette era la sua migliore amica, ma su certi argomenti era davvero severa.
E infatti si accigliò subito.
“Ti prego, dimmi che non devi vederti con quel cretino di Donald. Voglio tantissimo che tu me lo dica”.
“Io... no, no!” mentì rapida Gwen sforzandosi di sorridere. “Non... non lo vedo da un bel po', è solo che... ecco, sai, devo scrivere un po'di curricula, mandarli in giro, e Winston mi ha appena demolito il divano. Che ne dici di domani? Così ho il tempo di sistemarmi e concederti le attenzioni che meriti”.
Juliette fece una smorfia.
“Ti odio quando fai così. Ma non ho l'autorità di fermarti... va bene, facciamo domani, ma guai a te se mi dai buca!”
“Eventualità assai poco probabile. Ma quella notizia di cui mi parlavi...”
“No, mia cara, no e no. Non te la meriti, quindi ti lascerò a roderti nel dubbio fino a domani. Ciao!”
E con un occhiolino sparì.
La grossa sveglia blu ticchettava indicando le nove e mezza di sera.
Donald aveva detto che sarebbe arrivato alle sette portando la cena. Cosa che ormai appariva sempre meno realistica.
Gwen si aggirava inquieta per il poco spazio a disposizione; a cosa era servito riordinare, aprire e rifare il letto (già, sapeva anche troppo bene come sarebbe andata a finire) e darsi una sistemata?
Si sentiva la solita idiota a preoccuparsi per quel bastardo. L'aveva scaricata all'inizio dell'estate, confessandole candidamente: “Non ti amo più da un bel po', però mi piace la tua compagnia. Continuiamo a vederci”.
Compagnia si era rivelato un elegante eufemismo per “Mi diverto a fare sesso con te, sei lì a mia disposizione e non devo neanche far fatica a trovarne un'altra”.
Il tutto funzionava perché Gwen era innamorata persa, stupida e con pochissima forza di volontà.
Anche in quel momento si sentiva sicura: quando Donald fosse arrivato gli avrebbe lanciato contro un oggetto contundente (sprecare un incantesimo era assurdo per un verme del genere), lo avrebbe insultato e gli avrebbe detto che era finita.
Nel frattempo però poteva permettersi di tormentarsi... e se gli fosse successo qualcosa? Magari ha avuto un incidente con la sua cavolo di scopa, o è stato derubato, o...
Lo stomaco diede in un brontolio di protesta. Gwen si passò gemendo una mano sulla pancia, e in quel momento accaddero diverse cose. Il campanello suonò, il cuore di Gwen prese a battere più in fretta e tutta la sua determinazione andò a far compagnia a Winston nel cuscino bucato.
Con le mani sudate andò ad aprire la porta, cercando di darsi un tono.
“Ciao”, disse Donald. “Sono in ritardo”.
“No, figurati, non-non preoccuparti”, rispose Gwen arrossendo e sentendosi sprofondare.
“Dai, fammi entrare”, aggiunse il giovane con un mezzo sorriso, senza guardarla negli occhi.
Gwen si fece da parte e lo guardò passarle davanti. Inevitabile: ci stava ricascando. Ma a quelle spalle così larghe, a quelle braccia robuste e a quel viso da angelo non sapeva resistere.
Cretina! Non è vero, è solo che non vuoi uscire da questo schifo!
Inspirando a fondo chiuse la porta e rimase immobile mentre Donald si sedeva sul materasso.
“Be', cosa ci fai lì impalata? Vieni qui, no?” le disse togliendosi la giacca e lanciandola sullo schienale.
“Io... veramente...”
Donald sorrise di nuovo e Gwen, quasi ipnotizzata, gli si avvicinò obbediente e si sedette al suo fianco. Spinta da un'abitudine dura a morire posò la propria mano sulla sua, senza ottenere alcuna reazione.
Stesso risultato ottenne sporgendosi per baciarlo. Anzi, anche peggio.
“Gwen, lo sai che detesto le smancerie. Mi davano fastidio quando eri la mia ragazza, ora ancora di più”.
Zac. Prima coltellata.
“Donald, ma... perché? Perché una decisione così drastica?”
Drastica un cazzo! Gridò un neurone particolarmente sveglio. Venne ignorato.
“Che palle che sei”, rispose Donald distogliendo lo sguardo. “Non ho detto che è una cosa definitiva, magari torneremo insieme e magari no. Continuare a vederci mi serve a deciderlo, chiaro?”
Stesso copione ogni volta. E quelle poche parole facevano gonfiare il cuore di Gwen di speranza e dolore. Proprio per quello non si oppose quando Donald la fece stendere sul letto e le infilò la mano sotto la maglietta.
Ti sta usando! Pronto? Mi senti? O sei troppo impegnata a fare la bambola gonfiabile per l'infame?
Di nuovo il neurone fu messo a tacere. Come era anche solo pensabile fare altrimenti? Nel giro di pochi minuti Gwen si trovò schiacciata dal corpo da atleta del proprio quasi-ragazzo, coi vestiti dispersi in giro per la stanza.
Donald non la guardava mentre facevano sesso. Mai. E di parlare non c'era verso. Ma in quei momenti nel cervello di Gwen aveva sempre luogo una lotta furibonda.
La parte emotiva si scioglieva languida, sussurrandole che era bello, che era giusto, che assecondandolo Donald avrebbe capito che lei era la donna giusta per lui, che la voleva. Sarebbe tornato, ed è quello che desideravano!
All'altro angolo del ring, la parte razionale si arrabbiava di brutto. Protestava che non era possibile andare avanti così, fare da giocattolo per un bastardo opportunista e immaturo, che insomma con un cervello così pregiato era assolutamente ridicolo buttarsi via in quel modo.
La battaglia andava avanti per un po'. Il risultato, comunque, era sempre quello di mandare a pallino parecchie aree importanti della corteccia frontale di Gwen, facendole dire cose stupide.
Precisamente quello che accadde anche quella volta.
Nel giro di venti minuti era tutto finito; Donald aveva fatto quel che doveva fare e, dopo aver ripreso brevemente fiato, si era alzato e già si stava rivestendo.
Gwen, delusa (almeno si fosse divertita anche lei!), si mise a sedere, tirandosi su le coperte fino alle ascelle.
“Allora...” iniziò. La voce le tremava: meglio aspettare un attimo e ricominciare, eh.
Comunque Donald non si era accorto di nulla, troppo impegnato a raccogliere un calzino dal cuscino di Winston.
“Quella tua civetta fa un po' schifo, Gwen, lasciatelo dire. Non puoi permetterle di fare quello che vuole, non è mica lei la padrona di casa!”
Mordendosi la lingua per non rispondergli “E' tutto quello che ho, stronzo!”, Gwen si impose di essere gentile.
“Sì, hai ragione, appena troverò un lavoro proverò ad addestrarla. Donald, senti... ti... ti è piaciuto?”
Donald la guardò un istante con un sorriso sarcastico. Gwen provò una fitta al cuore: perché continuava a trovarlo così attraente?
“Sono un uomo, piccola, è abbastanza facile capire che mi è piaciuto”.
Il cervello di Gwen registrò che l'infame non si era nemmeno dato la pena di chiedere “E a te invece è piaciuto?”, cosa che avrebbe permesso una risposta moralmente distruttiva.
“No, ecco, io intendevo... come va, tra noi? Hai preso una decisione? Qualcosa?”
Donald sbuffò e si voltò di scatto.
“Sei una piaga, lo sai? Così non mi incoraggi certo a starti vicino!”
Con un gesto rabbioso prese la giacca e si avviò alla porta, lasciando Gwen, confusa e ferita, ad abbracciarsi le ginocchia nel letto semi disfatto.
Dandole le spalle, il giovane aggiunse: “Mi faccio vivo io. E... be', mi sono dimenticato la cena, ma immagino avrai mangiato per conto tuo, no?”
Gwen mormorò una risposta affermativa.
“Ok. Ciao, allora”.
E se ne andò.
Non piangere, Gwendolyn, non piangere ti prego, si disse disperata mentre le lacrime le riempivano gli occhi.
Il cielo oltre l'abbaino era buio; uno spiffero di tiepida aria di Luglio si fece strada nella sala.
Gwen si rannicchiò sul fianco; sapeva benissimo che Donald sarebbe sparito per giorni e giorni; tutto ciò che le restava di lui era quella devastante sensazione di vuoto e l'odore di dopobarba tra le lenzuola.
Winston fece capolino dal suo nascondiglio.
“Hoot?”
“Non dargli retta, Winston. Non sei male come civetta. Sei un po'anarchico, questo sì, e forse hai qualche piccola turba psichica, ma non è giusto discriminarti, per questo”.
La civetta emerse completamente dal cuscino arruffando le piume. Con un rapido volo si posò in testa alla sua padrona, becchettandole delicatamente l'orecchio.
“Be', immagino che questa sia la cosa più simile a una coccola che mi sia capitata nell'intera giornata, no?” sussurrò Gwen tirando su col naso; si girò sulla schiena e Winston le si appollaiò sulla pancia.
La sveglia batté le dieci.
Gwen aveva bisogno di qualcuno con cui parlare. Tanto, tanto bisogno.
Ma con chi? Juliette? No, sapeva che sarebbe andata su tutte le furie. Mamma? L'avrebbe compatita... e comunque non aveva intenzione di dire a sua madre che faceva sesso umiliante con uno che la considerava una nullità! Aveva altre amiche, ma non così intime come Julie, quindi erano da scartare. Papà? Nemmeno, sarebbe stato capace di uccidere per molto meno, quando si trattava di sua figlia. E soprattutto nessuno dei due genitori era familiare col concetto di “scopamico”.
Iniziava ad avere freddo, e non era certo colpa della mite aria estiva. Gwen scacciò gentilmente Winston dal proprio ombelico e si vestì; il pigiama sformato decorato da tanti ragnetti paffuti e sorridenti le diede un certo conforto.
Quando si infilò sotto le lenzuola, però, non riuscì a dormire.
Fu inghiottita dal gorgo dell'autocommiserazione, e continuò a darsi della fallita fino a notte fonda, quando, finalmente, l'equo sonno la reclamò.
Gwendolyn Fitzgerald, in piedi davanti all'ingresso, osservava il salotto e quella singola, banale parola le rimbalzava nella testa.
Quella era quasi una casa. Una mansarda di forse trenta metri quadri, con una sola finestra ad abbaino sul soffitto spiovente, un camino pieno di fuliggine, una cucina incastrata dietro la porta e un bagno in cui si poteva stare seduti sulla tazza e farsi la doccia contemporaneamente. Anche non volendolo, visto che il rubinetto perdeva.Sotto lo strato di cartoni di pizza abbandonati, lattine schiacciate, cartacce, piume di gufo, cacche dello stesso animale e libri e fogli sparpagliati c'era davvero un letto. Forse. Gwen non ne era neanche più così sicura.Con un sospiro appoggiò a terra le due borse della spesa. Quasi vuote, anche quelle. Quattro mesi di disoccupazione totale, una testa troppo dura per chiedere aiuto ai genitori e qualche pretesa di troppo comportavano diversi inconvenienti.Da sotto un cuscino sporco di gelato provenne un borbottio offeso.
Gwen abbassò la mano che stava per afferrare la maniglia semistaccata del frigorifero e si voltò; un calcio al cuscino, e il borbottio divenne un tubare più convinto.“Dannazione, Winston! Era l'ultimo cuscino sano che mi rimaneva!” sbuffò. Winston, una civetta bruna dall'aria perennemente stupita, ruotò il capo rotondo e frullò le ali, buttando in giro un po' della gommapiuma che aveva accuratamente scavato a crearsi un rifugio.“Immagino non siano arrivati gufi per me, giusto?” chiese, voltando le spalle al volatile. L'unica risposta fu un “Hooot!” soffocato dall'imbottitura del cuscino.
Gwen curvò le spalle e tornò alla sua occupazione. Mise nel frigorifero qualche latta di fagioli, delle scatolette di tonno di marca “Tonno” (le più economiche, al discount mica si possono avere pretese!), qualche uovo e una bottiglia di latte; una confezione gigantesca di biscotti dall'aspetto stantio persino sulla foto pubblicitaria trovò posto nell'anta sopra al fornello.
Il fruscio della carta spaventò parecchi scarafaggi che fuggirono nell'ombra.
Gwen strinse gli occhi e arricciò il naso. Va bene, lei adorava gli animali, tutti gli animali... erano la sua ragione di vita e, in teoria almeno, la sua materia di studio. Però gli scarafaggi erano davvero troppo.
A conti fatti, quella somigliava sempre meno a una casa. Era quasi una topaia.Quasi, appunto. Una sola parola che poteva descrivere tutto, nella vita recente di Gwendolyn.
Estrasse la bacchetta e sussurrò cupa: “Gratta e netta!”.L'incantesimo rimosse qualcosa della sporcizia più evidente: i cartoni della pizza e le lattine volarono nel cestino dei rifiuti, qualche macchia svanì. Il divano-letto sfondato era comunque grigio e deprimente, anche senza l'”hoot! Hoot!” di Winston nel suo cuscino.
Con un calcio Gwen si tolse le vecchie Clark's consumate e si sedette a terra, la schiena contro il divano. Attirò a sé un posacenere con la bacchetta -pigrizia su tutta la linea- e si accese una sigaretta.
Quasi.
Una ragazza quasi carina, con gli occhi quasi verdi (tipo il vomito fresco, per intenderci, o il fango di palude) e quasi le lentiggini. Il naso? Quasi carino, certo, ma tragicamente a patata. Almeno quella conformazione impediva agli occhiali di scivolare oltre la punta. Quasi magra, ma non proprio, quasi ben fatta se non fosse stato per i fianchi larghi e le cosce stile cotechino. I capelli, almeno loro, erano meritevoli di aggettivi definiti: decisamente ricci, decisamente rossi, decisamente troppi e indisciplinati.
Non che il resto fosse meglio, comunque: Gwen aspirò una boccata di fumo e si afflosciò in avanti, la fronte appoggiata alle ginocchia. Gli occhiali, prevedibilmente, scivolarono fino alla punta del naso.
Erano passati cinque -no, ormai sei- anni da quando aveva finito Hogwarts; aveva trovato un lavoro serio? No. Cioè, quasi: lavori carini, interessanti, sistematicamente malpagati, che la tenevano occupata per cinque o sei mesi per poi farla ripiombare nel nulla più totale.
Prima i draghi in Irlanda del Nord, poi quell'affascinante stage per studiare la fonetica delle sirene, poi... be', un sacco di progetti di ricerca. A termine. Belli e inutili.
E dire che se avesse deciso di lavorare al San Mungo non avrebbe avuto problemi, con due genitori Guaritori di buon livello. Probabilmente, a ventiquattro anni si sarebbe trovata già bell'e sposata, con qualche pargolo forse e certamente una bella casa col giardino, non quel buco in una zona pure malfamata della Londra Babbana. E magari avrebbe avuto un bel cane e non una civetta socialmente discutibile.
Di sicuro avrebbe avuto un marito.
Un altro quasi della sua vita.
Sull'onda di quella profonda riflessione sulla sua vita Gwen rialzò la testa e guardò la foto sul comodino. Donald, il suo quasi ragazzo. Quasi lo era solo da qualche mese; per un anno e mezzo era stato davvero il suo fidanzato. E poi... aveva deciso di non essere poi così innamorato.
Sono un'idiota, si disse Gwen osservando quel volto con un'ombra di barba e i riccioli da cherubino che la guardava ammiccando dalla foto.
Una gran rabbia la invase. Stava per farlo, per prendere una decisione netta, decisa, per troncare e...
Wooosh!
Una fiammata verde illuminò l'angolo più lontano della stanza. Tra le fiamme del camino sorrideva il viso lungo e pallido di una ragazza dai capelli neri.
“Buongiorno bellezza!” trillò.
“Oh... ciao, Juliette!” rispose Gwen, alzandosi e andando a inginocchiarsi vicino al parascintille. “Come stai? Tutto bene a Hogsmeade?”
Juliette si scostò una ciocca liscia dalla fronte.
“Credo di sì, ma non ci sono ancora tornata... fino a fine mese sono in vacanza e ho pensato di fare un salto a Londra. Che ne dici di vederci, una di queste sere? Ho qualche notizia che potrebbe interessarti”.
Gwen sollevò le sopracciglia.
“E immagino che dirmelo adesso sia chiedere troppo, giusto?”
“Be'... no, se vieni con me a fare un aperitivo. O hai qualche impegno?”
“Be', ecco...”
Gwen distolse lo sguardo. Juliette era la sua migliore amica, ma su certi argomenti era davvero severa.
E infatti si accigliò subito.
“Ti prego, dimmi che non devi vederti con quel cretino di Donald. Voglio tantissimo che tu me lo dica”.
“Io... no, no!” mentì rapida Gwen sforzandosi di sorridere. “Non... non lo vedo da un bel po', è solo che... ecco, sai, devo scrivere un po'di curricula, mandarli in giro, e Winston mi ha appena demolito il divano. Che ne dici di domani? Così ho il tempo di sistemarmi e concederti le attenzioni che meriti”.
Juliette fece una smorfia.
“Ti odio quando fai così. Ma non ho l'autorità di fermarti... va bene, facciamo domani, ma guai a te se mi dai buca!”
“Eventualità assai poco probabile. Ma quella notizia di cui mi parlavi...”
“No, mia cara, no e no. Non te la meriti, quindi ti lascerò a roderti nel dubbio fino a domani. Ciao!”
E con un occhiolino sparì.
La grossa sveglia blu ticchettava indicando le nove e mezza di sera.
Donald aveva detto che sarebbe arrivato alle sette portando la cena. Cosa che ormai appariva sempre meno realistica.
Gwen si aggirava inquieta per il poco spazio a disposizione; a cosa era servito riordinare, aprire e rifare il letto (già, sapeva anche troppo bene come sarebbe andata a finire) e darsi una sistemata?
Si sentiva la solita idiota a preoccuparsi per quel bastardo. L'aveva scaricata all'inizio dell'estate, confessandole candidamente: “Non ti amo più da un bel po', però mi piace la tua compagnia. Continuiamo a vederci”.
Compagnia si era rivelato un elegante eufemismo per “Mi diverto a fare sesso con te, sei lì a mia disposizione e non devo neanche far fatica a trovarne un'altra”.
Il tutto funzionava perché Gwen era innamorata persa, stupida e con pochissima forza di volontà.
Anche in quel momento si sentiva sicura: quando Donald fosse arrivato gli avrebbe lanciato contro un oggetto contundente (sprecare un incantesimo era assurdo per un verme del genere), lo avrebbe insultato e gli avrebbe detto che era finita.
Nel frattempo però poteva permettersi di tormentarsi... e se gli fosse successo qualcosa? Magari ha avuto un incidente con la sua cavolo di scopa, o è stato derubato, o...
Lo stomaco diede in un brontolio di protesta. Gwen si passò gemendo una mano sulla pancia, e in quel momento accaddero diverse cose. Il campanello suonò, il cuore di Gwen prese a battere più in fretta e tutta la sua determinazione andò a far compagnia a Winston nel cuscino bucato.
Con le mani sudate andò ad aprire la porta, cercando di darsi un tono.
“Ciao”, disse Donald. “Sono in ritardo”.
“No, figurati, non-non preoccuparti”, rispose Gwen arrossendo e sentendosi sprofondare.
“Dai, fammi entrare”, aggiunse il giovane con un mezzo sorriso, senza guardarla negli occhi.
Gwen si fece da parte e lo guardò passarle davanti. Inevitabile: ci stava ricascando. Ma a quelle spalle così larghe, a quelle braccia robuste e a quel viso da angelo non sapeva resistere.
Cretina! Non è vero, è solo che non vuoi uscire da questo schifo!
Inspirando a fondo chiuse la porta e rimase immobile mentre Donald si sedeva sul materasso.
“Be', cosa ci fai lì impalata? Vieni qui, no?” le disse togliendosi la giacca e lanciandola sullo schienale.
“Io... veramente...”
Donald sorrise di nuovo e Gwen, quasi ipnotizzata, gli si avvicinò obbediente e si sedette al suo fianco. Spinta da un'abitudine dura a morire posò la propria mano sulla sua, senza ottenere alcuna reazione.
Stesso risultato ottenne sporgendosi per baciarlo. Anzi, anche peggio.
“Gwen, lo sai che detesto le smancerie. Mi davano fastidio quando eri la mia ragazza, ora ancora di più”.
Zac. Prima coltellata.
“Donald, ma... perché? Perché una decisione così drastica?”
Drastica un cazzo! Gridò un neurone particolarmente sveglio. Venne ignorato.
“Che palle che sei”, rispose Donald distogliendo lo sguardo. “Non ho detto che è una cosa definitiva, magari torneremo insieme e magari no. Continuare a vederci mi serve a deciderlo, chiaro?”
Stesso copione ogni volta. E quelle poche parole facevano gonfiare il cuore di Gwen di speranza e dolore. Proprio per quello non si oppose quando Donald la fece stendere sul letto e le infilò la mano sotto la maglietta.
Ti sta usando! Pronto? Mi senti? O sei troppo impegnata a fare la bambola gonfiabile per l'infame?
Di nuovo il neurone fu messo a tacere. Come era anche solo pensabile fare altrimenti? Nel giro di pochi minuti Gwen si trovò schiacciata dal corpo da atleta del proprio quasi-ragazzo, coi vestiti dispersi in giro per la stanza.
Donald non la guardava mentre facevano sesso. Mai. E di parlare non c'era verso. Ma in quei momenti nel cervello di Gwen aveva sempre luogo una lotta furibonda.
La parte emotiva si scioglieva languida, sussurrandole che era bello, che era giusto, che assecondandolo Donald avrebbe capito che lei era la donna giusta per lui, che la voleva. Sarebbe tornato, ed è quello che desideravano!
All'altro angolo del ring, la parte razionale si arrabbiava di brutto. Protestava che non era possibile andare avanti così, fare da giocattolo per un bastardo opportunista e immaturo, che insomma con un cervello così pregiato era assolutamente ridicolo buttarsi via in quel modo.
La battaglia andava avanti per un po'. Il risultato, comunque, era sempre quello di mandare a pallino parecchie aree importanti della corteccia frontale di Gwen, facendole dire cose stupide.
Precisamente quello che accadde anche quella volta.
Nel giro di venti minuti era tutto finito; Donald aveva fatto quel che doveva fare e, dopo aver ripreso brevemente fiato, si era alzato e già si stava rivestendo.
Gwen, delusa (almeno si fosse divertita anche lei!), si mise a sedere, tirandosi su le coperte fino alle ascelle.
“Allora...” iniziò. La voce le tremava: meglio aspettare un attimo e ricominciare, eh.
Comunque Donald non si era accorto di nulla, troppo impegnato a raccogliere un calzino dal cuscino di Winston.
“Quella tua civetta fa un po' schifo, Gwen, lasciatelo dire. Non puoi permetterle di fare quello che vuole, non è mica lei la padrona di casa!”
Mordendosi la lingua per non rispondergli “E' tutto quello che ho, stronzo!”, Gwen si impose di essere gentile.
“Sì, hai ragione, appena troverò un lavoro proverò ad addestrarla. Donald, senti... ti... ti è piaciuto?”
Donald la guardò un istante con un sorriso sarcastico. Gwen provò una fitta al cuore: perché continuava a trovarlo così attraente?
“Sono un uomo, piccola, è abbastanza facile capire che mi è piaciuto”.
Il cervello di Gwen registrò che l'infame non si era nemmeno dato la pena di chiedere “E a te invece è piaciuto?”, cosa che avrebbe permesso una risposta moralmente distruttiva.
“No, ecco, io intendevo... come va, tra noi? Hai preso una decisione? Qualcosa?”
Donald sbuffò e si voltò di scatto.
“Sei una piaga, lo sai? Così non mi incoraggi certo a starti vicino!”
Con un gesto rabbioso prese la giacca e si avviò alla porta, lasciando Gwen, confusa e ferita, ad abbracciarsi le ginocchia nel letto semi disfatto.
Dandole le spalle, il giovane aggiunse: “Mi faccio vivo io. E... be', mi sono dimenticato la cena, ma immagino avrai mangiato per conto tuo, no?”
Gwen mormorò una risposta affermativa.
“Ok. Ciao, allora”.
E se ne andò.
Non piangere, Gwendolyn, non piangere ti prego, si disse disperata mentre le lacrime le riempivano gli occhi.
Il cielo oltre l'abbaino era buio; uno spiffero di tiepida aria di Luglio si fece strada nella sala.
Gwen si rannicchiò sul fianco; sapeva benissimo che Donald sarebbe sparito per giorni e giorni; tutto ciò che le restava di lui era quella devastante sensazione di vuoto e l'odore di dopobarba tra le lenzuola.
Winston fece capolino dal suo nascondiglio.
“Hoot?”
“Non dargli retta, Winston. Non sei male come civetta. Sei un po'anarchico, questo sì, e forse hai qualche piccola turba psichica, ma non è giusto discriminarti, per questo”.
La civetta emerse completamente dal cuscino arruffando le piume. Con un rapido volo si posò in testa alla sua padrona, becchettandole delicatamente l'orecchio.
“Be', immagino che questa sia la cosa più simile a una coccola che mi sia capitata nell'intera giornata, no?” sussurrò Gwen tirando su col naso; si girò sulla schiena e Winston le si appollaiò sulla pancia.
La sveglia batté le dieci.
Gwen aveva bisogno di qualcuno con cui parlare. Tanto, tanto bisogno.
Ma con chi? Juliette? No, sapeva che sarebbe andata su tutte le furie. Mamma? L'avrebbe compatita... e comunque non aveva intenzione di dire a sua madre che faceva sesso umiliante con uno che la considerava una nullità! Aveva altre amiche, ma non così intime come Julie, quindi erano da scartare. Papà? Nemmeno, sarebbe stato capace di uccidere per molto meno, quando si trattava di sua figlia. E soprattutto nessuno dei due genitori era familiare col concetto di “scopamico”.
Iniziava ad avere freddo, e non era certo colpa della mite aria estiva. Gwen scacciò gentilmente Winston dal proprio ombelico e si vestì; il pigiama sformato decorato da tanti ragnetti paffuti e sorridenti le diede un certo conforto.
Quando si infilò sotto le lenzuola, però, non riuscì a dormire.
Fu inghiottita dal gorgo dell'autocommiserazione, e continuò a darsi della fallita fino a notte fonda, quando, finalmente, l'equo sonno la reclamò.
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