Note alla storia
Il titolo tradotto significa "Il cuore di tutto".Questa fanfic è un po’ un mio vezzo ed un po’ voglia di mettersi alla prova. Esistono molte fanfiction in inglese su Harry Potter bambino e dato che alcune sono particolarmente belle, come “Eight” per esempio o “Sentinel in the shadows”, mi sono sentita spinta a provarci prendendone spunto.
In questa storia Harry ha circa sei anni e non avrà una vita facile. Parlerò di abusi, ma ci tengo a precisare che questa storia NON tratterà di abusi sessuali (sono talmente tanto contraria a queste cose sui bambini che anche il solo pensarci mi fa rabbrividire) e che per motivi ovvi, data l’età del protagonista, questa storia NON sarà slash. Parlerò anche di Severus Snape e delle sue scelte, ci potrebbero essere dei piccoli spoiler dell’ultimo libro, ma tanto quando scriverò il capitolo in questione la data di uscita del settimo libro in italiano sarà già passata da un pezzo.
PS: Il sito ospita tantissime fanfiction su Harry Potter, dato che io ho anche una vita reale leggerle tutte è chiedere troppo, mi scuso in anticipo se qualcuno dovesse trovare delle similarità con altre storie già presenti che io, ovviamente, non ho letto e vi assicuro che la cosa è del tutto non intenzionale. Siete pregati, in tal caso, di contattarmi subito. Ringraziando per la cortese attenzione, buona lettura.
Mel Kaine
Note al capitolo
Il titolo del capitolo significa "Inferno".
The Heart of Everything
Capitolo 1 - /Hell /
Il piccolo tremava come un foglia.
Le piccole ginocchia strette al petto, la testa appoggiata sulle braccia mentre il vento portava via il suo silenziosissimo pianto.
Se li avesse svegliati, Zio Vernon lo avrebbe picchiato ancora più forte e quindi non importava quanto male gli faceva la pancia o quanta fame avesse.
Era sotto la loro finestra.
Zia Petunia lo sentiva persino quando respirava, quindi si diceva ‘Zitto Harry, zitto’.
La notte era così buia, il giardino davanti a lui faceva così paura, ma il piccolo Harry non doveva emettere un suono.
Già tutte le ossa gli facevano male e l’umidità attraversava i suoi vestiti larghi e sdruciti.
S’infilò le mani intirizzite sotto la maglia, contro le ossa del torace quasi sotto le ascelle, lì dove c’era più caldo, gli occhi fissi sulle ombre sotto gli alberi, dietro i cespugli.
Tremava di freddo e di paura.
Le lacrime continuavano a scavare solchi ben conosciuti lungo le sue piccole guance ed ogni suono della notte faceva battere il suo cuore più forte. E non riusciva a dormire. La schiena gli faceva così male, e la pancia anche, dentro e fuori, ed il gomito ed il collo. Fame, sete, terrore, dolore. Domani avrebbe fatto meglio a lavorare più in fretta, a trovare un modo per pulire anche in cima ai mobili o Zio Vernon lo avrebbe chiuso fuori di nuovo. Le grida di suo zio presero a vorticargli ancora una volta nella testa, resa leggera dalla fame e al tempo stesso pesante dal dolore alla nuca e dietro gli occhi.
‘Niente tetto sulla testa per i piccoli lavativi come te… credevi che non mi sarei accorto della polvere sulla libreria, stupido marmocchio? Fuori, piccolo abominio e non un suono o sarà peggio per te!’
E lo aveva spinto oltre la porta sul retro della cucina, vicino ai sacchetti pieni di rifiuti.
‘E farai bene a rimanere lì, non c’è nessun altro posto per te in questa casa se non accanto alla spazzatura, ragazzo!’ e ridendo di lui, guardandolo dall’alto in basso come se fosse veramente qualcosa di sudicio di cui disfarsi con sollievo, aveva chiuso la porta, doppia mandata e la catena, lasciandolo lì accanto alla plastica nera e maleodorante.
E lì era rimasto e non intendeva muoversi.
Sapeva fin troppo bene che se avesse osato spostarsi in qualche modo Zio Vernon sarebbe venuto a saperlo e per niente al mondo gli avrebbe così apertamente disobbedito. Già ogni giorno, per qualche motivo diverso, riusciva a farlo infuriare e tutte le volte, dopo, faceva tutto così male e c’erano macchie nere-blu sulla sua pelle e le sue ossa si lamentavano ad ogni respiro. Se solo Zio Vernon o Zia Petunia gli avessero spiegato cosa non fare e cosa non dire avrebbe potuto comportarsi meglio, ma non osava chiederlo, non osava chiedere mai niente. Sapeva perfettamente cosa lo aspettava se solo avesse provato. Niente domande in casa Dursley e soprattutto mai, per nessuna ragione, nessuna richiesta. Non c’era niente che si potesse dare o concedere ad un piccolo mostro come lui gli ripetevano ogni giorno e questa era l’unica verità che il piccolo Harry Potter conosceva.
Non era altro che un piccolo, misero cucciolo bastardo che nessuno voleva e doveva semplicemente essere grato di essere stato raccolto dalla strada su cui era stato abbandonato e, grazie alla loro carità, non affogato da neonato come spesso Zia Marge aveva consigliato nel corso degli anni.
E mentre lentamente quella notte di inizio autunno diventava alba e la rugiada gelida si posava lenta sui suoi piedini nudi, con il dolore che combatteva la spossatezza ed i tremiti che lo tenevano sveglio Harry poté udire i primi cenni di vita ai piani superiori.
Le manine chiuse in pugni piccoli e congelati vennero forzatamente passate sul viso, a controllare che non ci fossero lacrime, a dare un po’ di colore sfregando dolorosamente contro la pelle secca e marmata. E mentre la porta della cucina finalmente si apriva Harry sperò di poter avere anche solo una crosticina di pane, le piccole labbra pronte attorno alle solite parole che quel giorno non avrebbe risparmiato pur di avere qualcosa da mangiare. Gli occhi verdi enormi e colmi di disperazione.
“Per favore…per favore…”
Harry cercò veramente di fare del suo meglio. Con tutte e due le piccole braccia sfregava rapidamente il legno, cercando di lucidarlo tanto da specchiarcisi dentro. E anche se le spalle dolevano non era niente in confronto a come facevano male dopo quella che Zia Petunia chiamava ‘una buona dose di disciplina’. E ne avrebbe avuta di disciplina se non finiva prima del rientro di Zio Vernon. Adesso tutti i ripiani più bassi erano stati spolverati, mancavano quelli in alto, ma non sapeva come raggiungerli. Lasciò lo straccio sul legno e si diresse in cucina, fermandosi a pochi passi da sua zia.
“Che vuoi adesso?” lo accolse acidamente la donna.
“Posso… una sedia… è per pulire la libreria in alto, signora”.
Non gli era permesso chiamarla zia.
Improvvisamente gli occhi vicini e cattivi della donna sembrarono ingrandirsi fino a sporgere quasi dalla faccia cavallina.
Harry sapeva che aveva fatto male a chiedere, ma non aveva davvero altra scelta.
“Non permetterò a quei tuoi sudici, lerci piedi di sporcare le sedie dove la mia famiglia si siede! – urlò la donna, fuori di sé dalla sdegno. – Vai a cercarti uno sgabello in cantina, non lasciare macchie per terra e non perdere tempo, piccolo ingrato. E non osare mai più chiedere una cosa del genere o sarò costretta a dirlo a Vernon”.
“Sì, signora” e senza alzare gli occhi da terra si diresse verso la cantina.
Trascinare per le scale lo sgabello richiese tutta la sua volontà, e quanto desiderava potersi sbrigare, per un sacco di validi motivi.
Non solo era davvero tardi e lo zio stava per tornare, ma il piccolo Harry detestava davvero la cantina. Era buia e umida e fredda, e piena di angoli oscuri in cui si nascondevano chissà quali mostri e quasi ogni volta che scendeva lì Dudley o suo zio si divertivano a spegnergli la luce, lasciandolo terrorizzato al buio. Alle volte chiudevano anche la porta e lo lasciavano lì fin dopo cena.
Ma neanche quel giorno aveva avuto niente da mangiare e anche usando tutto il corpo non riusciva che a far fare allo sgabello altro che pochi centimetri alla volta. Poco per volta, e facendo attenzione a non sporcare, riuscì a raggiungere il salotto. Il vecchio sgabello si aprì con un cigolio spaventoso, Harry raccolse lo straccio e cercò di issarsi sui gradini. Per quanto poco pesasse sentì comunque la vecchia scaletta traballare e rimase fermo un istante. Poco dopo continuò a salire e pulire. Alle volte, in giorni in cui era affamato come quelli, la testa gli sembrava così leggera, più leggera del misero panno che teneva fra le dita. Comunque mancava poco, un solo ripiano e per quel giorno forse avrebbe avuto qualche buccia da mangiare e un pavimento su cui dormire. Issandosi con attenzione prese a viaggiare con la fantasia, come sempre più spesso faceva ogni giorno. E adesso immaginava di essere uno scalatore, un bravo, famoso scalatore che eseguiva una difficile salita, partito alla ricerca di una nuova valle ed ogni gradino in più era una scoperta di grandi distese erbose. Con una mano le accarezzava portando via la rugiada, in ogni angolo, anche quelli più lontani sporgendosi per arrivare. Per un istante gli sembrò quasi di galleggiare, la mente vuota e libera e poi il dolore esplose tutto insieme, contraendogli lo stomaco vuoto convulsamente, gli occhi videro nero per un momento prima di riaprirsi umidamente su un salotto storto, in cui i mobili erano tutti orizzontali e non più dritti verso il soffitto. Il piccolo Harry realizzò di essere caduto. Lo sgabello aveva barcollato un po’ e Harry si era sentito così debole per un attimo che non era riuscito a tenersi in piedi. Chiuse gli occhi e li riaprì. La sua avventura di scalatore era finita miseramente. Aveva sentito benissimo il contatto con il pavimento duro ed il cuore ed i polmoni gli erano balzati dentro il petto riatterrando, poi, dolorosamente. La spalla era in fiamme ed era come se anche tutto il braccio sul quale era caduto stesse lentamente incendiandosi. Non riusciva ad alzarsi. Prese fiato e provò, ma il suo piccolo corpicino non gli rispondeva assolutamente. Un filo di sangue scivolava dalla sua bocca socchiusa, seccandosi sulla guancia. Zia Petunia passò in quei momenti dietro al divano, diretta verso le scale, lo guardò una volta e passò oltre. Harry la sentì chiamare Dudley per il suo spuntino pre-cena. Sentì i passi rumorosi di suo cugino per le scale e di nuovo vide passare Zia Petunia.
Come se non esistesse.
Anche Dudley lo guardò passando.
Ed Harry rimase lì, come una scatola caduta e abbandonata. Le voci in cucina sembravano appartenere ad un altro mondo, un mondo in cui lui era invisibile e non voluto, la vita andava avanti e lui sembrava fermo. Dudley passò lì davanti ancora una volta e non si fermò.
Steso a terra accanto allo sgabello in una posizione innaturale Harry si rifiutò di sporcare il pavimento con le lacrime che gli bruciavano dietro gli occhi. Sapeva che altrimenti Zia Petunia si sarebbe infuriata tantissimo e lo avrebbe fatto picchiare. Non che pensasse seriamente di evitare le botte quel giorno. Non aveva finito di pulire e già sentiva il suono del motore della macchina di Zio Vernon nel vialetto. I suoi occhi si riempirono di terrore ed il cuore batteva veloce come le ali delle mosche.
I passi di suo Zio risuonarono in tutto l’ingresso.
Una volta che quegli occhi porcini si furono posati su di lui Harry iniziò a tremare. Brividi continui e frenetici. E ancora non riusciva ad alzarsi. Lo vide avvicinarsi, a grandi, furiosi passi, il collo rosso di rabbia.
“Cosa diavolo stai facendo, ragazzo? Ti riposi? PICCOLO OZIOSO BASTARDELLO PIGRO!!! In piedi! IN PIEDI, HO DETTO!” ruggì suo zio.
Ma ancora Harry non riusciva ad alzarsi e sapeva che se non voleva essere preso a calci doveva farlo e farlo in fretta e, giuro, ci provò davvero.
Ma non ci riusciva.
Infuriato come un toro Zio Vernon lo afferrò per i capelli, trascinandolo come un sacco di patate fino alla soglia della cucina.
“Non hai mica dato da mangiare a questo cane ingrato, vero Petunia?”
La donna si girò un istante per lanciare uno sguardo disgustato al patetico esserino.
“Certamente no, caro. Ha finito di pulire il salotto?”
“L’ho trovato in terra, AD OZIARE!”
Harry, i grandi occhi verdi dilatati di terrore, continuava a tremare in silenzio. Zia Petunia sapeva benissimo che era caduto, che non si stava riposando, che si era fatto male. Ma Zia Petunia non disse niente. E si girò per continuare a cucinare.
“Oh, mi hai disubbidito per l’ultima volta ragazzo.”
E lo trascinò vicino alle scale, dove suoni soffocati di carne e ossa battute risuonò nel silenzio.
La spalla già gonfia all’inverosimile, le gambe e la schiena ed il petto ed il viso, persino i piedi, erano tutti pieni di segni rossi che presto sarebbero diventati blu e poi neri. E poi, forse, non sarebbero spariti mai più. Non ricordava l’ultima volta che era stato picchiato così forte e così a lungo. Anche rimanere accartocciato per terra, lì, in quel cantuccio della cucina era un tortura. Soprattutto adesso. Sentiva un gran male dovunque, tranne che al braccio su cui era caduto. Lì non sentiva più niente ormai. E non riusciva più a muoverlo. Il piccolo Harry nascose il viso fra le ginocchia portate al petto. Cercando di farsi ancora più piccolo, cercando ancor più disperatamente di non sentire il buon odore di cibo caldo che veniva dalla tavola davanti a lui. I suoi zii e Dudley stavano cenando. Proprio davanti ai suoi occhi. Anche la gola gli faceva male. Aveva implorato così tanto suo zio di fermarsi, di scusarlo, che non lo avrebbe fatto mai più, che avrebbe fatto qualsiasi cosa, che sarebbe stato buono… Ed in quel momento, come tante altre volte negli istanti più disperati della sua breve vita il piccolo Harry si disse con innocente certezza che qualcosa aveva sicuramente fatto per meritare tutto questo. Rannicchiato in terra, dentro vestiti tre volte più grandi, sporchi ed insanguinati, debole e dolorante, affamato tanto da sentirsi lo stomaco martellare in gola, le piccola labbra ermeticamente chiuse per impedire che la saliva scivolasse sul pavimento. Ce n’era così tanta ed ogni pochino era costretto ad inghiottirla e anche quello faceva male, ma se non voleva soffocare non aveva altra scelta che continuare, perché fintanto che quell’odore non se ne fosse andato Harry non sarebbe stato capace di tenere la bocca asciutta. Con gli occhi stanchi e socchiusi guardava il mento grasso di suo cugino alzarsi ed abbassarsi mentre masticava. Perché non poteva avere qualcosa da mangiare anche lui? Perché non poteva sedere accanto a loro? Perché era steso a terra e doveva stare così male e ogni giorno fare tutti quei lavori? Quanto desiderava piangere e singhiozzare, ad alta voce, scosso dai tremiti, ma così, a pochi passi dalla figura enorme di suo zio non osava nemmeno emettere un respiro un po’ più forte. Non voleva essere picchiato ancora. Con tutte le sue misere forze cercò di far volare via il proprio pensiero… almeno lui… Di fantasticare ancora, come sempre quando tutto era così triste e doloroso nella sua vita.
E adesso si trovava prigioniero sul legno del ponte di una nave di pirati. Era stato catturato in città e portato dal comandante. Ma non aveva voluto parlare sul nascondiglio dei suoi compagni e quindi era stato picchiato. E adesso doveva patire la fame e la sete, ma almeno i suoi amici erano salvi e quindi il resto non importava.
Non si era nemmeno accorto di aver chiuso gli occhi quando violentemente venne tirato in piedi. La sua piccola testa sbatté con forza contro il muro. Un altro sogno ad occhi aperti finito miseramente.
“Credi che ti abbia fatto stare qui per riposare? Sparecchia, ragazzo e pulisci la cucina” gli urlò in faccia Zio Vernon.
“E non pensare nemmeno di prendere il cibo avanzato nei piatti” ribadì Zia Petunia, come ogni volta.
“Non mi fido di questo piccolo vermiciattolo, Petunia cara, controllalo fino a che i piatti non saranno vuoti”.
Senza sollevare gli occhi Harry cercò di tenersi in piedi una volta che le pesanti mani di suo zio lo avevano lasciato. Il suo intero corpo protestava insistentemente, ma il piccolo si diresse verso la tavola e con la sola mano destra prese a togliere i piatti. Sua zia lo aspettava vicino al cestino della spazzatura, guardandolo svuotare i piatti con un’espressione disgustata ed impaziente.
“Muoviti! Non posso stare qui tutta la sera”.
Il piccolo Harry svuotò ogni piatto con tutta la fretta possibile, con lo stomaco vuoto che si contraeva ferocemente ogni volta che vedeva tutto quel buon cibo finire nell’immondizia. Il piccolo Harry davvero non capiva perché non poteva averlo… Perché neanche un pochino…? Non lo avrebbe mangiato più nessuno…
Anche quella tortura finì e subito Harry fu spinto verso il lavello. Arrivava a mala pena al bordo, ma sua zia non se ne curava mai e distratta dalla sigla del telegiornale si avviò verso il salotto, rimanendo sulla soglia fra le due stanze.
Fu allora, mentre puliva una pentola particolarmente incrostata che Harry la vide.
Lì in terra, accanto ad una delle gambe del tavolo, nascosta alla vista di tutti eppure così grossa, quasi quanto metà di un suo dito.
Un’enorme, deliziosa briciola di pane.
Cercando di non pensarci Harry tornò a lavare, non ce l’avrebbe mai fatta a prenderla senza farsi vedere. Eppure non riusciva a smettere di guardarla. Un’occhiata a terra, un’occhiata ai piatti, di nuovo lo sguardo a terra, di nuovo i piatti.
Nel frattempo, quando poteva, rubava un sorso d’acqua, anche se calda e leggermente saponata, era meglio di niente, non sapeva quando l’avrebbero lasciato di nuovo andare in bagno. Continuò a lavare lentamente, poteva usare solo il braccio destro, il sinistro nemmeno si sollevava dal fianco. Zia Petunia era ancora sulla soglia. Di nuovo uno sguardo a terra, la grossa briciola non era scomparsa, era sempre là.
Il piccolo Harry aveva quasi finito quando sentì l’inconfondibile musichetta di quel programma alla televisione che i suoi zii adoravano e con la coda dell’occhio vide sua zia scattare avanti e sparire nel salotto. Un istante. Era la sua unica possibilità. Lasciò il piatto che stava sciacquando senza fare rumore e sgattaiolò sotto il tavolo, afferrò la briciola e se la mise in bocca. In un attimo si rialzò tornando al lavello. Il dolore di quei movimenti venne ricompensato ampiamente dal tenere contro l’interno della guancia il suo piccolo premio. Si concesse per un minuscolo secondo il piacere di sentire la rasposità di quella mollica di pane contro la lingua e poi la inghiottì, Zia Petunia poteva tornare in qualsiasi momento. Un istante dopo averlo sentito il piacevole sapore si dissolse, ma il piccolo Harry si sentiva un po’ meno vuoto e finì di lavare il più presto possibile. Appena chiusa l’acqua sentì i passi rumorosi di Zio Vernon. L’uomo lanciò uno sguardo critico alla cucina ed uno di disprezzo al bambino e si avvicinò. Con una mano lo afferrò per il polso sinistro, tirandoselo dietro, con l’altra raccolse il cesto pieno e chiuso di spazzatura. Vernon Dursley gettò entrambi fuori dalla porta sul retro e chiuse con catena e chiave. Ma il piccolo Harry non sentì alcun suono, aveva perso i sensi già prima di toccare terra, la presa al suo braccio malandato gli aveva fatto esplodere il cervello di dolore. Fuori la luna splendeva alta, illuminando per due solitarie ore il corpicino abbandonato prima che il piccolo Harry Potter si risvegliasse gemendo.
Continua...