[ Blackness ]

La stanza gli si apriva luminosa dinnanzi. Spaziosa ed angusta al contempo, in una maniera che non avrebbe saputo spiegare, ma, d'altronde, se anche le parole non gli fossero mancate, non avrebbe certo potuto pronunciarle. Così come non poteva, nonostante fossero numerosi e in un certo senso assordanti, udire i rumori che popolavano quella stanza luminosa. Forse gli sarebbe piaciuto associare ai movimenti e alle azioni che lo circondavano i suoni che ne conseguivano, ma per quanto vi riflettesse non sembrava in grado di trovare una risposta. Suoni, lui, non ne aveva mai uditi, come poteva dunque sapere se li avrebbe apprezzati?
Si limitava quindi a concentrarsi sui colori, che conosceva invece così bene, dei quali sapeva riconoscere istantaneamente ogni tonalità e sfumatura. La sua intera memoria era costituita da immagini e colori e mentre si muoveva freneticamente (da destra a sinistra, dall'alto verso il basso), ne assorbiva di nuovi, nuovi colori e nuovi gesti, nuove immagini, quasi fossero il suo nutrimento quotidiano. Non che la stanza offrisse grandi possibilità di svago o spunti d'interesse, originalità. Anzi, la vita che scorreva al suo interno, le vicende che trovavano spazio tra le sue mura, erano estremamente ripetitive e monotone. Per questo iniziava a pensare che, forse, se soltanto quel piccolo scorcio di mondo fosse stato accompagnato da suoni e rumori, la sua condizione attuale sarebbe potuta risultare meno degradante. No, non meno degradante, meno deprimente. Meno insostenibile, forse.
L'occhio si mosse ancora nella porta per voltarsi al suo interno, provocando un generale sospiro di sollievo tra gli impiegati del Ministero intenti a produrre depliant. Preferivano infatti di gran lunga quel biancore quasi accecante al blu innaturale di quell'iride mostruosa, perennemente puntata su di loro.
L'ufficio di Dolores Jane Umbridge non costituiva più per lui una distrazione da tempo ormai, ma ispezionarlo regolarmente era un'abitudine a cui non riusciva ancora a sottrarsi. Questo nonostante l'unica, invariabile sfumatura di rosa che serpeggiava per l'intero ambiente gli risultasse estremamente fastidiosa. Nonostante conoscesse ormai a memoria i limitati gesti che i numerosi felini potevano compiere all'interno dei loro piatti di porcellana. Ad ogni modo non rimaneva mai da quel lato della porta troppo a lungo. La sua meschina immaginazione gli tirava spesso brutti scherzi, imprimendo sulla sua retina l'immagine di decine di gatti che abbandonavano i loro piatti ornamentali e saltavano a terra con aria minacciosa per dirigersi verso la porta, che scalavano poi con le loro unghie ostili e affilate. I gatti lo staccavano a forza dalla porta, si dilettavano a farlo rotolare sul pavimento lucido, giocando con lui come fosse stato un gomitolo di lana. Poi, immancabilmente, i felini diventavano affamati; allora l'occhio aveva paura e poneva fine all'incubo tornando ad osservare ciò che avveniva dall'altra parte della porta.
Quando vide entrare il ragazzo, si stupì che nessun altro lo notasse. Il lavoro non poteva certo distoglierli a tal punto, pensava. Ovviamente non poteva essere a conoscenza della straordinarietà della sua vista, non poteva sapere che non solo con il suo sguardo riusciva a non farsi ingannare dagli effetti della Pozione Polisucco, ma che addirittura era in grado di penetrare la protezione del Mantello dell'Invisibilità, creazione della Morte in persona. Si basava semplicemente su quel che osservava, senza sospettare minimamente (e come avrebbe potuto?) che potesse non coincidere con ciò che scorreva di fronte agli altri occhi presenti della stanza. Di fronte a qualunque occhio umano. Lo vide guardarsi un po' intorno prima di notare proprio lui, incastonato lì, nel legno chiaro, come una pietra preziosa, un turchese scintillante. Un tesoro ostentato. L'espressione addolorata che assunse il suo volto quando comprese in che modo barbaro lo stessero sfruttando lo rincuorò un po', facendolo sentire meno solo. Non poteva riconoscerlo in quanto "Harry Potter", poiché non aveva mai sentito pronunciare il suo nome, né udito narrare le sue gesta, ma sapeva chi quel giovane fosse attraverso le numerose immagini di lui che serbava nella sua memoria fotografica. Sapeva, dunque, che poteva considerarlo un amico, che poteva fidarsi di lui. Ciecamente. Se avesse posseduto una bocca avrebbe probabilmente sorriso.
Da quel primo momento in cui il giovane varcò la porta dell'ufficio in cui gli impiegati eseguivano gli ordini del nuovo Ministero, tutto avvenne molto in fretta, l'occhio si ritrovò presto in una delle tasche del ragazzo e tutto si fece oscurità.

Fu estremamente felice quando venne nuovamente tirato fuori e lasciato libero di vedere, nonostante la luce, in un primo momento, gli desse fastidio. Da quel che poteva osservare, si trovavano in un bosco e il ragazzo stava armeggiando ai piedi di un albero. L'occhio poteva scorgere la piccola buca che si andava profilando tra le spesse radici della pianta. Quando ebbe finito, il giovane lo prese con delicatezza tra le mani e lo depose sul fondo. Lui non capiva di preciso cosa stesse succedendo, ma, nonostante non si sentisse particolarmente a suo agio, non si preoccupava ancora. Del resto Harry Potter, sebbene non ne conoscesse il nome, era suo amico, di lui si poteva fidare ciecamente. Ora la terra lo ricopriva quasi completamente e le ultime cose che vide prima che l'oscurità lo avvolgesse nuovamente furono uno scorcio di cielo e una cicatrice a forma di saetta.
Il buio all'occhio non piaceva, non poter vedere lo spaventava, era per lui mostruosamente innaturale. Ma Harry Potter era suo amico e lui era fiducioso, fiducioso che quella che per lui era una crudele tortura non sarebbe durata a lungo, di certo aveva alle spalle una valida motivazione. Harry non lo avrebbe mai privato inutilmente della vista, di tutto ciò che costituiva la sua esistenza. Non lo avrebbe mai abbandonato sotto terra.
Di certo non lo avrebbe lasciato ad osservare le tenebre per l'eternità.

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