Note al capitolo

Ritorna ancora e prendimi,
amata sensazione,
ritorna e prendimi,
quando si ridesta viva la memoria del corpo,
e l'antico desiderio di nuovo si versa nel sangue,
quando le labbra e la pelle ricordano,
e la carne,
e le mani,
come se ancora toccassero.
Ritorna ancora e prendimi,
la notte,
quando le labbra ricordano,
e la carne…
                                                                Constantino Kavafis

“Corrupt you corrupt and bring corruption to all that you touch…”

La donna si pettinava i capelli lunghi e immobili, che impertinenti rifiutavano le carezze della spazzola, arricciandosi ugualmente ad ogni nuova passata. Erano rossi, ma non quell’arancione slavato che tinge le deprimenti code di cavallo delle camerieri irlandesi, che pendono tristi, pallide e un po’malsane in attesa della fine del turno, ma un rosso vivo, carico, sontuoso, una buccia setosa di lamponi o un trionfo di papaveri e falò, che in una gioventù mai terminata le aveva fatto guadagnare il buffo nomignolo di “Strawberry”.
Non ricordi? L’insolita scritta sul muro, in grandi caratteri neri tracciati dalla sua lunga bacchetta, che abbagliavano con un sorriso indulgente chi la leggeva, là, sul muro di pietra liscia della vecchia curva sulla collina, quella che portava a Villa Bliss. Quante volte l’aveva letta tornando da scuola all’alba dell’estate, scivolando sulla bicicletta cigolante mentre i piedi sfioravano la terra battuta, e i suoi capelli prendevano fuoco al sole ardente d’agosto, come la scia veloce di una cometa. Tu sei la stella e io seguo la sua coda.
FRAGOLA TI AMO ALLA FOLLIA

“…Hold, you behold, and beholden for all that you’ve done…”


Lo specchio ovale rifletteva la sua bella immagine, il tavolino di ceramica scheggiata e legno di ciliegio luccicavano alla luce del vecchio e malconcio lampadario di cristallo, a cui mancava qualche pendente qua e là, probabilmente rubato e conservato gelosamente come una reliquia dalle mani di una bambina bella come i campi sterminati di tulipani rossi. Il letto, sfatto, aveva ancora l’impronta del suo corpo esile, e forse di qualcun’ altro che non era sicura di avere sognato.

 

Il pendolo del salotto batté le due di notte dell’otto aprile del 1976 secondo le stime dei calendari inglesi.


Aveva mani piccole e dita sottili che passavano distratte un impronta di fard sugli zigomi e un altezza poco considerevole, un metro e sessanta scarso, ma, attenzione, raggiungeva i settanta con le scarpine più audaci che aveva. Indossando il mantello verde cupo controllò sua figlia dormire beata accucciata nel letto, socchiudendo appena la porta per non svegliarla. Sorrise, come fanno tutte le madri guardando i loro figli dormire docili, piccoli o grandi che siano, e mentre con lo sguardo sfiorava i riccioli neri sparsi sul suo viso, non poté fare a meno di ricordare quanto assomigliava a suo padre, e quanto questo pensiero fosse banale per tutte quelle madri sedotte e abbandonate, come nei più desolanti film d’amore.

“…Spell, cast a spell, cast a spell on the country you run…”

Nei film d’amore, di solito, la madre sedotta e abbandonata si ritrova a carico un figlio non desiderato, che con sacrificio e dolcezza impara a desiderare. Dopo anni di fatica, sacrifici e umiliazioni, la madre sedotta e abbandonata realizza il suo sogno lavorativo che mette alla prova il suo notevole intelletto, e, ovviamente, si innamora dell’affascinante e terribilmente anni ottanta proprietario della nuova barca ormeggiata al porto/turista/dog sitter/cameriere italiano o simili che in realtà si rivela figlio in fuga del presidente/primo ministro/imprenditore di successo/avvocato della situazione. Ovviamente lui adora il figlioletto e il figlioletto adora il nuovo papà e insieme vivranno nella bella casa bianca con il Labrador sorridente che sbava e rotola sul prato.
Josie W. Bliss, per intenderci la donna dai capelli color lampone, dubitava fortemente dell’arrivo del figlio in fuga del primo ministro, considerando che il poveretto era sterile. E se anche fosse arrivato qualche altro principe azzurro a bussare alla sua porta, sua figlia gli avrebbe probabilmente vomitato sulle scarpe piuttosto che rivolgergli la parola.
Meredith assomigliava anche questo a suo padre: poca confidenza agli sconosciuti se non per ardite manipolazioni. Lo sguardo penetrante e malizioso era lo stesso, così pure un acerbo egoismo, un’intelligenza superiore ai suoi coetanei, una sete inappagabile di conoscenza, una sottilissima isteria e la paura degli spazi stretti e della folla.
Perché non si può respirare quando tutti ti rubano l’aria, Josie, non vedi, è come se lo facessero apposta a starti così vicino.


“…And risk, you will risk, you will risk all their lives and their souls…”

Chiudendo a chiave la porta del piccolo appartamento, sigillandola con doppi incantesimi di sicurezza, sapeva comunque di non correre nessun pericolo. Di quei tempi andava di moda stare all’erta, poiché era l’epoca in cui colui che si faceva chiamare Voldemort produceva chili di materiale giornalistico (stragi familiari, sparizioni, note cacce al babbano di grande successo…) e il Profeta era saturo dalla prima all’ultima pagina di terribili notizie che portavano la sua firma. Anche se pochi osavano pronunciare il suo nome, preferendo sciocchi virtuosismi verbali per riferirsi a lui, Josie tendeva a non usarlo semplicemente perché lo riteneva di orrida cacofonia. Fin dai tempi della scuola, aveva detestato quel soprannome inquietante da cattivo dei cartoni animati, (buffe sequenze di immagini e suoni inventate dai babbani per non far annoiare i figli adolescenti al pomeriggio). Certo, era un nome babbano, ma Tom non le era mai dispiaciuto.
Sul collo, Josie portava due gocce di profumo, mentre il mantello era impregnato di lavanda e strani odori alchemici.
Lo lasciava spesso al laboratorio, e tutte le volte si caricava di fumi indecifrabili che salivano da scoppiettanti e colorate pozioni. Ormai aveva rinunciato a levargli quell’aroma confuso e se lo teneva addosso confortata dalla sua familiarità. Aveva sempre amato il suo lavoro e ancora di più insegnarlo, anche se pochi alunni apprezzavano appieno la raffinata arte dell’Alchimia. Era fin troppo complicata per dei quattordicenni, troppo esoterica, ci si confondeva tra le solennità ostinate dei libri.
Qualche anno prima una pozione mal riuscita (o forse riuscita splendidamente), era esplosa dopo che le sue mani sempre fin troppo distratte avevano sbagliato il dosaggio di Gynostemma pentaphylum, rovesciando su di lei grandi quantità di una vischiosa sostanza madreperlacea. Le era entrata dentro, nella pelle, l’aveva inghiottita, rischiando di soffocare, ma ne era uscita incredibilmente viva e sana come un pesce, senza l’ombra di un’ustione, nonostante il contatto bollente che aveva avvertito. Questo accadeva quattordici anni prima. Quattordici anni dopo, Josie non ricordava cosa diavolo aveva messo in quel calderone, ma non contava una ruga in più di quel fortunato giorno, non un capello bianco, non un cedimento della pelle. Era eternamente giovane. Non sapeva però se gli effetti miracolosi di quella pozione si estendevano alla vita eterna, ma ne dubitava fortemente, aspettava infatti da un momento all’altro di cadere stecchita per terra.


Il ticchettio dei tacchi risuonava sinistro per la via deserta e nebbiosa, costellata di ricordi. Lì, proprio in quell’angolo, una mattina d’estate si era fermata a succhiare un’arancia seduta sullo scalino, là, sui tavoli deserti della gelateria, la ragazza coi capelli neri e il grembiule stracciava a carte i clienti, nella vetrina vuota una volta scoppiavano mirabolanti e innocui fuochi d’artificio, e col naso spiaccicato contro il vetro, stormi di bambini si fermavano a guardare.
Scivolò dentro il vicolo senza neanche accorgersene. Dalle finestre giungevano bagliori sinistri, qualcuno era ancora alzato, o non aveva intenzione di coricarsi. Un alto signore con il cappello calato sugli occhi e il bavero alzato passò veloce alla sua destra, ondeggiando in un lungo e lugubre mantello nero. La stradina le si apriva davanti come se l’avesse già fatta centinaia di volte, gli irregolari scalini erano fin troppo familiari, i negozi dall’aria vuota e trascurata si affollavano tra le strette pareti delle case. Nocturn Alley non aveva mai un aria accogliente. Tirò fuori un pesante mazzo di chiavi, e, nervosamente, guardandosi intorno, cercò la lunga chiave d’ottone, consunta dal tempo. La infilò nella serratura di una porta scheggiata e leggermente storta. La chiave smosse i cardini non oliati da tempo immemorabili, resuscitò le sue giunture addormentate, aprendosi con un lamento.
Bentornata a casa.
L’odore di vecchio e di chiuso le invase le narici. Tastando le pareti cominciò a salire le scale ripide e sconnesse, mentre, per qualche strano motivo, il respiro le si affollava in gola
Le quattro parenti dipinte erano sempre le stesse, anche se non le vedeva. Di notte le erano sempre parse inquietanti. Per terra, i passi restavano silenziosi sullo spesso strato di polvere. Il profumo di vecchie alchimie, di vernice, di vaniglia e limoni, era ancora percepibile, conservato come in un’ampolla, o forse era solo la sua immaginazione.
“In vena di ricordi nostalgici?” mormorò una voce assolutamente reale, dolce e malsana, alle sue spalle. Josie inghiottì l’aria fredda.

Il film d’amore di Josie andava contro tutte le regole soprascritte. Ad appena ventiquattro anni, era sì madre, sì sedotta e sì abbandonata, ma senza alcun umiliazione e anzi un ottimo prestigio dovuto al suo talento e al suo sangue blu, per esattezza una purissima discendenza di avi severissimi e donne straordinarie che culminavano con la madre, Wilelmina, femminista, scandalosa, ribelle ed eccellente maga, bella e terribile come un esercito schierato in battaglia, primo ministro della magia donna, contessina del Galles maritata con il Duca di York. E dieci anni dopo dall’abbandono il mentecatto era tornato, le labbra cucite nella scusa
Avevo-bisogno-dei-miei-spazi. Ammetto che forse era più complicato di così, ma per Josie era stato difficile dimenticare il primo amore, i suoi occhi neri, le mani che scivolavano su lenzuola bagnate dai sospiri delle prime volte, l’amore folle e profondo che li aveva legati per nove lunghi anni. Si era rifiutata di donargli altri sguardi che uno di furioso rancore luccicante di lacrime ed era tornata alla sua vita salda e tranquilla. Quello che Lui era diventato non le apparteneva più, e quella che lei era sempre stata se l’era fatto sgusciare dalle mani. Ma a volte, gli capitava, nel sonno, di sentire una carezza invisibile, di svegliarsi agitata sussurrando il suo nome, di piangere senza motivo e di morire di paura leggendo le terribili notizie sul giornale.
Sapeva che nulla poteva farle del male, perché il male più grande la proteggeva, e tutti i mali minori prendevano ordini da Lui. Ondeggiando nel senso di colpa della sua frustrante situazione, non potendo fare a meno di addolcirsi davanti a quegli immutati e penetranti occhi neri, temeva addirittura di perdere il senno e perdonare gli omicidi, le torture, le stragi. Si consolava nel pensiero di non toccarlo da vent’anni, ma a volte non ne era così sicura, faceva dei sogni strani e si svegliava con la pelle tatuata del tocco di qualcuno.

Josie inghiottì l’aria fredda e si girò ad affrontare il drago.
“Che diavolo vuoi?” sbottò freddamente, torturandosi l’orlo del mantello, fissando le ombre scure. A grandi passi l’uomo le si avvicinò, gli prese il bel viso tra le mani e la guardò negli occhi color nocciola.
“Ma che domande, bambina mia…” Sussurrò Tom Ridde, sollevandola tra le sue braccia forti.

“…And burn, you will burn, you will burn in hell, you will burn in hell for yours sins.”


Citazioni ricavate da “Take a bow”, primo pezzo dell’ultimo album dei Muse, Black Holes and Revelations.

Posta una recensione

Devi fare il login (registrati) per recensire.