1. Capitolo 1 di Doralice
2. Capitolo 2 di Doralice
3. Capitolo 3 di Doralice
4. Capitolo 4 di Doralice
5. Capitolo 5 di Doralice
« Helga, ma non ti stanchi mai? »
« Perché dovrei stancarmi? Sei tu che lavori! »
Il vecchio guardò la bambina in tralice, con i suoi occhi ormai bianchi dalle cataratte. Helga sorrise, consapevole dell’effetto che aveva fatto sul nonno. Era la sua preferita, e lo sapeva, anche se lui non glielo diceva mai.
Le piaceva stare a guardare mentre lavorava, tanto che sarebbe rimasta per ore ad osservarlo, in silenzio. Era quasi cieco, ma le sue mani erano abili come solo quelle di un artigiano baltico potevano esserlo.
Il vecchio lavorava l’ambra, di cui quella regione era molto ricca, e creava gioielli splendidi. Il padre di Helga era un mercante: vendeva i lavori del suocero nei mercati delle città della contrada, e di là partivano alla volta di terre lontane, per finire nelle mani dei ricchi signori.
« A chi andrà questo monile? » gli chiese.
Lui alzò la collana verso la luce che filtrava dalla finestra: « Alla figlia di un principe di Bisanzio. »
« La indosserà per il suo matrimonio? »
Il vecchio la guardò di nuovo, ma stavolta Helga non si accorse del suo sguardo. Era persa nelle sue fantasie, le fantasie che solo una ragazzina i 13 anni poteva avere. Anche una smaliziata e intelligente come lei.
La madre entrò nella stanza e interruppe i suoi pensieri.
« Helga, tuo padre è tornato. » annunciò.
La ragazza sospirò: « Vado a preparare la cena. »
Helga amava cucinare, fosse stato per lei sarebbe stata tra i fornelli tutto il giorno. Ma la madre aborriva i lavori di casa, e lei era l’unica figlia femmina. Morale della favola: i lavori di casa erano tutti sulle sue spalle e cucinare era diventato più un peso che un piacere.
Senza contare che nella sua famiglia lei era l’unica ad apprezzare le novità, tutti gli altri disdegnavano le nuove ricette che proponeva, anche le piccole variazioni. L’unica volta che aveva osato preparare un piatto esotico, aveva ricevuto un ceffone.
Un uomo dai capelli bagnati e la barba incolta entrò in cucina, mentre lei mescolava la zuppa.
« Ben tornato, padre. » disse da sopra il paiolo.
L’uomo le scompigliò distrattamente i capelli.
« Dove sono i tuoi fratelli? » chiese odorando la pietanza.
Helga si morse un labbro, ma il suo tono fu calmo e rispettoso quando parlò. Una femmina deve parlare poco – lei lo sapeva bene – e quel poco lo doveva dire in modo appropriato.
« Petri è andato al fiume a pescare, Arne e Miska sono da zia Jenna. Sampsa non so, non lo vedo da questa mattina. »
Il padre uscì, lasciandola a mescolare la zuppa, e si recò dal nonno. Helga cercò di fare meno rumore possibile e aguzzò le orecchie.
« No, non molto, questa volta. » stava dicendo il padre.
« È la moda. – ribatté il nonno – Ora la gente ricca vuole le turchesi e i lapislazzuli e gli smalti d’Egitto. »
Ci fu un momento di silenzio, poi il padre aggiunse: « Devo parlarti di Helga. »
« Lo immaginavo. Cosa hai deciso? » chiese il vecchio.
« Non può più stare qua. È utile in casa, ma ormai è troppo grande. »
Helga ebbe un sussulto, per poco non le cadde a terra la brocca che aveva in mano.
Il nonno emise un suono a metà tra un ringhio e un colpo di tosse.
« Non è ancora fertile, nessun uomo la prenderebbe. Vuoi forse farla monaca? »
« No, ma non voglio trovarmi con un bastardo tra capo e collo. » replicò il padre.
Il nonno ridacchiò: « Helga non è così sciocca. »
La ragazza sorrise e, con la brocca ancora in mano, si accostò alla porta per sentire meglio.
« Non può evitare il suo destino di femmina e non voglio andarci io di mezzo. – continuò il padre – Ricordi la figlia del macellaio? »
« Ti sei fatto influenzare dalle leggi del Nazzareno. » disse amaramente il vecchio.
« Non posso correre il rischio di accollarmi un’altra bocca da sfamare. » ribadì il padre.
La porta dell’ingresso si aprì con uno schianto e un gran vociare giunse dal corridoio. I due uomini furono investiti dal turbine dei fratelli di Helga e lei non poté sentire il resto della conversazione.
I ragazzi presero a parlare contemporaneamente.
« Padre, ho visto il carro passare davanti al fiume, ma era troppo veloce. »
« Ce li hai portati quei foderi che avevi promesso, padre? »
« A cena potrai gustare i pesci che ho pescato! »
« Bugiardo, li hai barattati al mercato con la tua cinta! »
« Non è vero, li ho pescati per nostro padre! »
« Ah, sì? E come facevi a sapere che sarebbe tornato proprio oggi? »
L’uomo li interruppe prima che si accapigliassero.
« Dov’è Sampsa? » chiese, ma i ragazzi non seppero rispondergli, e lui li congedò e andò da sua moglie.
Helga, che fino a quel momento aveva continuato a cucinare senza perdersi una parola, dovette ora lottare contro i fratelli, che cercavano di arraffare tutti cibi che avevano a portata di mano.
« Non rovinarlo, sorella, ho sudato come un bue per acchiapparlo! » disse Petri piazzando il pesce sul tavolo senza tante cerimonie.
La ragazza li scacciò via a colpi di mestolo.
Quando furono lontani, abbandonò i lavori precedenti e prese raschiare le squame del pesce con un grosso coltello.
Maledetti delinquenti, che la peste vi colga… per voi tutto è facile, tutto è scontato… ma cosa è scontato per me? L’intera vita mia è già decisa, e dunque niente, non c’è niente di scontato… perché per voi l’ignoto è scelta, per me invece è obbligo.
Raschiava e raschiava.
Ma che sto a fare, qui? Dovrei fuggire, finché sono in tempo, e il nonno m’aiuterebbe… sì, e dove andresti, tu, che a parte mestolo e paiolo non sai usare? Ma ogni alternativa è meglio della prigionia! O è forse meglio accettare il pollo che tuo padre di appiopperà, sposarlo e aspettare pazientemente che crepi? Tanto avrà minimo 30 anni più di te…
Raschiava e raschiava, sempre più forte.
Forse dovrei davvero farmi monaca… meglio monaca che sposa, di certo. E poi, se fossi fortunata, potrei imparare a leggere… dovranno pur leggere da qualche parte la vita del loro Nazareno, mica se la impareranno a memoria! Ma se così non fosse… no, grazie, io già ho dimenticato che giorno è oggi.
Raschiava con sempre maggiore rabbia.
E a cosa diamine mi serve questo dannato cervello? Eh?! È forse frutto del demonio? O è opera divina? Dio, perché me l’hai dato? Forse per farmi soffrire con più gusto? Il nonno ha ragione, hai uno strano senso dell’umorismo, tu…
« Helga, che stai facendo a quel povero pesce?! »
La ragazza si fermò di colpo. Con il coltello a mezz’aria, guardò la madre, ferma sulla soglia della cucina, che a sua volta la osservava esterrefatta. Abbassò lo sguardo: il pesce di Petri – da lui pescato o barattato che fosse – era diventato una poltiglia.
Sampsa non arrivò nelle ore successive e neanche si fece vedere per cena. Il padre di Helga era furioso. Nessuno della famiglia, nemmeno la moglie, osava rivolgergli la parola. I ragazzi mangiarono in silenzio, aspettando con ansia che si finisse e che potessero rifugiarsi nella loro stanza.
L’uomo stava finendo di mangiare la lepre e la moglie fece per riempirgli la coppa di sidro, ma si accorse che era finito.
« Helga, valla a riempire. » disse la madre porgendole la brocca.
La figlia si alzò in silenzio, la prese e si diresse nella cantina. Quando tornò, versò il sidro nella coppa del padre. L’uomo non la guardò, ma quando lei ebbe finito e poggiò la brocca sul tavolo, facendo per tornare al suo posto, l’agguantò per un braccio.
« È così che si serve a tavola? » le chiese, e senza aspettare riposta alcuna le assestò uno schiaffo.
Nessuno commentò od osò guardare, solo la madre osservava con occhi apprensivi la scena. Helga stava ora immobile di fianco al padre, con una mano sulla guancia, a testa bassa, cercando di non piangere. Nel vederla immobile, l’uomo si spazientì maggiormente.
« Sei idiota, forse?! – ringhiò l’uomo scrollandola – Devo dirtelo io che devi versare il sidro anche a tuo nonno? »
« Non è necessario, Risto, ne ho ancora un po’. » disse il vecchio tranquillamente.
« Comunque doveva chiedertelo. – replicò il padre seguitando a mangiare – Non imparerà niente se non le insegniamo come deve comportarsi. »
La madre si sentì punta sul vivo: era a lei che spettava l’educazione di Helga.
« Credo che abbia avuto una buona lezione, Risto, non c‘è bisogno di ulteriori - »
Non riuscì a finire la frase, perché il marito aveva dato uno schiaffo anche a lei, tanto forte da farla barcollare sulla sedia. Helga emise un gemito e corse dalla madre. Le due si strinsero, piangendo sommessamente.
« Ora dimmi, Uljas, come posso fidarmi a lasciare a casa per mesi, da sole, due donne del genere? » chiese il padre con una smorfia.
Il vecchio non rispose, ma si alzò, e con lui i ragazzi, lieti di poter abbandonare la mensa. Gli uomini uscirono dalla stanza, lasciando le due donne da sole.
Helga e la madre restarono abbracciate per un po’, finalmente libere di poter piangere senza preoccuparsi di soffocare i singhiozzi. Per qualche minuto, la ragazzina credé di essere finalmente vicina alla donna che era stata sua madre, ma che da qualche tempo considerava niente più che una parente con cui era costretta a vivere. Ma l’incanto finì presto.
« Sparecchia e lava le stoviglie. – disse la madre scrollandosela di dosso e asciugandosi il viso – Vado a dare il mangiare alle galline. »
Helga la osservò andare via, poi guardò fuori dalla finestra. Non c’erano stelle, il cielo era coperto: stava per piovere. Già lo sapeva, sarebbe dovuta andare lei a finire il lavoro della madre, e magari si sarebbe pure beccata un bel raffreddore.
Sentì un rumore provenire dal corridoio e, spaventata, si mise a fare ciò che la madre le aveva ordinato, ciò che faceva ogni giorno. Gli uomini erano nella stanza del caminetto, ma lei non voleva farsi trovare con le mani in mano e dare, così, modo al padre di picchiarla ancora.
Rifletteva su quanto che era accaduto. Ciò che l’aveva sconvolta non era tanto lo schiaffo – di quelli ne aveva ricevuti a bizzeffe – quanto il fatto che il padre avesse picchiato anche sua madre, cosa che mai aveva fatto, per lo meno davanti a loro.
E le sue parole erano altrettanto inquietanti: stava davvero pensando di mandarla via di casa? Helga non sapeva cosa sarebbe stato peggio, se restare in quella casa o andare incontro ad una vita ignota. Sapeva cucinare, ma bastava questo per fare di lei una buona moglie? Non era brava in niente e temeva di non esserlo nemmeno in quelle cose in cui le donne, per natura e tradizione, erano ritenute esserlo: fare figli e tirarli su.
Certo, se l’avessero mandata via, sposa o monaca, probabilmente non avrebbe più rivisto il nonno. Ecco, questo era l’unico motivo per preferire di rimanere zitella e invecchiare in quella casa. Ma come avrebbe mai potuto impedire a suo padre di decidere per lei? Poteva pregare il nonno di dissuaderlo: lui aveva una buona influenza sul genero. Ma Helga sapeva che, se il padre avesse preso quella decisione, niente e nessuno avrebbe potuto ostacolarlo.
Terminate le incombenze, notò che Sampsa non era ancora arrivato e si chiese dove fosse finito. Con un moto di stizza, pensò che era colpa sua se il padre era stato così nervoso per tutta sera e che, se non fosse tornato presto, la situazione sarebbe degenerata.
Quando si fu assicurata che tutti erano andati a dormire, si lavò il viso e le mani, e andò nella stanza del nonno, la stessa che gli serviva anche per lavorare. La ragazza aveva preso l’abitudine di passare da lui, prima di andare a dormire, per chiacchierare un po’, come solo loro due erano capaci.
Il nonno non era colto, né geniale. Era una persona semplice: ultimo di una lunga generazione di orefici, non aveva mai lasciato il suo paese natale e sapeva a malapena scrivere il suo nome. Tuttavia, aveva la saggezza dell’esperienza ed era abbastanza vecchio da non lasciarsi più sopraffare dalle tribolazioni terrene. Helga gli diceva, a volte, che era come uno di quegli eremiti cristiani che vivevano sulle colonne e digiunavano e non si lavavano mai. E lui le rispondeva che era un modo molto gentile ed ironico per fargli notare che forse doveva farsi un bagno.
Quella sera, però, Helga non aveva alcuna voglia di scherzare. Doveva parlargli, capire il suo punto di vista, chiedere consiglio e aiuto, e soprattutto sfogarsi. Entrò dunque nella stanza e si piazzò risolutamente sulla branda, in silenzio.
« Sei malata, Helga? » gli chiese il vecchio dopo un po’.
La nipote lo guardò perplessa: « No, nonno, che dici? »
« Non è da te essere così taciturna. » spiegò lui con un sorriso.
Helga si commosse, inspiegabilmente, e fu presa da un pianto improvviso. Abbracciò il nonno e, anziché quel discorso serio che aveva intenzione di fargli, cominciò a parlare sconnessamente.
Gli disse che non voleva lasciarlo, che era l’unica persona per la quale lei contasse qualcosa e che non aveva intenzione di rinunciare a lui… che avrebbe lottato col padre, sarebbe scappata di casa, avrebbe finto di uccidersi per non andarsene… e così via, tra singhiozzi e frasi a lei stessa indecifrabili.
Il vecchio la lasciò sfogare, dandole benevole pacche sulle spalle e ripetendo « Su, su… » a qualsiasi cose lei dicesse. Quando si fu calmata, la scostò gentilmente, così da potersi finalmente muovere. Senza dare spiegazione alcuna, batté sul muro rivestito di legno, fino ad individuare la tavola giusta. La rimosse, vi frugò dentro ed estrasse un sacchetto di pelle, che mise in mano a Helga.
« Aprilo. » disse, semplicemente.
La ragazza tirò su col naso e guardò il sacchetto, sorpresa e curiosa al contempo.
« Da che ricordo, non c’è niente che morda, là dentro, sai? » le fece notare il nonno, e finalmente lei si decise ad aprirlo.
Sulla sua gonna rotolò un grande pezzo d’ambra. Niente di eccezionale, ne aveva visti di dimensioni ben maggiori. Ma Helga, senza fiato dalla sorpresa, notò presto che ciò che aveva in mano era speciale.
Inclusa nella resina fossile, era intrappolata da chissà quanti secoli una strana creatura. Era, all’apparenza, un uccellino, ma da che aveva memoria, Helga non ricordava di averne mai avvistato uno simile. Completamente rotondo, con un lungo becco sottile ed occhietti che, nonostante il giallo dell’ambra, si intuiva fossero di un rosso acceso. Le piccole ali – o quelle che sembravano essere le ali – erano del tutto diverse da qualsiasi genere di ali avesse visto.
« Ma che creatura è?! » chiese infine Helga, dopo averla osservata a lungo.
« Non ne ho idea. » disse semplicemente il nonno.
« No… no! » gridò Milla, gli occhi fuori dalle orbite.
Risto emise un rantolo e si lasciò cadere sulla sedia, come un pupazzo.
Erano passati tre giorni, ma di Sampsa neanche l’ombra. La famiglia aveva cominciato a preoccuparsi, così il padre di Helga aveva chiesto aiuto in paese e avevano organizzato delle ronde per cercarlo.
L’avevano trovato, alla fine, i fratelli. Era nel bosco, vicino alla palude, coperto di foglie secche. La gola tagliata, un nugolo di mosche e vermi grossi come dita che gli divoravano le carni. Arne vomitò, mentre Miska copriva il cadavere col suo mantello e Petri chiamava gli altri.
Con la madre semisvenuta fra le braccia, Helga si sentì come se la gola gliel’avesse tagliata di suo pugno, al fratello. Ricordava con orrore i pensieri velenosi che giorni prima aveva fatto su di lui. Sampsa era il maggiore, il preferito del padre, e si rese conto solo in quel momento che l’invidia nutrita nei suoi confronti l’aveva accecata davanti alla sua bontà.
Eppure, Sampsa era quello che non le tirava le trecce quando era annoiato, che intagliava per lei piccoli animali nel legno e che gradiva sempre la sua cucina. Quando era piccola, dormiva con lui nelle notti più fredde. Helga pianse lacrime di pentimento e vergogna.
Lo seppellirono in fretta e furia, perché i miasmi non si diffondessero e non costringessero a bruciarne il corpo. E Helga pregò per lui – lei che non l’aveva mai fatto – mescolando orazioni cristiane con preghiere pagane.
Il giorno stesso, il padre convocò tutta la famiglia nella stanza del caminetto. Milla prese ad intrecciare nervosamente un cesto, imitata dalla figlia.
« Ora sei tu, Miska, il mio erede. – disse in tono freddo – Domani parto per Tallin, mi accompagnerai nel viaggio, e così sarà per i seguenti. »
« Come mai devi… partire così presto? » bisbigliò Milla, senza alzare lo sguardo dal cesto. E avrebbe voluto aggiungere: perché porti Miska? È troppo giovane, non avevi mai portato neanche Sampsa.
« Ho ricevuto una commissione, non c’è alcun motivo perché ritardi ancora la consegna. – spiegò meramente il marito, poi si rivolse agli altri due figli – Petri, Arne, da domani vostro nonno vi farà da insegnante, sarete a bottega da lui per imparare il mestiere di orafo. »
I due ragazzi annuirono mestamente.
« Uljas, ti affido la custodia della casa e della famiglia, come sempre. » disse al suocero.
« E a te, Milla, – disse infine alla moglie – affido il compito di trovare marito a Helga. »
Lo disse così, senza nessun tono, senza alcuna sfumatura. Poi si alzò e andò a preparare i bagagli. Gli altri si apprestarono silenziosamente alle loro faccende.
Helga rimase a lungo in silenzio, continuando ad intrecciare il suo cesto. Non c’erano né “ma” né “forse”, era stato deciso, lei si sposava. Si chiese se la madre avrebbe acconsentito, in fin dei conti, o se non le avrebbe cercato affatto un marito. Al ritorno del padre, avrebbe potuto mentirgli, dirgli che non aveva trovato nessun pretendente decoroso.
D’altronde, era lei che faceva tutto in casa, la madre avrebbe forse rinunciato così alla leggera ad una schiavetta gratuita? Helga scosse la testa. Sì, lo avrebbe fatto. Perché glielo aveva ordinato il padre, perché gli ordini degli uomini non si discutono, perché le conveniva rinunciare ad una figlia-schiava piuttosto che andar contro il marito-padrone.
Helga decise che era giunto il momento di mettersi l’anima in pace e cominciare a preparasi all’evento. Il nonno gliel’aveva detto, la notte prima, che non c’era da illudersi. E all’inizio lei s’era arrabbiata, ma poi aveva capito che l’aveva detto per il suo bene. Perché era meglio soffrire poco a poco e abituarsi al dolore, piuttosto che illudersi e ricevere una stilettata all’improvviso.
Il giorno dopo, il padre partì con Miska. Il nonno sembrava particolarmente pensieroso, e Helga notò per la prima volta come fosse debole e vecchio. Ma non volle rifletterci a lungo: sperava di poter andare a trovare la famiglia anche dopo il matrimonio e non la rincuorava pensare che il suo più caro parente aveva ormai una veneranda età.
Milla organizzò immediatamente una serie di visite. Per Helga era una novità, perché non usciva spesso: l’unica cosa che la madre faceva volentieri, era la spesa al mercato, così lei – che non poteva certo permettersi di uscire quando voleva come facevano i suoi fratelli – era costretta sempre a casa.
Inizialmente, Helga fu felice del cambiamento. La madre dovette accollarsi più mansioni, in modo che i calli delle sue mani diminuissero, che i suoi capelli non fossero sempre unti per i fumi della cucina, e che non fosse sempre sudata e arruffata. Anche loro potevano ricevere visite inaspettate e la prima impressione era importante, come le aveva detto la madre.
Si usciva soprattutto la domenica: Milla cominciò a costringerla a recarsi alla messa cristiana.
« Le donne cristiane sono apprezzate, di questi tempi. » le diceva.
« Madre, io non sono cristiana! » sbottava la ragazzina.
« E questo che importanza ha ai fini di un buon matrimonio? » replicava la donna.
Così, ogni domenica mattina, Helga e la madre si alzavano ben prima dell’alba, per preparare l’acqua calda per il bagno. Si lavavano della tinozza, incastrate, con l’acqua bollente e aromatizzata alle bacche che minacciava di traboccare. Insieme, si strofinavano con cenci insaponati, si risciacquavano e giocavano come bambine. Erano dei momenti speciali, quelli che, molti anni dopo, Helga avrebbe scelto tra tanti per ricordare la madre.
Dopo essersi strigliate per bene, si pettinavano i capelli in trecce e indossavano l’unico abito buono che avevano, lo stesso che mettevano sia per le feste che per funerali. Passava poi a penderle lo zio Vilhelm col carretto, che ogni domenica portava tutta la famiglia alla messa. Così, Helga poté finalmente chiacchierare con delle coetanee, anche se giudicava le cugine non proprio sveglie. La madre le dava ragione, per una volta, ma aggiungeva anche che lei era troppo seria e che con loro almeno poteva svagarsi un po’.
Dopo la messa – durante la quale doveva stare attenta a non addormentarsi – la madre la trascinava al mercato dove, con la scusa delle compere, faceva il giro dei conoscenti e la presentava a tutti. Helga aveva la sensazione di essere un animale da esibizione, uno quelli al seguito dei circhi itineranti. Era comunque sicura che la gente avesse inteso perfettamente i piani della madre e, senza capire bene il perché, se ne vergognava.
Dopo un mese, Helga era una delle fanciulle più quotate del paese. E si chiese il perché. Sì, suo padre permetteva loro un tenore di vita dignitoso, ma non era ricco né influente. E lei non era bella o particolarmente dotata. Scoprì troppo tardi che la madre aveva detto in giro un sacco di frottole su di lei: la dipinse come una piccola, trepidante fanciullina, umile e modesta, che non desiderava altro che servire un marito e mettere al mondo un numero sovrumano di pargoli.
Se fosse venuta a saperlo allora, Helga si sarebbe adirata non poco per la farsa della madre. Ma quando lo venne a sapere, molto tempo dopo, non sarebbe riuscita a provare rancore per lei. Non dopo tutto ciò che la vita le avrebbe riservato.
Comunque, quel tempo era ancora lontano. Ora Helga era nella stanza del caminetto, compostamente seduta tra la madre ed una vecchia, grassa donna dall’aria indurita. Di fronte a lei, un uomo dall’età indefinibile, con ispidi capelli brizzolati, la osservava con sguardo indecifrabile.
Helga scoccò un’occhiata nervosa alla madre. La testa bassa, le gambe unite, le mani intrecciate in grembo: questo era l’atteggiamento decoroso che una fanciulla doveva assumere in presenza di estranei, soprattutto se maschi. Ma la tensione era più forte della timidezza e lei voleva sapere quale era il suo destino.
« Ora ne è convinto, mastro Allan? » disse la vecchia accanto a lei.
L’uomo tirò su col naso e la guardò, poi tornò a fissare Helga.
La vecchia sospirò: « È giovane e forte, che altro vuole? »
« È troppo giovane, madama Ritva. » disse Allan con una smorfia.
La sua voce era atona e strascicata, come se ogni parola pronunciata gli pesasse immensamente.
« Oh, mastro, è proprio incontentabile! – esclamò la vecchia – È stato lei a dirmelo, ricorda? »
« Si, e le ho detto anche, mi pare, che i miei figli hanno bisogno di una madre, non di una sorella. » replicò lui sprezzante.
Helga guardò ansiosa sua madre, ma la donna aveva un’espressione indecifrabile.
« Helga, vai a prendere dell’idromele. » le disse dopo un po’.
La ragazza si alzò e si diresse in cucina, ma prima si fermò un momento vicino alla porta, per ascoltare.
« Non troverà un partito migliore in tutta la contea, mastro… e se glielo dico io, può starne certo! » disse la Ritva con convinzione.
Pronuba, ecco cos’era. Helga finalmente lo capì: quella donna era una pronuba. Di solito erano anziane e zitelle, si occupavano di assistere le famiglie nel combinare i matrimoni. Conoscevano tutta la comunità e vi si muovevano con destrezza. Avevano tanta più influenza su di essa, quanti più matrimoni riuscivano a combinare con successo.
« Mi vuole rifilare una ragazzina, madama. – insisté lui – Io ho bisogno di una donna. »
« Ho forse mai sbagliato un matrimonio? » disse lei in tono offeso.
Ci fu un attimo di silenzio, poi la madre, finalmente, parlò.
« Ha già molti figli, mastro Allan, e Helga non è ancora fertile. » disse.
La ragazza non capì subito cosa intendesse, poi sentì la risata dell’uomo e arrossì.
« Sì, ma lo diventerà. – disse in tono arrogante – E comunque a me serve una donna che sappia occuparsi di bambini, non una ragazzina sprovveduta. »
« Helga si è occupata dei fratelli minori fin dalla loro nascita. – gli fece notare Milla – Non si può dire che sia esperta, ma i tuoi figli non sono lattanti e lei se la saprà cavare. »
Parlava come se stesse descrivendo una giumenta, come se dovesse vendere un capo di bestiame. Helga non voleva più sentirla parlare così. Decise che era venuto il momento di portare del maledetto idromele e, quando rientrò nella stanza, si premurò di annunciare il suo arrivo facendo un po’ di rumore con gli zoccoli.
« Bene, se non ha altro da obbiettare, direi che il negozio è concluso. » disse Ritva alzando la sua enorme mole dalla sedia.
Allan bevve il bicchiere di idromele che Helga gli aveva servito, osservandola come per valutare i pro e i contro, emettendola in imbarazzo. Poi poggiò il bicchiere sul tavolo, si pulì con una manica e si alzò.
« Le farò sapere la decisione di mio marito. » disse Milla alzandosi a sua volta.
L’uomo fece un cenno con la testa ed uscì.
« Buona giornata, madama Milla. » disse la vecchia, e anche lei uscì.
« Be’? » fece Helga appena i due si furono dileguati.
« “Be’” cosa? » replicò la madre senza guardarla.
« Come “cosa”?! Che ha deciso? »
« Mastro Allan è furbo, proprio un buon commerciante. » disse la donna a bassa voce, quasi parlando tra sé e sé.
« Vuol dire che ha accettato? – chiese la ragazza confusa – Lui… mi sposerà? »
La madre pareva quasi seccata dalle sue domande, come se una faccenda che la riguardava così personalmente come il suo matrimonio, non dovesse interessarle.
« Devo parlarne con tuo padre, domani tornerà dal viaggio e gli dirò la sua proposta. »
« Ma… quale proposta? » incalzò Helga.
La donna sospirò: « Ha chiesto una dote più alta di quella che ci aspettavamo. » disse, e la sua espressione ribadiva che il discorso era chiuso.
Helga ebbe la netta sensazione che la madre fosse infastidita, per non dire offesa, dal comportamento di mastro Allan. Non sapeva come andavano quelle faccende, ma pensò che, forse, la madre si vergognava perché la dote dal lui richiesta era troppo alta.
Si rese conto solo in quel momento di quanto era difficile maritare una figlia. Per avere prole era necessaria una donna, una moglie. Eppure, se le famiglie si scapicollavano e spendevano fortune in doti e corredi per maritare bene le figlie, per i maschi non c’era bisogno di tutto quel gran da fare.
A Helga, come per molte altre cose, sembrava profondamente ingiusto tutto questo. Ma d’altra parte, ciò le dava la pallida speranza che il padre rifiutasse l’offerta di mastro Allan, permettendole così passare ancora un po’ di tempo presso la sua famiglia, in attesa di trovare un altro candidato.
Non speraci troppo.
Quella sera tornò dal nonno, a chiedere consiglio.
« Cosa ti angustia, figliola? » le chiese il vecchio.
« Lo sai bene, nonno. » disse lei, corrucciata.
L’uomo sorrise e le passò una mano sul capo, accarezzandole la chioma nera.
« Sai che assomigli a tua nonna? »
« Davvero? » disse lei, trattenendo a fatica un sorriso compiaciuto.
« Davvero. – confermò lui – Era una donna speciale. »
Helga lo sapeva, per questo era contenta del suo complimento. Non aveva mai conosciuto la nonna, che era morta pochi mesi dopo la sua nascita, ma le avevano raccontato tante storie su di lei.
Ai suoi tempi, Irene era stata una delle persone più in importanti della regione. Era una guaritrice e, prima che la diffidenza sorgesse nei cuori, la gente andava da lei per farsi curare. Ricchi e poveri, indifferentemente, affidavano l’anima e il corpo alle sue sapienti mani.
Ormai, Helga aveva la sensazione di conoscerla realmente, come se il suo spirito l’accompagnasse sempre e le facesse da guida.
« Ti devo raccontare una cosa, Helga. » disse il nonno dopo un attimo di silenzio.
La ragazza non l’aveva mai visto così serio e si preoccupò.
« No, non inquietarti. – le disse – È una cosa importante e forse ti sarà difficile da comprendere, ma non è una cosa brutta. »
« Riguarda la nonna? » gli chiese.
L’uomo annuì: « Sì, ma sopratutto riguarda te, Helga, Tasso Paziente. »
« Allora, fammi capire… io sarei un strega? » fece Helga in tono scettico.
« Qualcosa del genere. » disse il Uljas.
« E quella… cosa… rimasta intrappolata nell’ambra sarebbe una bestia magica. »
Il vecchio annuì.
« E la nonna sarebbe stata anche lei una strega. »
« Precisamente, – spiegò il nonno – una strega lappone. »
Helga rimase per un po’ a pensare in silenzio.
« Forse… dovevo seguire il consiglio che mi diede tua nonna e rivelarti le tue origini più avanti. » esitò lui.
« Stai scherzando?! – esclamò la ragazza – Piuttosto, perché non me l’hai detto prima? »
« Non sei sconvolta? » chiese Uljas stupito.
« Certo che no! Intuivo che la nonna non doveva essere una persona qualunque... senza contare che la mamma non ne parla mai, come se se ne vergognasse. » disse lei tutto d’un fiato.
Il nonno rise.
« Irene non voleva che tua madre avesse paura di te, come aveva avuto paura di lei e di se stessa. Avrebbe avuto un effetto negativo su di te, non ti avrebbe permesso di crescere bene, come è successo a tua madre che ha represso i suoi poteri fino a farli morire. – le spiegò – Così, Irene decise di porre un incantesimo su di te. I tuoi poteri sono sopiti dalla tua nascita, si risveglieranno solo nel momento in cui incontrerai un maestro in grado di insegnarti come usarli. »
« Ma qui non c’è nessun maestro. » gli fece notare Helga.
« Lo so, ma tu hai bisogno di riaverli ora. » disse Uljas in tono grave.
« E come posso fare? – fece Helga delusa – Non potrò certo spezzare l’incantesimo della nonna… non sono in grado! »
« Questo lo so bene, tuttavia lei mi lasciò una cosa per te. » disse il vecchio.
E dalla stessa asse del muro tirò fuori un altro sacchetto.
Le mostrò un bastoncino di legno intagliato: « Questa era la sua bacchetta. »
Helga la prese in mano e la osservò a lungo, estasiata.
« Faceva… le magie, con questa? » chiese rigirandosela tra le mani.
Uljas annuì.
« Mi disse che, in caso di necessità, dovevo dartela e farti leggere questo. »
Le porse un frammento di pergamena, che Helga fece non poca fatica a leggere. I suoi genitori non sapevano che, di nascosto, il nonno le dava lezioni di scrittura, ma non era ancora brava.
« Fi… finite… Inca… nta… Incantatem. » mormorò.
« Lei lo diceva muovendo la bacchetta in questo modo. » disse il nonno, e le fece vedere il movimento.
Helga osservò, provò un paio di volte, poi si apprestò a farlo.
« Finite Incantatem. »
Una pioggia di scintille blu cadde dalla bacchetta, spaventandola non poco.
« Cosa… cos’è successo? » balbettò allibita.
Uljas sorrise: « Irene fece in modo che tu non potessi praticare magie, tranne una: questa. Disse che serviva per annullare l’incantesimo che aveva fatto. »
« Quella donna era un genio! » esclamò Helga ammirata.
« Lo so. » disse il vecchio.
« E ora? – fece lei senza fiato – Ora ho di nuovo la magia? Ma non sento niente di diverso! »
« Credo di sì. – disse lui – Ma temo che non potrai usarla subito, ti servirà molta pratica. »
« Sì, lo immaginavo… ma io sono paziente come un Tasso Quieto, no? » rise Helga.
Anche il nonno rise.
« Perché la nonna mi pose questo nome totemico? » gli chiese poi.
« Disse di averlo letto nelle tue stelle. » le spiegò Uljas
« Tutto qui? Be’, ci deve essere una ragione logica… e io la scoprirò. » disse Helga decisa.
Il vecchio sorrise: « Ne sono sicuro. »
D’un tratto Helga si fece triste.
« Ma ora… sono sicura che mio padre accetterà la proposta di Allan ed io presto mi sposerò. Nonno, come farò ad imparare la magia? Avrei bisogno di stare sola, per conto mio… sarebbe già difficile qua, figuriamoci con dei figli a cui badare e un marito a cui render conto. »
« Oh, ma io so che troverai il modo, Helga. – disse il nonno – Sei o no la nipote di Irene la Saggia? Ebbene, un po’ di saggezza l’avrai pur ereditata da lei. »
Helga sorrise: « E chi lo sa? Potrei aver ereditato solo questa bacchetta e una voglia matta di viaggiare. »
Uljas rivolse lo sguardo cieco alla finestra.
« Irene diceva sempre che i desideri sono la voce delle stelle: essi ci guidano lungo il nostro destino, dunque dobbiamo seguirli se vogliamo raggiungere la Meta Ultima. »
« E cos’è la Meta Ultima, nonno? » gli chiese lei.
« Quando la raggiungerai, lo saprai. – rispose lui semplicemente – Ed ora a dormire, o muterò il tuo nome in Tasso Inquieto! »