La fotografia di Fri Rapace

Minerva riceve via gufo una misteriosa fotografia.



Categoria: Post-DH Personaggi: Aberforth Silente, Minerva McGranitt, Ninfadora Tonks, Remus Lupin
Era: Harry a Hogwarts (1991-1998)
Generi: Sentimentale
Lunghezza: Oneshot (1000-?)
Pairing: Altro, Remus/Tonks
Avvertimenti: Nessuno
Sfide: Nessuno
Series: Nessuno
Capitoli: 1 Completa:Parole: 4156 Read: 4286 Pubblicata: 16/08/12 Aggiornata: 13/11/12
Capitolo 1 di Fri Rapace

Minerva alzò gli occhi dai compiti che stava valutando.
“Avanti!” disse, stringendo le labbra quando l’ospite si fece avanti nel suo studio.
“Severus. Gentile da parte tua bussare,” lo salutò senza nascondere un certo sarcasmo.
Lui, con gli occhi inespressivi fissi sul suo viso, infilò una mano nella tasca della veste.
“È arrivato un gufo per te,” scandì lentamente, pronto a registrare qualsiasi sua reazione.
“Gufo che tu non hai esitato a perquisire,” sottolineò Minerva sprezzante. Per proteggere Hogwarts dai Mangiamorte era stata costretta a tollerare che quel traditore assassino assumesse la carica di preside, ma per nulla al mondo gli avrebbe reso il suo sporco lavoro più facile. In ogni parola che gli rivolgeva riversava tutto il disprezzo che nutriva nei suoi riguardi. “Tanto sappiamo entrambi che è del tutto inutile leggere la mia posta, giusto? Noi non siamo degli sprovveduti!”
Era superfluo specificare cosa intendesse con quel ‘noi’, visto che anche Piton aveva fatto parte dell’Ordine della Fenice.
“Non c’era niente da leggere,” tagliò corto freddamente l'altro, poggiando qualcosa sulla sua scrivania.
Minerva non si mosse fino a che non ebbe abbandonato la stanza, concedendosi di abbassare lo sguardo su quella che pareva una fotografia solo quando il suono dei suoi passi lungo il corridoio non si perse completamente.
Sulle prime pensò a uno scherzo di Fred e George Weasley. Quei due scatenati sarebbero stati capaci di spedirle una cosa totalmente priva di senso solo per il gusto di prendersi gioco di Piton e dei Carrow. Con Alecto e Amycus sarebbe stato vincere facile, con il cervello da Troll che si ritrovavano avrebbero potuto passare ore a strofinarsi le dita dei piedi con la lattuga, convinti di nutrire uno schieramento di Vermicoli.
I gemelli, inoltre, avevano un conto in sospeso con Piton: era stato proprio lui a colpire George con la Maledizione che l’aveva menomato per sempre.
Cercò di ricondurre la forma rosea impressa sulla foto al ritratto in primissimo piano di un orecchio, ma fu costretta a scartare subito l’ipotesi: qualunque cosa rappresentasse, non riusciva neppure a capire da che verso osservarla.
Drizzò la schiena, spingendo gli occhiali alla radice del naso sottile. Quella foto poteva essere la richiesta d’aiuto di un membro dell’Ordine disarmato dai Mangiamorte e poi fuggito alla cattura, impossibilitato perciò a comunica via Patronus.
Non riuscendo a cavarne altro, decise di chiedere aiuto a Vitious: chi meglio di un Corvonero per decifrare un messaggio in codice?
Raggiunse lo studio del professore senza correre, schiena eretta e sguardo fermo: l’atteggiamento di chi non ha nulla da nascondere.
La prima cosa che notò una volta entrata furono una manciata di tortine che ballavano in perfetta sincronia sulla scrivania del collega, spargendo nuvolette di zucchero a velo a ogni capriola.
Luna Lovegood, seduta davanti a lui, le osservava estasiata, e si volse verso di lei con il suo sguardo un po’ perso solo dopo svariati minuti, in risposta a un cenno di Vitious.
“Potresti aiutarmi a decifrare questa?” chiese Minerva, sapendo di potersi fidare ciecamente sia di lui che di Luna.
Il piccolo mago aggrottò pensieroso la fronte.
“Un pasticcino alla fragola?” tentò.
Minerva assottigliò le labbra.
“Potrebbe averla mandata Hagrid, non sappiamo dove sia scappato dopo la sua rumorosa festa Pro-Potter,” il suo cuore saltò un colpo. “Non sarà l’invito ad un’altra festa, voglio sperare! La discrezione non è il suo forte.”
La scelta del destinatario del gufo confermava la sua teoria.
“Speriamo!” sospirò Luna, sognante. “La sua festa era stata davvero molto calorosa.”
Vitious osservò la foto da altre angolazioni, poco convinto dalla sua stessa teoria.
“O forse,” ritrattò, indicando le sue tortine danzanti. “Mi sono fatto fuorviare dalla gola, perché quel segno che c’è al centro sembra proprio un…”
Luna spinse indietro la pesante sedia, si alzò in piedi e osservò intensamente quello che il professore stava indicando.
“È un ombelico,” disse senz’ombra di dubbio.
“Esatto,” confermò Vitious, orgoglioso dell’intuito della sua studentessa.
“Un ombelico?” ripeté Minerva, perplessa.
“Certamente, professoressa McGranitt. Ne ho uno uguale anche io, ma la mia pancia è molto più piatta.”
Minerva si massaggiò le tempie.
“La foto di una pancia?” rifletté ad alta voce. “C’è una sola cosa di interesse magico ricollegabile a tale parte del corpo…”
“I Bezoar!” squittì Vitious, rubandole le parole di bocca.
Lei annuì: le preziose pietre si trovavano nel ventre delle capre ed erano un potente antidoto per i veleni.
Ottenere il Bezoar da Lumacorno sarebbe stato un gioco da ragazzi, ma per individuare il membro dell’Ordine in pericolo avrebbe dovuto chiedere aiuto all’unica persona nei paraggi che poteva comunicare direttamente con loro. I Mangiamorte, che usavano il suo locale per i loro traffici, lo lasciavano in pace.
Una gioia del tutto fuori luogo le si allargò nel petto.
 
***
 
Fu nel momento stesso in cui entrò alla Testa di Porco che comprese con quanta intensità avesse atteso di rivederla.
Stava strofinando un bicchiere con uno straccio più sporco del bicchiere stesso e si interruppe bruscamente, per poi riprendere a muovere la mano grattando nervosamente con le unghie sul vetro attraverso il panno.
“Aberforth,” lo salutò Minerva, osservando in tralice il bicchiere che stava facendo belare come una capra con il muso schiacciato sotto al tacco di uno stivale.
“Che ci fai qui?” sbottò bruscamente lui, incapace di avviare la conversazione in maniera più gentile. Si vedevano di rado e non riuscivano mai a ripartire da dove si erano lasciati la volta precedente. Era come se, ad ogni incontro, il loro rapporto dovesse essere costruito daccapo.
Minerva allungò una mano verso le sue e Aberforth sperò che volesse ringraziarlo per il regalo che le aveva spedito, ma lei sembrò ripensarci, infilandola sotto al mantello all’ultimo momento.
Quello che sembrava un rene rinsecchito le riempiva il palmo quando gli mostrò nuovamente la mano.
“Bezoar?” comprese, squadrando torvo la pietra. Sicuramente qualche mago se ne era appropriato sventrando una povera capra, pensò, sbattendo bicchiere e straccio sul bancone.
“Non è stato estratto da una delle tue,” tagliò corto severamente Minerva, indovinando i suoi pensieri. “Sospetto che un membro dell’Ordine sia stato avvelenato.”
“Chi?” la incalzò immediatamente, la questione era seria.
Tu sei in contatto con i nostri amici, sono venuta qui per saperlo da te.”
La sua voce si era leggermente incrinata, faticava a tenere a bada la preoccupazione, temendo di dover affrontare altri lutti: erano già troppi quelli che gravavano su di lei.
Aberforth si affrettò a rassicurarla, sapeva che quello che lasciava trasparire era solo una piccola parte del malessere che celava dentro di sé.
“Nessuno è stato catturato, è tutto a posto. Lupin è stato qui stamattina e faticava a camminare dritto dalla felicità. Mai visto così allegro,” prese tempo, gli fu necessario per convincersi che quello che stava per dire fosse vero. “Aveva buone notizie, solo buone notizie.”
Non ricordava l’ultima volta che aveva avuto l’occasione di dire una cosa simile e osservò attentamente Minerva attraverso gli occhiali unti, pronto a cogliere l’effetto che le sue parole avrebbero avuto su di lei.
Deciso a non lasciarsi sfuggire uno dei suoi rari sorrisi.
Lei era incredula.
“Buone notizie?” ripeté, faticando a riconoscere il suono di quelle parole.
“Tonks ha avuto il bambino. Un maschio.”
Il sorriso di Minerva non si fece attendere: malgrado l’apparenza, Aberforth sapeva bene quanto sentimentale in realtà fosse, quando grande era il suo cuore.
Persino lui aveva faticato a rimanere impassibile davanti al neo-papà. Remus rappresentava quello che Ariana avrebbe potuto diventare: anche lui vittima di un attacco violento durante l’infanzia, era riuscito a venirne fuori. La sua vittoria era una vittoria per tutti quelli che avevano patito la sua stessa sorte, ma non avevano ricevuto sufficiente aiuto, o non erano stati abbastanza forti.
Minerva, per un attimo dimentica di quello che teneva nel pugno, della guerra e di tutto il resto, allungò la mano vuota sopra al bancone e la riempì con quella ossuta di lui, questa volta senza esitare.
Aberforth restituì calorosamente la stretta, godendosi il contatto con la sua pelle morbida, sottile, insospettabilmente fragile, pervaso da quella tenerezza che in passato solo Ariana era riuscita a fargli provare.
“Mi sei mancata,” mormorò con voce roca.
Minerva scelse di superare la commozione in silenzio, rispondendo con una stretta più intensa attorno alla sua mano.
“Hai ricevuto i Torroncini all’Acquaviola che ti ho mandato?” si lasciò sfuggire, cadendo subito dopo nell’imbarazzo a causa di quello sciocco regalo. Perché non aveva scelto qualcosa d’altro? Qualcosa di professionale, magari un libro, o un…
“Torroncini?” ripeté lei, sbattendo le palpebre. “Via gufo?”
“Naturalmente! Non c’era niente di compromettente in quello stupido regalo!”
Minerva parve soppesare le sue parole.
“Ho ricevuto un gufo, ma non portava dolci, solo una foto. È a causa di quella foto che ho creduto che qualcuno fosse in pericolo.”
Gliela mostrò.
“Cos’è?” fu costretto a chiedere.
“Una pancia.”
“Per questo hai pensato al Bezoar,” intuì, maledicendosi per non averlo capito subito. Non era mai stato una cima a scuola e non gliene fregava nulla, ma non voleva che lei lo credesse uno stupido. A farlo passare per tale ci aveva già pensato Albus quando era in vita, scherzando sul fatto che lo riteneva praticamente un analfabeta, come se fosse una barzelletta vivente!
Minerva gli scosse la mano, come per destarlo da un brutto sogno.
“Ho avuto anche io bisogno di aiuto per decifrarla,” lo rassicurò. “Certo, se tutti i membri dell’Ordine stanno bene, la mia teoria sul significato di questa foto decade.”
Aberforth le dedicò un’altra occhiata e un’idea orribile lo assalì.
“Voglio sperare che il fotografo, chiunque sia, la prossima volta non punti la macchina fotografica più in basso!”
Minerva sembrò prima sorpresa, poi divertita dalle sue parole.
“Cos’è, mi trovi buffo?” grugnì, ferito.
Lei scosse la testa, alzando un braccio verso il suo viso e lasciando scivolare delicatamente la punta della dita dall’asta dei suoi occhiali giù, lungo la guancia, concludendo la carezza quando incontrò i primi ispidi peli della barba.
“Ti trovo dolce, come i tuoi occhi.”
“Solo perché li confondi con quelli di mio fratello!”
Aberforth naturalmente sapeva che tra lei e Albus non ci sarebbe mai potuto essere nulla più di una forte amicizia, ma non gli era sfuggito che l’inizio del loro avvicinamento era coinciso con la sua morte.
Aveva vissuto nell’ombra del fratello da sempre, ombra che sembrava non accennare a ritrarsi neppure dopo che era venuto a mancare il corpo che la proiettava.
Da eterno secondo, non riusciva a liberarsi dalla gelosia e la paura lo spingeva a fare uscite odiose come quella, gettando alle ortiche attimi che avrebbe dovuto invece alimentare, ricambiando quelle rare tenerezze con gesti e parole gentili.
“Sono uno stupido,” si scusò con una smorfia.
“Non sei stupido,” lo ammonì Minerva severa. “Non voglio più sentirti dire una cosa del genere.”
“Tu non pensi che io sia stupido?”
“Certo che no. Se lo pensassi te lo direi.”
Si rilassò un poco, sapeva che diceva la verità. Minerva era una persona schietta e sincera: il suo primo grande amore era stato un Babbano e lei lo aveva lasciato per non condannare entrambi alla mortificante vita di menzogne che lo Statuto di Segretezza imponeva a coppie come la loro.
Aberforth odiava i segreti e le bugie, e lei lo sapeva bene, per questo gli aveva confidato tutto quanto, ammettendo anche che l’unica altra persona con cui si era sfogata era stato Albus, pur sapendo che l’avrebbe indispettito.
“Probabilmente questa pancia non appartiene a nessuno di nostra conoscenza. I Carrow avranno intercettato il gufo con il tuo dono e, dopo aver dato fondo alla scatola di Torroncini all’Acquaviola, l’avranno sostituita con… mah, forse per loro questa foto ha un significato che le nostre menti, infinitamente più brillanti, non riescono a cogliere.”
Non gli sfuggì quel ‘nostre’ e ne fu molto lusingato. La spiegazione sembrava ragionevole e la questione sembrò, almeno per il momento, venire accantonata.
Interpretò la caduta degli argomenti di discussione come una tregua e raccolse tutto il suo coraggio per fare qualcosa che, per una volta, potesse servire davvero. Non all’Ordine, non a demolire suo fratello, ma a lui e a lei.
“Stasera siamo stati invitati dai Lupin per festeggiare il neonato,” buttò lì, lasciando vagare lo sguardo per la stanza.
Minerva reagì come se le avesse appena proposto di disertare nel bel mezzo dell’azione, un duello contro Voldemort in persona, per andare a prendere un tè con dolcetti da Madama Piediburro.
“Dovrei lasciare la scuola?” chiese brusca.
Ma lui era deciso a non tirarsi indietro. Non questa volta. Era forse la loro ultima occasione di passare una serata serena, assieme.
“Sarebbe solo per un’ora al massimo,” la tranquillizzò, trattenendo il respiro.
 
***
 
Si Materializzarono in un vicolo che tagliava tra due file di case popolari, i mattoni delle pareti affacciate sulla strada anneriti dai fumi dei mezzi di locomozione Babbani.
Aberforth borbottò qualcosa, lisciandosi goffamente con le mani la vecchia veste che indossava.
Minerva sapeva che non gli importava nulla del giudizio degli altri membri dell’Ordine, era il suo a stargli a cuore.
“Va bene così,” gli disse, prendendolo a braccetto con l’intento di guidarlo verso l’abitazione di Remus e Tonks.
Lui però fece resistenza e rimase piantato saldamente al suo posto, sbirciandola da sopra gli occhiali.
“Verde,” mormorò, alludendo alla sua veste.
“È il mio colore,” spiegò tranquillamente lei.
“Come Augusta Paciock.”
Minerva gli scoccò un’occhiataccia. Non era per niente elegante nominare un’altra donna al loro primo appuntamento ufficiale, ma si sentì una sciocca ancor prima di aver finito di formulare il pensiero.
“Sì, il verde dona molto anche a lei, ma l’avvoltoio sul cappello…”
Strinse le labbra, la sobrietà nel vestire le era stata insegnata dal suo amato padre. Il verde delle sue vesti non era sgargiante, ma elegante. Il suo cappello da strega era semplice e disadorno, i capelli neri sempre raccolti in una crocchia ordinata.
Il guardaroba di Augusta combinava un tale caos di colori e bestie morte da farla fremere per lo sdegno, cosa che non aveva mai mancato di farle notare quando frequentavano Hogwarts assieme.
“È una questione irrilevante, comunque,” aggiunse lealmente. “Augusta è una grande strega.”
Aberforth annuì.
“I Mangiamorte hanno mandato Dawlish, l’Auror, a catturarla.”
Minerva riconsiderò subito la fotografia della pancia, preoccupata. Per fortuna l’avevano portata con loro!
“Non è stata avvelenata,” le sorrise tra la barba lui, come se l’aver previsto correttamente la sua reazione lo rendesse allegro e più sicuro di sé. “Ha mandato l’Auror al San Mungo ed è fuggita. Sta bene.”
Abbassò lo sguardo e tutta la sicurezza appena conquistata sembrò scivolargli via, correndo come acqua lungo la barba che aveva preso a tormentarsi con le dita.
“Allora… ehm… classe di ferro la vostra, eh?”
Insospettita da quell’ulteriore tentativo di fare conversazione, si chiese dove volesse andare a parare.
“Allora…” ritentò lui, sfregandosi nuovamente i palmi delle mani sulla veste. “Ehm… parlando con il ragazzo… Neville, intendo… di sua nonna, è saltato fuori che l’unica cosa che fino a poco tempo fa credeva di aver ereditato da lei era la passione per il ballo. Ha detto che anche tu sei molto brava.”
Minerva finalmente comprese il senso di quel lungo giro di parole e rimase piacevolmente stupita.
“Mi stai chiedendo di ballare?”
“Perché, non si può?” si irrigidì lui, pensando di aver esagerato.
“Aberforth…”
“So ballare! Mi sono esercitato con le… ehm… capre. Quelle più alte. Ne ho tirata in piedi una su due gambe e…” arrossì, sicuramente pensando che sarebbe stato meglio omettere la parte sulle capre.
Gli prese una mano, posandogli l’altra sulla sua schiena. Il vicolo era deserto e l’unico lampione abbastanza vicino da illuminarli chiaramente era guasto.
Danzarono lentamente, protetti da quel crepuscolo artificiale, mossi dalla musica dei loro respiri. Presto furono così vicini da doversi fermare, il corpo che trovava rifugio sicuro tra le braccia dell’altro.
Minerva cercò di ricordarsi l’ultima volta che aveva abbracciato un uomo con tanta forza da sentire il suo cuore battere contro il proprio, i suoi capelli tra le dita, la sua guancia ruvida nascosta contro il collo nudo.
Non seppe dire quanto durò il momento, ma il risveglio fu molto brusco.
“Ninfadora! Dove credi di andare?”
Un’altra voce, incredibilmente vicina, si rivolse a loro.
“Scusate! Scusate!” si affannò precipitosamente la proprietaria, prima di voltarsi con un gran sorriso e sparire dentro l’abitazione, consegnando un sacco nero alla donna che era rimasta ferma all’ingresso. “Volevo solo buttare l’immondizia, mamma.”
Andromeda, accorgendosi solo in quel momento della loro presenza a un passo dal piccolo cortile della sua casa, le lanciò uno sguardo pieno di rimprovero e preoccupazione.
“Volete entrare?” li invitò educatamente, tornando a volgersi verso di loro.
“Solo un attimo, Andromeda.”
La donna non attese ulteriori spiegazioni, annuì comprensiva e si richiuse silenziosamente la porte alle spalle.
Minerva aveva saputo della morte di suo marito: si ricordava di Ted Tonks, era stato un ragazzo altruista e volenteroso come solo i Tassorosso riuscivano ad essere, ed essendo anche lei vedova poteva capire quanto dolore stesse provando. Aveva amato Elphinstone, un sentimento più maturo di quello provato per Dougal, il suo primo amore, ma non meno intenso. Aveva sofferto immensamente per la sua perdita.
Aberforth, che si era scostato da lei per la sorpresa, fece un ulteriore passo indietro, osservando cupo la modesta casetta di quel quartiere popolare di Londra. Il suo umore era precipitato, Minerva lo percepì immediatamente.
“È lei il Custode Segreto dei Lupin.”
“Scelta logica. Remus lavora attivamente per l’Ordine, e se venisse catturato…”
Lui studiò attentamente il suo viso, troppo desideroso di dire la sua per scegliere di lasciar perdere, tentando piuttosto di riconquistare la dolcezza del loro abbraccio.
“La ragazza era la scelta logica,” ribatté con foga. “Ma ha messo subito in chiaro la sua intenzione di tornare in prima linea appena le sue condizioni fisiche glielo permetteranno!”
Minerva si eresse in tutta la notevole statura: non sopportava quando gli uomini emettevano giudizi del genere, come fossero gli unici a cui era concesso combattere, relegando loro al ruolo di povere incapaci da proteggere.
“Appoggio pienamente la scelta di Ninfadora!” replicò altezzosa, gli occhi che lampeggiavano.
Aberforth non cercò di nascondere il disappunto.
“Ci sono situazioni in cui il Bene Superiore dovrebbe passare in secondo piano, dove si dovrebbe pensare prima a se stessi!” disse con disprezzo. “E il primo a farlo dovrebbe essere Potter!”
“Un inno all’egoismo. Poco credibile, se uscito dalla bocca del membro più anziano dell’Ordine della Fenice.”
Minerva aveva capito di essersi sbagliata: non stava affatto discutendo di uomini e donne con metri di giudizio differenti in base al sesso, e si diede della sciocca. Simili razzismi erano cose da Babbani, tra i maghi erano rari e condannati dai più.
Purtroppo, proprio come lui, spesso si faceva prendere dai propri ideali, lottando per difenderli anche quando lo sgarbo avveniva solo nella sua testa.
Il suo commento era legato esclusivamente alle scelte del fratello, quelle che non perdeva mai occasione di criticare aspramente. Nelle coppie giovani il principale motivo di scontro erano i rispettivi genitori, per loro era Albus. Quello che era stato il suo miglior amico era diventato un ostacolo alla sua relazione e la cosa la faceva soffrire molto.
“Hai mai pensato che a volte il Bene Superiore e quello delle persone che ami coincidono?” cercò il suo sguardo, senza successo. “Non sarà certo questo il mondo che permetterà a Teddy Lupin di diventare grande.”
Tacque, aspettando pazientemente che digerisse l’analogia tra il piccolo appena nato e Ariana.
“Il Bene Superiore progettato da mio fratello e Grindelwald avrebbe forse permesso a nostra sorella di non doversi più nascondere, ma a che prezzo?”
Sapeva che aveva ragione, ma sperava che prima o poi avrebbe capito che Albus li aveva sempre amati. Anche se da ragazzo la sua arroganza aveva preso il sopravvento, pensava davvero di fare qualcosa di buono per Ariana.
Si chiese se Aberforth sarebbe mai riuscito ad andare avanti, lasciandosi il passato alle spalle, se avrebbe mai capito quanto in questo fosse simile a quel fratello che era incapace di perdonare.
Prima di raggiungere gli amici ebbero bisogno di lasciar sgonfiare in silenzio il rancore, e solo quando furono abbastanza calmi da accettare le reciproche scuse si sentirono pronti a bussare alla porta d’ingresso.
Fu Tonks ad accoglierli.
“Vi aspettavamo,” strizzò l’occhio e piegò la testa verso le persone che affollavano il modesto salotto. “Non ho detto una parola sul vostro, ehm… su di voi. Voi assieme, intendo,” alzò le spalle. “Ok?”
Minerva sospirò. Era già preparata al peggio: Ninfadora era una carissima ragazza, ma era anche una grande impicciona e tra le persone assiepate attorno a Remus aveva individuato anche una ciarliera Molly Weasley. Non si vergognava del suo abbraccio con Aberforth, ma una discussione ‘tra donne’ con Molly l’avrebbe volentieri evitata.
“Ti ringrazio per la discrezione. Ma parliamo piuttosto di te, come stai?” chiese con sincero interesse.
“Alla grande!” le rispose raggiante, muovendo gli occhi da lei a Aberforth.
Lui, stufo di dover sottostare alla sua palese curiosità, decise che ne aveva abbastanza e le cacciò sotto al naso la fotografia della pancia, con l’intenzione di seppellire definitivamente ogni argomento che riguardasse loro due.
“Minerv… cioè, la McGranitt, ha ricevuto un gufo con questa. Ne sai qualcosa?”
Tonks, invece di rispondere, additò il marito, urlando:
“Reeemus! Vieni un po’ qui a presentare Teddy anche a loro.”
Mentre si avvicinava, spiegò:
“Gli abbiamo dato il nome di mio padre. Lui… lui avrebbe tanto voluto conoscere il suo nipotino...” nominare il padre la commosse, ma ricacciò subito indietro le lacrime con un sorriso. “Remus ne ha fatte molte di foto come questa… diceva che non voleva più perdersi neppure un attimo della vita del nostro bambino, perché quei giorni in cui mi è stato lontano non li avrebbe recuperati mai più, e…” si interruppe, fissandoli risoluta. “Non dovete pensare male di lui. Io l’ho perdonato, l’amore sta nel perdono.”
Minerva ascoltò con rispetto le sue parole e dovette mordersi la lingua per evitare di chiedere ad Aberforth cosa ne pensasse lui dell’importanza del perdono.
Tonks, vedendo che non avevano nulla da obiettare, abbandonò l’aria combattiva, ritornando al tono allegro.
“Mamma ha visto le foto, e secondo lei Remus è matto, invece per me è dolcissimo!”
“Teddy?” le sorrise lui che, avendoli appena raggiunti, aveva colto solo l’ultima parte del discorso. “Sì, lo è.”
Tonks, forse temendo di metterlo in imbarazzo, non rispose, limitandosi ad accarezzare teneramente la testolina del minuscolo neonato che dormiva tra le braccia del marito, sordo al caos che aveva attorno.
“Vero che è bellissimo? Tale e quale al suo papà!” disse convinta, contemplando con uno sguardo innamorato i suoi due uomini.
Remus scosse piano la testa, guardando Minerva e Aberforth di sottecchi.
“È bellissimo perché è tale e quale alla mamma.”
“No, Remus, ne abbiamo già discusso!”
“Dora…”
“Pari!”
“Vuoi proprio…?”
“Sì! Pari!”
“Va bene, dispari,” concesse alla fine, per nulla dispiaciuto.
“Pigna, pizzicotto, manicotto, tigre!” contò Tonks, picchiando nell’aria il pugno destro a ogni parola. Remus la imitò con movimenti minimi: con Teddy in braccio non poteva esagerare.
Minerva notò che Aberforth stava prendendo il gioco molto seriamente, sapeva che nel suo locale si scommetteva anche su cose del genere.
“Cinque,” decretò, contando le dita che i coniugi avevano aperto. “Ha vinto Lupin.”
Remus non esultò per la vittoria, non perché provasse vergogna per quel gioco che sembrava uno di quei rituali divertenti che nascevano in ogni coppia, ma perché l’occhio gli cadde sulla foto che Aberforth teneva ancora sollevata.
“Oh. Quella…?” chiese, sorpreso.
“Ti deve essere caduta di tasca quando ti sei Materializzato alla Testa di Porco per dirmi della nascita del ragazzino,” spiegò Aberforth.
Doveva essere atterrata nella scatola di Torroncini che era stata poi intercettata dai Carrow. Forse era per mostrarsi utili che dopo essersi spazzolati i dolci l’avevano consegnata a Piton.
“Probabile. Ultimamente sono un po’ imbranato,” ammise Remus, scusandosi con un altro sorriso. Sembrava non avere più altre risposte che non fossero un sorriso: la sua incontenibile felicità era commovente. “Allora… vero che Teddy assomiglia a Dora? Anche i numeri sono dalla mia parte!”
Minerva osservò attentamente il faccino del bimbo, sfiorandogli con le dita le guance tonde.
Poi incrociò gli occhi pieni di orgoglio e gioia dei genitori. Soffermandosi su quelli di Tonks notò che erano dello stesso colore di quelli di sua madre e della zia a cui Andromeda somigliava tanto: Bellatrix Lastrange.
Aveva visto i capelli della ragazza trasfigurati in ogni possibile tonalità, ma i suoi occhi erano sempre scuri e scintillanti.
A quanto pareva, erano l’unica parte del suo aspetto che non poteva modificare, forse perché erano quello che più raccontavano di una persona.
Si voltò verso Aberforth e gli stessi occhi di Albus sostennero il suo sguardo.
Era dunque vero quello che lui sosteneva? Lo confondeva con suo fratello?
Albus era stato un grande amico, una delle persone più importanti della sua vita, ma non era mai stata innamorata di lui.
Ciò che amava di Aberforth non erano gli occhi, era quello che si nascondeva dietro di essi a fare la differenza.

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