Note alla storia

La storia è ambientata in universo alternativo simil-Ottocento, quindi quello che leggerete potrebbe non corrispondere in tutto e per tutto al canone della saga. In tal caso, vi informerò.

“Alzati!” gli urlò la guardia, accompagnando quell’ordine con un calcio. L’uomo, colpito allo stomaco, si raggomitolò per contenere il dolore. In teoria, non era possibile che gli facesse ancora male, visto tutti gli anni che aveva passato lì dentro e tutti i calci che aveva incassato, ma in pratica era un dolore ogni volta più atroce.

“Avanti, topo di fogna, in piedi! Non sei contento che oggi te ne vai?” tornò a dire la guardia, afferrandolo per i pochi capelli che aveva in testa e mettendolo brutalmente in piedi. Controvoglia, l’uomo si alzò, cercando disperatamente di tenersi dritto, di dare forza a quelle gambe scheletriche e tremanti che cedevano già per la fatica, mentre il dolore allo stomaco era ancora forte.

Gli occhi gli si posarono sulla sua cella, quei quattro metri quadrati che avevano costituito la sua vita per tanto, troppo tempo. La branda sfatta, la finestra a sbarre, le pareti sporche e segnate. Quante volte le aveva graffiate con le sue dita, quando la disperazione si faceva troppo forte, quando l’angoscia e la fatica di stare lì dentro erano intollerabili, e allora in qualche maniera bisognava sfogarsi. Si era rotto le unghie una volta, lasciando lunghe tracce sanguinanti che le guardie non avevano lavato, perché gli fosse monito.

La guardia non gli concesse altro tempo e lo spinse fuori, e continuò a spingerlo avanti di malagrazia, insultandolo e deridendolo.  La cosa che sembrava divertirlo di più era che oggi quel disgraziato sarebbe stato di nuovo libero, di nuovo un uomo mandato nel mondo. L’uomo sentiva quelle parole crudeli fare a pezzi quel suo sogno di libertà e di luce, negarlo, avvelenarlo, frantumarlo in tanti piccoli pezzi; e cercava disperatamente di non ascoltarlo, perché una vocina dentro di lui gli diceva che era solo un’illusione, e che per lui la libertà non sarebbe mai stata una realtà.

Uscire alla luce del sole, nel cortile, fu come essere accecato. L’odore del mare e del sudore degli altri uomini, i suoi compagni di pena, gli riempirono le narici, ricordandogli che non era ancora finita. Erano tutti lì, a fissarlo, invidia e rabbia negli occhi consumati dalla fatica, nei lineamenti provati da giorni passati assieme sotto il sole e sotto la pioggia, estate e inverno, sorvegliati a vista dalle guardie umane e dai Dissennatori, cui la luce del sole sembrava non fare nulla (o almeno, così pareva a loro).

Giovani, vecchi, uomini maturi: c’erano tutti, di ogni età, in quella bolgia infernale. Alcuni erano criminali incalliti, avvezzi alle peggiori malefatte, altri semplici poveracci che avevano compiuto un passo falso, quello sbagliato. C’era chi era innocente, e chi invece era più che colpevole. Ma erano tutti uguali, tutti sporchi alla stessa maniera, tutti segnati uguali, tutti con i crani scoperti, tutti attaccati alla stessa catena. E per tutti loro, i guardiani e i Dissennatori avevano lo stesso trattamento: disprezzo e senso di superiorità. Perché loro, le guardie, loro erano le persone oneste che facevano il loro lavoro, e quelli solo dei criminali.

La guardia lo spinse avanti proprio in mezzo a loro, verso l’ufficio del responsabile. Per quanto possibile, l’uomo tentò di nascondersi allo sguardo dei suoi ex compagni, quelli che stava abbandonando per tornare in quel mondo a loro ancora precluso. Ma non c’era nulla da fare, continuava a sentirlo su di sé, quello sguardo pieno d’invidia che diventava rancore e poi odio, odio per lui che poteva andarsene. Guardavano la sua barba nera, lunga come la loro, il viso magro, la veste sbrindellata, la pelle dal colorito così olivastro, il naso aquilino, e a ogni sguardo si facevano la stessa domanda: Perché lui sì e io no?

Quello là in fondo era un uomo innocente incastrato per il delitto di un altro. Lo ripeteva ogni giorno da quando era entrato, sperando che qualcuno potesse aiutarlo. Il primo tentativo di evasione lo aveva compiuto assieme a lui: dopo due giorni li avevano ripresi. Nessuno dei due sapeva come comportarsi una volta fuori, così era stato facile individuarli e riportarli indietro. In quei due giorni, non era stato calmo un momento, tremava a ogni minimo rumore, così ansioso di essere libero di nuovo da non riuscire più a ragionare. Non che lui fosse stato molto meglio.

Vicino a lui, il giovane Ben lo osservava invidioso. Aveva solo vent’anni quando l’avevano sbattuto lì dentro a marcire, per aver osato guardare troppo una ragazza che era più ricca di lui. Aveva cercato di rapirla con il suo consenso, e questo era il risultato. Ora, non era altro che uno spettro emaciato e consunto, caricatura e parodia del bel giovanotto che era al suo arrivo, i capelli biondi divenuti di paglia, le pupille azzurre piene dell’amarezza di una vita soffocata sul nascere. La sua unica consolazione era la speranza che lei lo ricordasse: mormorava il suo nome nelle notti in cella, fra la derisione dei compagni che sapevano quant’era stupida quella speranza, perché i morti si dimenticano in fretta, e i vivi vogliono vivere. Lo sapeva anche lui che era inutile, eppure continuava a ripetere il suo nome come un incantesimo, sperando chissà che. O così, o la pazzia.

La risata di MacNair echeggiò nell’aria, la risata dell’assassino seriale che ormai non è più toccato dall’orrore del sangue perché è diventato quell’orrore, perché quell’orrore è divenuto la sua vita. Si vantava di aver fatto di tutto e di più, quel verme umano, dallo stupro alla mutilazione, e ne godeva dal racconto. Non sarebbe mai uscito da qui, ma non gli importava. Quello era il suo posto, all’inferno, e lui ci stava bene.

“Arrivederci, Piton!” gli urlò quella voce, gelandogli il cuore. Ancora una volta, qualcuno gli diceva che era tutta una bugia, che non stava davvero uscendo, che stava solo dirigendosi verso un’altra cella, solo più grande e spaziosa. No, si disse Piton, cercando di negare questa verità con tutte le sue forze. No, io sto uscendo. Io sarò libero, libero come l’aria, libero come il sole, libero come tutto quello che mi è mancato in questi diciannove anni.

Giunsero finalmente all’ufficio del responsabile, e Piton venne introdotto. Non si voltò a guardare i suoi compagni, non degnò di uno sguardo l’immondizia del genere umano di cui aveva fatto parte. Voleva tagliare i ponti con tutti loro, una volta per tutte. Potevano marcire all’inferno, lui non sarebbe tornato lì. Aveva pagato fin troppo un crimine fin troppo piccolo per meritare una condanna così dura.

“Allora, prigioniero 24601. Fatevi avanti.”

L’ufficio del responsabile era una stanza rettangolare scavata nella roccia, ammobiliata con una scrivania e una libreria piena di scartoffie: tutti i documenti relativi ai carcerati di Azkaban. Dietro la scrivania, sedeva il responsabile, nella sua divisa d’ordinanza nera, indossata con una strana eleganza, non molto comune in quel posto dimenticato da Dio. Lunghi capelli biondi, quasi pallidi, gli scendevano fino alle spalle, e due occhi grigi, freddi, scostanti, aprivano due fessure strette in un volto che aveva la durezza della pietra e il disprezzo del ghiaccio.

“Dunque, 24601… condannato nel 1796 per furto a cinque anni di reclusione, poi divenuti diciannove in seguito a ben tre tentativi di evasione… Molte volte elogiato per la buona condotta, negli ultimi tempi… Con un talento per le pozioni? Che significa?”

“Ecco…” deglutì Piton, cercando di spiegarsi. “Quando… c’è stata l’epidemia di vaiolo di drago, il nostro medico non sapeva come fare, e io ho… ho suggerito una ricetta. E ha funzionato. Sa, io ero farmacista, nel mio paese…”

“Ma davvero?” domandò il responsabile, con un ghigno. “E cosa ha portato un farmacista qui ad Azkaban?”

“Avevo bisogno di un ingrediente particolare, curavo la figlia di… un’amica. Mi sono rivolto a certa gente, ma è andata male.”

“Lo vedo” commentò ancora l’uomo, osservando con disgusto lo spaventapasseri di fronte a sé. “Comunque, il passato non conta. Quello che conta è che oggi sarai rilasciato. Dategli quel che gli serve.”

Un’altra guardia si avvicinò, porgendo a Piton una piccola scatola. L’uomo, tremante, la aprì. Dentro c’era una bacchetta nera, stretta e nodosa. Piton cercò di non sorridere troppo dalla gioia, al pensiero che aveva, di nuovo, una bacchetta in mano. Ci mise un po’ ad accorgersi che non c’era solo quella, nella scatola: una piccola pergamena gialla faceva bella mostra di sé, una pergamena su cui c’era scritto, a lettere cubitali, ALL’ATTENZIONE DEL CAPO AUROR DI QUESTA CITTA’.

“Che significa?” chiese Piton, sollevando il foglio.

“Significa” spiegò il responsabile “che ovunque andrai, 24601, dovrai mostrare quella pergamena alle autorità. Avverte che sei stato qui e che pertanto sei un soggetto pericoloso, da tenere d’occhio. Strappare quella pergamena, o non presentarla, equivale a tornare qui, stavolta a vita.”

Quelle parole fecero male, molto male. Significavano che MacNair aveva ragione, che non sarebbe mai stato veramente libero. Quel foglio, quel pezzo di carta, avrebbe ovunque testimoniato che era stato in galera, avrebbe ricordato a tutti da dove veniva. Erano una catena più pesante di tutte quelle che aveva portato in tutti questi anni, una condanna a vita ancora più implacabile.

“Bene, credo sia tutto, 24601. Buona fortuna.”

“Ho un nome, signore” scattò Piton, prima di pensare a quello che stavo dicendo. L’umanità negata in tutti quei diciannove anni tornò a galla di colpo, arrabbiata e amareggiata dall’ennesima beffa del destino, e si ribellò. “Mi chiamo Severus Piton.”

“Ah, sì?” fu la risposta, calma, tranquilla, indifferente. “Anch’io ho un nome: Lucius Malfoy. E farai bene a ricordartelo, 24601, perché al minimo accenno di un tuo comportamento… poco corretto, io verrò a riprenderti e ti riporterò qui. Dovessi impegnarci tutta la vita, lo farò.”

Ebano contro argento, i loro occhi si scontrarono. Due volontà di ferro, due forze della natura cozzarono l’una contro l’altra, e si ritirarono. Piton ingoiò la rabbia per l’insulto, ma non poté impedire ai suoi lineamenti di contrarsi in una smorfia; Malfoy invece non sembrò avere alcuna reazione, statuario come la legge che rappresentava. Ma il messaggio che si erano scambiati era lo stesso: Non finisce qui.

Poi, Piton venne portato via. In un’altra sala, gli vennero dati abiti più civili e delle provviste per qualche giorno. La pergamena gialla gli venne attaccata sulla tunica nuova, all’altezza del petto. In capo a dieci minuti, le porte di Azkaban si aprirono di fronte a lui, e Piton venne riportato a riva, nel mondo dell’onesta gente comune.

Era il 18 giugno 1815.

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